Tuttavia l’esperienza dell’ultimo ventennio, soprattutto europea,
caratterizzata da vistosi fenomeni di persistenza, nonché dal fatto che spesso il
permanere di elevati tassi di disoccupazione non ha avuto l’effetto di indurre una
decelerazione dell’inflazione, sembra contraddire nettamente l’ipotesi
dell’esistenza di un unico tasso di equilibrio. Per questo l’attenzione della
maggior parte degli economisti
3
si è rivolta verso il tentativo di dimostrare che il
tasso naturale di disoccupazione subisce significative variazioni nel tempo.
Queste tesi, tuttavia, non sono state a riparo da critiche
4
, sia per una qualche
debolezza dell’evidenza empirica a sostegno, sia per alcuni passaggi
analiticamente poco convincenti.
Di qui lo sviluppo, in tempi relativamente recenti, delle cosiddette teorie
dell’isteresi che, legando la disoccupazione di equilibrio alla situazione passata
del tasso di disoccupazione, portano di fatto a negare l’esistenza stessa di un tasso
di disoccupazione di equilibrio
5
. Secondo le ipotesi di isteresi, infatti, è possibile
che il tasso di disoccupazione rimanga, in seguito a perturbazioni, su un livello
più alto, sebbene le cause, che ne hanno determinato l’aumento, vengano rimosse;
il problema, quindi, viene ad essere incentrato non tanto su quelli che sono gli
impulsi al mercato del lavoro, quanto piuttosto sulle risposte, in termini
economici, che tali impulsi hanno determinato. Questa path dependence del tasso
3
Cfr. Basevi G., Blanchard O., Buiter W., Dornbusch R., Layard R. [1984], Coe D., Gagliardi F.
[1985].
4
Cfr. Gordon R.J. [1989], Lawrence R.Z., Schultze C.L. [1988], Englander-Egebo [1993].
di disoccupazione è stata analizzata, dalla letteratura economica, attraverso diversi
canali di spiegazione; lo scopo del presente lavoro è quello di individuare alcune
delle cause, legate all’ipotesi di isteresi della disoccupazione, relative
all’andamento di variabili microeconomiche del mercato del lavoro. Viene quindi
utilizzato, nell’analisi, un approccio di tipo insiders-outsiders (Blanchard-
Summers [1987], Lindbeck-Snower [1985], [1986], [1987]), ed un approccio
definito Human Capital (Blanchard-Dréze-Giersch [1990]).
Ad ogni modo, indipendentemente dalle argomentazioni analitiche proposte
per spiegare la path dependence osservata nel tasso di disoccupazione, la teoria
dell’isteresi è stata spesso presentata come il definitivo superamento della curva
di Phillips (Jossa B. e Musella M. in Amendola A.[1995]).
5
Cfr. Blanchard-Summers [1986], [1987], [1988], Gordon R.J. [1989], Katzner D.W. [1993].
2. Il tasso naturale di disoccupazione nelle definizioni di
M. Friedman
Nel 1968 Friedman definì il tasso naturale di disoccupazione come:
“...quel livello di disoccupazione che risulterebbe dal sistema di
equazioni dell’equilibrio walsariano, purché in esso vengano
inserite le caratteristiche strutturali effettive del mercato del
lavoro e dei beni, comprese le imperfezioni del mercato, la
variabilità stocastica delle domande e delle offerte, il costo
delle informazioni sui posti disponibili e sulle possibilità di
lavoro e così via” [Friedman M., 1968, p.263].
A molti parve che con questa definizione egli individuasse un livello di
disoccupazione che corrisponde alla piena occupazione. Così, nei dibattiti degli
anni settanta, si è fatto spesso riferimento alla teoria dei monetaristi della curva di
Phillips e del tasso naturale di disoccupazione come ad una versione aggiornata
della teoria neoclassica secondo la quale il sistema economico tende sempre ad
essere in equilibrio: il punto nel quale la tradizionale curva di Phillips interseca
l’asse delle ascisse esprime un tasso di disoccupazione di piena occupazione
6
.
A conferma di quanto detto si possono citare numerosi scritti che, negli anni
settanta, consideravano in tal modo il tasso naturale di disoccupazione ed in primo
6
Molti manuali sono ancor oggi pieni di definizioni di tal genere del tasso naturale: cfr., per
esempio, Dornbush e Fisher, 1988, p.539 e Hall e Taylor, 1990, p.383.
luogo gli stessi contributi di Friedman di questo periodo: nel celebre saggio del
1975, ad esempio, dopo aver presentato un grafico con domanda ed offerta di
lavoro ed una curva di Phillips, egli affermava chiaramente che il punto nel quale
la curva di Phillips interseca l’asse delle ascisse è corrispondente al punto di
incontro tra domanda e offerta di lavoro; e in esso:
“la disoccupazione è zero, il che vuol dire che è uguale alla
disoccupazione frizionale o di transizione o, per usare la
terminologia da me adottata alcuni anni fa e che ho derivato da
Wicksell, al suo tasso naturale” [Friedman, 1975, p.152].
Contrariamente a quanto Friedman scrive, tuttavia, tra le diverse definizioni
da lui proposte vi è una differenza evidente. Il riferimento alle imperfezioni dei
mercati ed alla mancanza di informazioni che si trova nel saggio del 1968 è tale
da rendere il concetto "tasso naturale" un modo aggiornato di trattare la piena
occupazione solo se si definisce volontaria tutta la disoccupazione che:
“nasce da atti compiuti dai lavoratori individualmente o
collettivamente, in particolare attraverso i sindacati”
[Malinvaud, 1986, p.29];
e lo stesso Friedman, nello scritto del 1968, ammette:
“È forse degno di nota che questo tasso naturale non
corrisponde all’uguaglianza tra il numero dei disoccupati ed il
numero dei posti vacanti. Per ogni data struttura del mercato
del lavoro, vi sarà una certa relazione di equilibrio tra queste
due grandezze, ma non vi è ragione perché essa debba essere di
eguaglianza” [Friedman, 1968, p.263 in nota].
Nelle definizioni degli anni settanta, invece, è lo stesso Friedman a
considerare il tasso naturale di disoccupazione alla stregua del concetto di piena
occupazione di Beveridge, secondo il quale i lavoratori sono appieno occupati
allorché vi è uguaglianza tra i posti vacanti ed il numero dei disoccupati (dato che
la disoccupazione è zero quando la domanda e l’offerta di lavoro sono eguali e
domanda e offerta di lavoro sono eguali quando il numero dei disoccupati è
uguale al numero di posti vacanti).
Dunque a ben vedere, mentre nel 1968 Friedman parlava di NAIRU, nello
scritto del 1975 egli si riferisce al concetto di NRU. E tra NAIRU e NRU esistono
differenze consistenti, poiché essi coincidono solo se si verificano condizioni
fortemente irrealistiche, quali l’esistenza di concorrenza perfetta in tutti i mercati.
3. NRU, NAIRU e disoccupazione involontaria
Nella letteratura degli anni settanta sono stati esplicitamente introdotti i
concetti NAIRU e NRU nei quali scompare il riferimento a posizioni "naturali"
del sistema economico e quindi ogni possibile equivoco sulla necessaria
corrispondenza tra tasso di disoccupazione di equilibrio e situazioni di piena
occupazione
7
. Ma solo alcuni hanno prospettato la contrapposizione tra NRU e
NAIRU come una contrapposizione tra chi sosteneva la tendenza del sistema a
raggiungere posizioni di equilibrio di piena occupazione (i teorici del NRU) e chi,
invece, parlava del NAIRU come di un equilibrio con disoccupazione
involontaria. Nella maggior parte dei casi la letteratura della seconda metà degli
anni settanta e di molta parte degli anni ottanta ha usato i due concetti come
sinonimi
8
.
Eppure la matrice keynesiana dell’idea del NAIRU era ben chiara sin
dall’inizio. Sin dalle prime interpretazioni della curva di Phillips vi è stato chi ha
usato quella curva per spiegare le inflazioni da domanda e chi l’ha usata per
spiegare le inflazioni da costo. Chi spiega le inflazioni con la spinta dei costi dà
gran peso al potere contrattuale dei sindacati nella determinazione dei salari,
spiega i prezzi con la teoria del costo pieno ed interpreta pertanto la curva di
Phillips osservando che quanto più alto è il livello dell’attività economica tanto
7
Il concetto di NRU e’ stato proposto per la prima volta da Modigliani e Papademus [1975].
più il livello dei prezzi tende ad accelerare di anno in anno o tanto meno tende a
decelerare, poiché al ridursi della disoccupazione la forza contrattuale dei
sindacati cresce o, comunque, cresce la spinta verso l’alto sui salari.
Quando la domanda aumenta e la disoccupazione si riduce, la forza
contrattuale della classe lavoratrice e dei sindacati cresce per diverse ragioni. La
principale è che la classe lavoratrice, di regola, è divisa nella sua azione
rivendicatrice di più alti salari (e migliori condizioni di lavoro); laddove, infatti,
gli occupati sono, per lo più, favorevoli ad ogni tipo di rivendicazione che non
metta in pericolo il loro posto di lavoro, i disoccupati hanno ragione di temere che
ogni aumento del costo del lavoro renda più difficile per loro la ricerca
dell’occupazione. Ma, se gli interessi dei lavoratori disoccupati sono, di regola, in
contrasto con gli interessi dei lavoratori occupati, l’azione dei sindacati è frenata
dall’esistenza della disoccupazione e, sia la forza contrattuale dei sindacati, sia la
loro volontà di esercitare la forza che hanno, si riducono quando la
disoccupazione aumenta. In sostanza il sindacato sa che l’aumento dei salari tende
a ridurre l’occupazione, sicché, se il suo interesse non è solo quello di difendere e
migliorare i posti di lavoro esistenti, è ragionevole credere che esso sarà tanto più
moderato nelle sue rivendicazioni quanto maggiore è il livello di disoccupazione.
L’obiettivo della piena occupazione è, infatti, un obiettivo di fondamentale
importanza per ogni sindacato che voglia perseguire gli interessi di tutti i
8
Cfr., per es., Layard e Nickell, 1985; Johnson G.E. e Layard R., 1986.
lavoratori; sicché, quanto più si è vicini a perseguire questo obiettivo, tanto più il
sindacato potrà tendere a raggiungere anche gli altri obiettivi, e tanto più, in
particolare, vorrà chiedere aumenti di salario (cfr. Nevile, 1979, p.111).
Ma il potere dei sindacati cresce al crescere dell’occupazione anche per altre
ragioni. Innanzitutto, quando la domanda globale è alta e l’economia è in crescita,
i datori di lavoro sono ansiosi di sfruttare al massimo le opportunità di profitto che
l’alto livello delle vendite consente, e temono, perciò, gli scioperi che si
accompagnano alle rivendicazioni sindacali; e ciò, unitamente, all’alto livello dei
profitti (che consente il pagamento di più alti salari), li rende più propensi a
cedere alle richieste dei lavoratori. Diversamente accade, invece, quando la
domanda globale è bassa, perchè in tal caso le imprese sono preoccupate dal fatto
che producono più di quanto vendono e un’interruzione di lavoro per scioperi, può
essere giudicata addirittura opportuna, in considerazione del fatto che durante gli
scioperi i salari non vengono pagati. Quando la disoccupazione è bassa, inoltre,
gli scioperi hanno maggiore possibilità di successo, perché le imprese non trovano
facilmente lavoratori che possano e vogliano sostituire coloro che scioperano.
Quando la disoccupazione si riduce, poi, cresce anche la forza contrattuale
dei lavoratori non iscritti al sindacato, perché la maggior facilità di trovare un
posto di lavoro induce anche questi lavoratori ad avanzare maggiori pretese; e gli
aumenti di salario, ottenuti dai non iscritti al sindacato, si riflette in richieste
maggiori anche per i lavoratori sindacalizzati, che hanno di solito salari più alti e
si battono per conservare questo privilegio.
Anche in questa spiegazione, quindi, la relazione tra tasso di aumento dei
salari e disoccupazione è decrescente; vi sarà, quindi, un punto della curva di
Phillips, che rappresenta questa relazione, che incontra l’asse delle ascisse.
Questo è il punto che individua il NAIRU; quindi esso non è collegato alla
situazione in cui domanda e offerta di lavoro sono uguali. Ed è altresì evidente
che il NAIRU è compatibile con la disoccupazione involontaria
9
. In questa ottica,
la riduzione della disoccupazione è la causa, e l’aumento dei salari è l’effetto, e
non viceversa
10
. Questa è in un certo senso un’interpretazione che possiamo
considerare keynesiana, poiché una delle caratteristiche della visione di Keynes,
che vale a distinguerla nettamente dalla visione neoclassica, è che non sono i
salari a determinare l’occupazione, ma è l’occupazione che determina i salari.
Questo punto è di notevole importanza perché, come si è detto, sin
dall’inizio le interpretazioni della curva di Phillips si sono divise in due gruppi,
quelle di tipo conflittuale, che usano per lo più la teoria del costo pieno e spiegano
l’inflazione con la pressione dei costi, e quelle che invece spiegano l’aumento dei
salari e dei prezzi con la legge della domanda e dell’offerta. La scoperta del
NAIRU sembrava quindi aver consolidato questa tradizione e schierato da una
9
Tra quanti ,invece, identificano il NRU con il NAIRU, vedi ad es. Blanchard e Fischer (1989)
pp. 543-44; Taylor (1988) p.131.
parte i Keynesiani, per i quali il NAIRU è ben compatibile con la disoccupazione
involontaria, e dall’altra parte i neoclassici, per i quali ogni aumento dei salari è
sempre dovuto all’eccesso della domanda sull’offerta di lavoro e il NRU è quel
tasso di disoccupazione, volontario o frizionale, per il quale domanda e offerta di
lavoro sono uguali
11
. Entrambe le interpretazioni quindi accettano l’idea che vi è
una curva di Phillips di lungo periodo verticale. Questa comporta, in effetti, una
critica alle politiche Keynesiane di gestione della domanda ed all’idea che vi sia
un menu di scelte possibili per i policy makers e sembra distruggere, cosi, la
visione Keynesiana della politica economica. Blinder (1988), nota giustamente a
tale proposito che la dottrina del NRU porta con sé l’idea che le autorità di
politica economica devono accettare l’alta disoccupazione con un’aria di
rassegnazione, come un fenomeno generato dalla natura; ed è per questo che vi è
ragione di dire che il più grande colpo inferto al keynesianesimo fu l’introduzione
del concetto di saggio naturale di disoccupazione (Jackman, Layard e Pissarides,
1986, p. 111).
Quindi, in ultima analisi, se sul piano teorico la definizione più corretta del
tasso di disoccupazione di equilibrio è quella che Friedman ha dato nell’articolo
del 1968 e se, sul piano empirico, la disoccupazione di equilibrio si stima a partire
da ciò’ che è storicamente verificato, il concetto di NAIRU si presenta come più
10
Per studi empirici che confermano questo tipo di interpretazione della curva di Phillips vedi, ad
es. Nevile (1979).
idoneo a descrivere il punto di equilibrio del sistema economico sulla curva di
Phillips, proprio perché esso non implica in alcun modo il riferimento ad una
posizione di piena occupazione; d’altra parte, la stessa evoluzione degli studi
applicati nel corso di questi anni, con il progressivo aumento del "tasso naturale",
rende più idoneo il riferimento al NAIRU, salvo a ricorrere ad un argomento
tautologico per il quale qualunque aumento del trend della disoccupazione finisce
per poter essere spiegato in termini di un aumento del tasso naturale.
11
Tra quanti sottolineano la netta distinzione tra NRU e NAIRU, vedi, in particolare, Cornwall
(1989) pp.99-100; oppure anche Kahn (1980).
4. Critiche al tasso naturale di disoccupazione
Alla luce di quanto detto, grande importanza rivestono le esperienze recenti
di molti paesi, che mostrano chiaramente che non vi è un unico tasso di
disoccupazione di equilibrio verso cui il sistema continuamente tende.
L’esperienza europea degli anni settanta e ottanta contraddice, infatti, l’idea che
vi sia un unico tasso di disoccupazione per il quale l’inflazione non accelera né
decelera, sia perché durante questi decenni il permanere di alti tassi di
disoccupazione spesso non ha avuto l’effetto di indurre una riduzione continua del
tasso di inflazione sia, e soprattutto, perché in molti paesi capitalistici avanzati il
tasso di disoccupazione che riusciva a frenare l’inflazione, è andato fortemente
crescendo nel corso degli anni.
Questi fatti hanno indotto molti teorici a dire (come si è già osservato) che il
tasso naturale di disoccupazione subisce forti e durevoli oscillazioni da periodo a
periodo, tanto che l’aumento della disoccupazione storicamente registrato si
potrebbe attribuire a cambiamenti strutturali
12
che hanno causato un aumento
della disoccupazione di equilibrio.
Per molti autori una delle spiegazioni dell’aumento del tasso di
disoccupazione sono gli aumenti delle prestazioni sociali e degli aiuti alle classi
meno abbienti; un’altra causa è il crescente potere di monopolio dei sindacati;
altre cause sono legate ai mutamenti del mercato dell’edilizia, che hanno
notevolmente ridotto la mobilità geografica della manodopera (Cfr., ad es.,
Healey, 1988, pp.110-11); altre, ancora, sono legate ai mutamenti di tipo
demografico e, in particolare, ai cambiamenti della composizione per età della
popolazione. Guardando l’evidenza empirica della realtà, si possono trovare
indubbiamente ragioni per cui il tasso naturale di disoccupazione è cresciuto ,
soprattutto dopo il 1975; in numerosi paesi la mobilità del lavoro fu in quegli anni
ridotta da restrizioni di vario genere, i licenziamenti furono resi più difficili da
vincoli di legge, alti livelli dei salari furono resi rigidi da clausole di scala mobile,
i sussidi di disoccupazione furono accresciuti, etc. Ma l’idea che l’aumento della
disoccupazione, se persistente, si debba sempre spiegare con l’aumento del tasso
naturale di disoccupazione è stata ampiamente criticata (Cfr., ad es., Summers,
1986; Krashewsky, 1988). La disoccupazione in Europa è cresciuta da livelli del
2% negli anni sessanta a livelli del 10% e più alla fine degli anni ottanta ed è
andata, poi, ulteriormente crescendo nei primi anni novanta e le prove del perché
il tasso naturale di disoccupazione possa esser cresciuto tanto non risultano affatto
convincenti. Per alcuni paesi uno studio recente ha mostrato che, a seguito di uno
shock salariale localizzato, lo squilibrio nei salari e nei prezzi ed un livello più
alto di disoccupazione persistono in misura significativa anche cinque anni dopo il
disturbo iniziale; e ci vogliono più di uno o due punti in più di disoccupazione per
12
Per una delle prime affermazioni in tal senso vedi Sargent, 1976.
cinque anni per eliminare un disturbo iniziale dei salari dell’un per cento (Cfr.
Englander ed Egebo, 1993, p.21). In un volume di Lawrence e Shultze del 1988
numerosi autori hanno passato in rassegna l’evidenza empirica portata a sostegno
dell’esistenza di fattori strutturali di vario genere che avrebbero potuto far
aumentare il tasso di disoccupazione e sono giunti alla conclusione che tale tesi è
senza solide prove (Cfr. Lawrence e Shultze, 1988). Analogalmente uno studio di
Gordon è giunto alle stesse conclusioni (Cfr. Gordon, 1988).
Si comprende, così, perché mai un economista come Hahn abbia di recente
osservato: "per quanto mi riguarda, nutro forti dubbi di ordine teorico sul concetto
di tasso naturale di disoccupazione" (Cfr. Hahn, 1993, p.9).