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1. Introduzione
“Senza indipendenza dei giudici non è possibile giustizia: in tutti i
tempi e in tutti i luoghi la storia dell’ordinamento giudiziario e del
processo civile e penale si identifica colla storia della indipendenza
della magistratura. La civiltà dei popoli e la forza degli Stati si misura
non tanto dalla bontà delle leggi che li reggono, quanto dal grado di
indipendenza raggiunto dagli organi che queste leggi sono chiamati ad
applicare.” Questo celebre discorso di Calamandrei
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sottolinea
l’importanza di una delle questioni più dibattute e controverse della
storia, nonchè uno dei nodi cruciali di questo lavoro.
A 150 anni dall’Unità, l’indipendenza della magistratura, e in
particolare del Pubblico Ministero, è ancora argomento di attualità ed
oggetto di discussioni parlamentari e la riforma della giustizia viene
ancora sentita come una necessità palpabile e viva. Si tratta di una
necessità vecchia quanto il nostro paese che abbisogna di essere
affrontata in modo asettico, senza farsi trascinare dalle passioni
politiche e coinvolgendo tutti i rappresentanti del popolo. E’
lapalissiano che un siffatto modus operandi rappresenta un ostacolo non
indifferente per addivinire in tempi rapidi ad un cambiamento,
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P. CALAMANDREI, Opere giuridiche, Vol. II, Morano editore, Napoli, 1966.
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soprattutto in un paese, come il nostro, dove l’instabilità governativa è
un male cronico. Tale limite è stato sicuramente una delle cause
principali di un riformismo inconcludente che si è trascinato sino agli
albori dell’epoca fascista. Tanti progetti e riforme si accavallarono
infatti nei primi 50 anni di vita dell’Italia, ma mai si osò stravolgere il
sistema giudiziario ereditato dalla Francia napoleonica. In epoca
fascista poi, quando non c’erano di certo problemi di instabilità
governativa, il regime preferì lasciar correre, consapevole che i “difetti”
della giustizia potevano essere sapientemente utilizzati per far prevalere
gli interessi del partito.
Questo lavoro si pone due obiettivi fondamentali: affrontare le
vicende che hanno avuto come protagonista il sistema giudiziario
perfezionatosi in epoca fascista, ed ereditato dallo Stato liberale,
facendo particolare riferimento al magistrato che più di tutti era legato
all’esecutivo: il Pubblico Ministero; analizzare le funzioni,
l’organizzazione ed i rapporti di questi con l’esecutivo negli anni del
mussolinismo. A questi due obiettivi ne va aggiunto un terzo implicito
legato alla nobile funzione della storia del diritto: cogliere il bene e il
male dell’esperienza umana per recepire principi e valori in grado di
migliorare la nostra convivenza. Se ancor oggi quello della giustizia ci
appare come un problema di difficile soluzione, l’esperienza umana ci
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indicherà la strada da seguire affinchè un domani lo potremmo
classificare come un lontano ricordo da rispolverare ogni volta che ci
saranno rischi di regressione.
L’analisi è stata condotta con una ricercata imparzialità, avulsa da
sentimenti politici che possono facilmente smarrire lo scrittore quanto il
lettore. Piuttosto si è cercato di dare ampio spazio a un confronto tra i
più importanti giuristi che hanno calcato il palcoscenico della storia del
nostro paese fino alla nascita della Repubblica. Dando adito anche a
teorie spregiudicate si è voluto prendere le distanze da quella scontata
contrapposizione tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra equo e iniquo
che a volte viene utilizzata per analizzare, in modo piuttosto
superficiale e patriottico, il fenomeno del fascismo. Lungi dal voler
sostenere regimi totalitari, bisogna pur riconoscere che nel periodo
fascista sono nati quei codici che, anche se debitamente modificati,
regolano ancora oggi la vita della società italiana. Codici che sin dalla
loro nascita erano impreziositi da principi e disposizioni che
rappresentano delle conquiste importanti per il diritto. Sarebbe riduttivo
catalogare come antidemocratico l’intero prodotto della lunghissima
legislatura fascista. Del resto con quale coraggio si potrebbero
marchiare come ingiuste le opere di eminenti giuristi come il Manzini o
il Rocco solo per la loro appartenenza ad un epoca tanto nefasta? E’
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indubbio che il regime abolì nella pratica ogni forma di democrazia, ma
in chiave dottrinaria, che è poi quella che ci interessa maggiormente,
non bisogna cadere in facili generalizzazioni. Spesso le classi politiche
hanno strumentalizzato il fascismo presentandolo ora come uno
spauracchio in grado di giustificare politiche fumose, ora come un
vessillo utile per dimostrare una rottura netta col passato. Ma la storia ci
dimostra che spesso le cose non sono quelle che sembrano. Questo lo
sottolinea Mauro Del Giudice
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, che della giustizia fascista ha visto la
faccia più torva, ma ce lo dice anche la legislazione postfascista. E’
innegabile ad esempio l’inconciliabilità dell’amnistia Togliatti con la
tanto decantata volontà repubblicana di voltar pagina. Sta di fatto che,
dopo la fine della guerra, “fascismo” è diventata una parola
impronunciabile ma al contempo ciò che esso evocava non è mai stato
messo completamente da parte. Di certo quella politica di estrema
convenienza cui tale termine può essere ricondotto non può considerarsi
un pallido ricordo del passato.
Il lavoro è stato articolato in due parti. Nella prima parte è stata
effettuata un indagine sulla nascita e l’evoluzione del sistema
giudiziario fino all’avvento del fascismo al fine di dare una forma al
contesto in cui va inserita la figura del Pubblico Ministero. In tale ottica
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M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, Palermo, 1954.
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sono state analizzate innanzitutto le conseguenze e le questioni
scaturenti dall’estensione della legge Rattazzi, l’animus del primo
ordinamento giudiziario italiano, nei vari territori della penisola. Sono
state enunciate le critiche mosse dai più importanti storici
contemporanei come D’Addio e Allegretti e dai più importanti giuristi
dell’epoca. Sono state esaminate le più significative riforme realizzate
in tema di giustizia fino agli anni ’20, accennando anche ai progetti più
importanti che non hanno avuto la fortuna di conoscere la
promulgazione. Oltre alla legge Rattazzi lo studio si è concentrato sui
cambiamenti avvenuti durante il ministero Finocchiaro-Aprile non
trascurando le leggi Zanardelli ed Orlando. Sempre nella prima parte, e
sempre per delimitare i confini della materia oggetto di studio, è stata
effettuata una veloce analisi della politica giudiziaria fascista dando
rilevanza alle circolari e ai decreti sui quali essa era basata, senza
dimenticare i Testi Unici sull’ordinamento giudiziario e i codici che
durante il Regime videro per la prima volta la luce.
La seconda parte, che entra più nello specifico, è incentrata sulla
figura del Pubblico Ministero ed è finalizzata a far conoscere quelle
che erano le teorie che orbitavano attorno al sistema dei rapporti tra PM
ed esecutivo. In nome dell’imparzialità sono state prese in
considerazione sia le tesi che sostenevano la necessità di una
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dipendenza del Pubblico Ministero dall’esecutivo
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, sia quelle
maggiormente orientate verso il costituzionalismo. Nel corso dello
studio non è mancata l’occasione di trattare casi interessanti quanto
eloquenti in grado di dare una ratio anche ad asserzioni che sembravano
esserne prive. Emblematico quello Garibaldi, che ci informa della forza
del sentimento popolare il quale riesce tal volta a deviare delle scelte
verso soluzioni che, col senno di poi, sarebbero inaccettabili, almeno
sul piano del diritto. Ovviamente, considerando il periodo oggetto di
studio, tale caso non può godere della stessa attinenza di quello
Matteotti che ben dimostra il clima che, in epoca fascista, dovevano
affrontare pubblici ministeri integerrimi mal disposti a scendere a
compromessi. Ma al di là della casistica questa parte, che è il cuore
dell’opera, si incentra sui principi che regolavano l’esercizio dell’azione
penale e sull’organizzazione interna degli uffici del Pubblico Ministero,
così come vennero saldati dall’Ordinamento 1941, l’ultimo del regime.
Alla luce del lavoro svolto emergono alcuni aspetti interessanti.
Innanzitutto quella sfalsata separazione dei poteri, che la communis
opinio riconduce soave alle opere fasciste, si è rivelata piuttosto una
pesante eredità del passato. Già nello Stato liberale il Pubblico
Ministero era sostanzialmente un arma nelle mani dell’esecutivo e
questa situazione non era di certo nuova al mondo occidentale.
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Si allude in particolare alle teorie del Lucchini
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L’Ordinamento giudiziario italiano 1865, ed avremo più volte
l’occasione di ricordarlo nel corso dell’opera, riproduceva quello
sabaudo che, a sua volta, traeva spunto da quello francese di inizio
‘800. Questo stato di cose, che ci rende tra l’altro edotti circa
l’importanza della prima parte dello studio, permise al Duce di operare
senza la necessità di riforme epocali, almeno in tema di giustizia. La
struttura del sistema giudiziario, formatasi ben prima del regime, si
mostrò infatti particolarmente flessibile nell’asservirsi agli scopi del
partito. Così i cambiamenti più importanti riguardarono nomine e
promozioni dei magistrati di modo che le persone più fedeli alla causa
fascista potessero accedere ai gradi più elevati della magistratura. In
effetti fu soprattutto la magistratura dei gradi inferiori a esprimere
maggiore coraggio attraverso sentenze audaci.
Dunque se dovessimo usare due aggettivi per descrivere la politica
giudiziaria fascista la congenialità ci condurrebbe verso l’astuzia e la
sottigliezza. Del resto soggiogare la magistratura tramite un controllo
dall’alto, attraverso il potere di direzione riconosciuto al Ministro di
Giustizia, e dal basso, attraverso l’attività della polizia, permetteva al
Governo di esercitare un controllo totale sui giudici senza la necessità
di riforme che magari avrebbero intaccato la popolarità di una politica
basata sul consenso. Malgrado l’esistenza di principi che tutt’oggi si
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presentano come imprescindibili in materia processualpenalista come
l’obbligatorietà, il monopolio o l’ufficialità dell’azione penale, le regole
sulla nomina dei magistrati, l’attività della polizia e l’organizzazione
interna degli uffici del Pubblico Ministero davano all’esecutivo la
possibilità di giostrare a suo piacimento l’esercizio dell’azione penale e
di tale possibilità il regime si servì tutte le volte in cui sorse qualche
rischio di rottura della sua egemonia.