1
Introduzione
Scrittore poliedrico e fecondo, grande divulgatore della letteratura italiana e del
patrimonio classico nella sua Venezia e non solo, Ludovico Dolce occupa un posto di
rilievo nello studio della letteratura veneta cinquecentesca. Nonostante la scarsa
attenzione suscitata nel corso degli ultimi secoli, Dolce si afferma con prepotenza come
uno dei letterati cinquecenteschi che contribuirono alla rinascita della tragedia
moderna, all’affermazione della lingua volgare e di quel bagaglio culturale nazionale
che ancora oggi riconosciamo come tradizione, da Boccaccio ad Ariosto, da Petrarca a
Dante del quale è proprio Dolce a consacrare in sede tipografica Divina la sua
Commedia.
1
Grazie alle numerose pubblicazioni e alla varietà dei generi delle opere stampate
sotto suo nome, Ludovico Dolce guadagna nel suo secolo un ruolo principe nella grande
opera di divulgazione della letteratura, e anche del libro stampato, grazie anche alla
condivisione dello stesso fine con il suo principale collaboratore, Gabriele Giolito de
Ferrari. Il catalogo giolitino, cui Dolce contribuisce in modo consistente, “tende a
rappresentare l’intera esperienza letteraria cinquecentesca”;
2
proprio per questo motivo
l’intera attività di Ludovico Dolce, svoltasi quasi totalmente nella tipografia di Giolito, ci
sembra rappresenti un’importante testimonianza dello sviluppo letterario volgare
cinquecentesco.
Questa tesi si occupa di analizzare le otto tragedie scritte, rappresentate e pubblicate
da Ludovico Dolce nel corso della sua vita, cercando non solo di individuare le
caratteristiche stilistiche della scrittura tragica dolciana, ma provando ad inquadrare le
tragedie in un ambiente culturale e politico tanto particolare come quello veneziano nei
decenni centrali del Cinquecento.
1
E’ di Dolce l’edizione La Divina Comedia di Dante, di nuovo alla sua vera lettione ridotta con lo aiuto di
molti antichissimi esemplari, Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1555.
2
Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana 2, produzione e consumo,
Torino, Einaudi, 1983, p. 647.
2
Nella prima parte di questa tesi si tenterà di inquadrare quindi l’attività di Dolce nel
suo contesto storico con particolare attenzione alla vita in tipografia dell’autore e ai suoi
legami con i membri di una classe di uomini di cultura che lo mette necessariamente in
contatto con i grandi temi politici e religiosi dell’epoca, tra Riforma e Controriforma
cattolica.
Come vedremo attraverso i dati ad oggi conosciuti sulla stampa dei libri a Venezia
nel Cinquecento, Ludovico Dolce si presenta come un unico, eccezionale esempio di
infaticabile scrittore, con un numero di pubblicazioni a suo nome che supera quello di tutti
gli altri poligrafi frequentanti Venezia in quegli anni. In una produzione tanto vasta, le
tragedie occupano certamente un ruolo centrale perché è attraverso i versi tragici si ritrova
spesso una lettura della storia contemporanea.
3
Seguendo questa traccia, nel secondo capitolo di questo lavoro, ci occuperemo della
analisi delle lettere dedicatorie delle tragedie dolciane. I soggetti di tali lettere e gli
argomenti trattati, spesso di rilevanza per la discussione letteraria del tempo, rappresentano
una importante testimonianza della modalità di scrittura e rappresentazione delle opere
drammatiche. Nelle dediche di Dolce si alternano destinatari illustri, amici letterati, attori
professionisti che furono responsabili della messa in scena delle tragedie. Dolce offre così
un quadro decisamente esaustivo dei suoi rapporti con la società letteraria della sua epoca,
portando allo stesso tempo importanti testimonianze sulla storia della tragedia nel
cinquecento e non solo.
La terza parte di questa tesi si occupa delle prime esperienze tragiche di Dolce. La
prima tragedia, Hecuba, pubblicata nel 1543, definisce da subito le caratteristiche della
scrittura tragica del nostro autore. Scorrono nei versi dell’Hecuba temi che Dolce non
abbandona mai per tutte le tragedie. La fortuna, causa della caduta in miseria dei
protagonisti; l’aspirazione ad una vita umile, lontana dalle ricchezze e dal potere; la
distanza incolmabile tra il volere del singolo individuo e la volontà collettiva che Dolce
declina in molteplici forme nelle sue tragedie; la guerra sullo sfondo di ogni tragedia sono i
temi cari a Dolce che fanno da cornice alla caratterizzazione dei personaggi. Tra questi,
3
Cfr. Beatrice Alfonzetti, Storia e dramma, in La letteratura e la storia, a cura di Elisabetta Manetti e Carlo
Varotti, Bologna, Gedit edizioni 2007
3
Dolce sviluppa con particolare attenzione le eroine tragiche, delle quali Polissena, nella
Hecuba, rappresenta l’esempio più alto e riuscito accanto al Tiranno, declinato sotto
l’influenza di Seneca, e le donne malvagie, come Medea, esempi da non seguire per le
donne veneziane che assistono alla tragedia; e infine il Consigliere.
In Hecuba, come vedremo, il ruolo di protagonista è condiviso dalla regina troiana
e da sua figlia Polissena, entrambe eroine, l’una costretta dalla fortuna a restare in vita e
soffrire i numerosi colpi della sorte, l’altra eroicamente alla ricerca della bella morte per
sfuggire alla schiavitù.
La seconda tragedia dolciana è tratta dal Thyestes senecano e ne è protagonista il
più crudele dei tiranni, Atreo. Come vedremo tutta la tragedia è giocata sul contrasto tra
l’onestà e la saggezza di Tieste, liberato dal giogo della sete di potere grazie all’esilio che
lo ha costretto ad una vita lontano dalle ricchezza, e Atreo che si afferma come crudele
tiranno attraverso l’uccisione dei tre giovani nipoti e al successivo, disumano banchetto nel
quale offre al fratello le carni dei figli.
Il quadro della grammatica tragica del poligrafo veneziano si completa già in questa
prima fase con un primo Consigliere, sempre nel Thyeste e con l’introduzione di altri due
personaggi nella terza tragedia, Didone. Qui il percorso dolciano si prepara a subire una
prima rivoluzione. Come analizzeremo nel dettaglio, in questa tragedia l’uomo combatte
contro la volontà divina, in una condizione di solitudine assoluta e di scontro tra un volere
individuale ed un contrario percorso predefinito che provoca la tragedia. Enea è costretto a
partire per andare in contro al proprio destino mentre Didone deve soccombere insieme
alla sua Cartagine. I personaggi assumono maggiori sfumature rispetto alle due tragedie
precedenti e questo comporta l’impossibilità per Enea di imporsi come eroe positivo così
come Didone che gioca il ruolo della donna pervasa dal furor, da un delirio che la strappa
dall’olimpo delle eroine tragiche avvinandola pericolosamente ai tiranni irrazionali. Ad
una situazione così precaria corre in soccorso il Consigliere, personaggio che sempre più
tenta di rappresentare la ragione che si oppone al caos.
Così si conclude la prima fase tragica di Ludovico Dolce. I semi lasciati da Didone
fioriscono nella seconda fase tragica dell’autore che con Giocasta, Ifigenia e Medea da una
parte decostruisce la tragedia tradizionale cui si era legato nei primi anni, dall’altra affronta
con disinvoltura temi molto scottanti per quel tempo. La religione e la superstizione, il
4
tentativo dei sacerdoti di imporre la propria mediazione nel rapporto tra uomo e Dio, il
buon comportamento delle donne sono tutti argomenti affrontati nelle tragedie di questo
periodo nelle quali scompare anche la figura dell’eroina, o perché sostituita da un modello
negativo come Medea, o perché semplicemente non appare più utile allo scrittore un
sacrificio come quello di Polissena in un mondo dove la superstizione e l’irrazionale
governano gli uomini, come nel caso di Ifigenia.
Questo percorso di messa in discussione della struttura tradizionale della tragedia
trova una conclusione nella Marianna, penultima tragedia di Dolce. L’eroina, dipinta con
caratteristiche assolutamente cristiane, e il Tiranno, preda del furor dominano una tragedia
che trova la sua rivoluzione non nei protagonisti ma nella scelta della fabula, una storia
biblica prelevata da una cronaca storica, e nella caratterizzazione del Consigliere e del
Cortigiano.
Il percorso tragico di Dolce si conclude con un ultimo esperimento, Le Troiane, una
tragedia corale nella quale non ci sono più tiranni, domina la morale cristiana e l’atto
eroico del singolo, come la morte di Polissena o Ifigenia, si annulla nella coralità della
tragedia che sembra voler essere un dramma del lamento e della sofferenza, in contrasto
con le tragedie della vendetta che hanno dominato le opere precedenti.
Seguendo l’intero percorso tragico di Dolce si ha la possibilità di individuare lo
sviluppo della sua tragedia e studiare l’influenza dei modelli presi come riferimento
dall’autore. Seneca, Giraldi Cinzio, Trissino, Aretino e gli altri compongono un complicato
mosaico di fonti più o meno evidenti da cui Dolce trae spunto per creare le sue opere
drammatiche. L’intarsio creato permette di dare alla luce opere di incredibile successo,
riuscite a tal punto da avere una diffusione tale da finire nelle pagine tragiche del resto
d’Europa, come nel caso della Giocasta. La produzione di Dolce, non considerata con
grande rilievo oggi, è uno dei rari esempi di successo continuo ed ininterrotto di un autore
tagico. Tutte le sue tragedie vengono pubblicate molte volte, rappresentate, diffuse, senza
eccezione. Partendo da queste premesse si è tentato, in questa tesi, di offrire un quadro,
certamente non esaustivo, della scrittura tragica di un autore tanto noto nel Cinquecento
quanto trascurato nelle pagine odierne.
5
1. vita e opere
1.1. Notizie biografiche
Ludovico Dolce nasce a Venezia nel 1508 da una famiglia patrizia ormai
decaduta. Le notizie biografiche di cui disponiamo sono ricavate essenzialmente dalla
biografia ottocentesca di Cicogna e dalle lettere tra Dolce e i letterati del suo tempo che
ci testimoniamo spostamenti, momenti di composizione delle opere, idee politiche e
religiose. Tuttavia molti aspetti della sua vita restano oscuri, soprattutto per quanto
riguarda i suoi primi anni di attività, quando si trovava a Padova per frequentare
l’Università grazie all’appoggio di due importanti famiglie del patriziato veneto, i
Loredano e i Cornaro.
E’ nella sede universitaria che Dolce incontra Bembo e altri illustri studiosi e
inizia la sua attività poetica. La sua prima opera, Il sogno di Parnaso, è del 1532, anno
nel quale ha inizio la sua amicizia con Pietro Aretino. Si tratta di un poemetto
allegorico scritto sotto l’influenza di Dante, Petrarca, soprattutto quello dei Trionfi e,
come osserva Cairns
4
, delle Stanze di Poliziano. Il tema del sogno di Parnaso viveva,
nel periodo in cui vi si avvicinò Dolce, una grande fortuna. Poco distante dal poema
dolciano possiamo trovare ad esempio I tre pellegrini di Antonio Fregoso (Venezia,
Zoppino, 1528), Il monte di Parnasso di Filippo Oriolo da Bassano, scritto tra il 1519 e
il 1522 oltre che poemetti satirici sullo stesso tema
5
. Nel Sogno di Parnaso la sfilata di
personaggi illustri è indicativa dell’orientamento preso dall’autore sin dagli esordi
letterari; accanto agli indiscussi Dante e soprattutto Petrarca si trovano infatti i nomi
che contribuirono allo sviluppo della lingua volgare tra cui Pontano, Navagerio,
Bembo, Sannazzaro, Ariosto e Trifon Gabriele. Seguono il poemetto in terzine alcune
rime tra cui una canzone di sicura derivazione petrarchesca Italia mia, se un tempo
afflitta e mesta così simile nella struttura come nell’incipit alla canzone Italia mia, ben
che il parlar sia indarno.
4
Cfr. Christopher Cairns, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches on Aretino and his Circle
in Venice 1527-1556, Firenze, Olschki, 1985, pp. 232-240
5
Ibidem
6
Da questo momento in avanti la produzione di Dolce si avvia ad essere una delle
più rappresentative del secolo, soprattutto per la quantità di opere pubblicate che
superano di gran lunga per numero e varietà di genere quelle della maggior parte degli
scrittori coevi. Per affrontare il tema della sua produzione prenderemo le mosse dallo
studio di Claudia Di Filippo Bareggi (1988) sulla tipografia veneziana che offre un
quadro fondamentalmente completo e soddisfacente dell’attività di Ludovico Dolce
nelle stamperie veneziane. Dal suo ritorno in patria, infatti, come conferma il suo
biografo ottocentesco, Dolce non avendo ricchezze familiari si mantenne
esclusivamente attraverso l’attività di insegnante e collaborando nelle tipografie, in
particolare in quella di Gabriele Giolito de Ferrari. Qui fu traduttore, editore, scrittore,
commentatore, adattatore, riduttore, poeta, direttore artistico, revisore, addirittura
autore della maggior parte delle dediche al lettore firmate da Gabriele Giolito presenti
nelle varie edizioni. Queste dedicatorie avevano la funzione di instaurare un legame tra
editore e lettore, che doveva essere una delle strategie editoriali di Giolito, grande
commerciante e conoscitore delle leggi del mercato e del pubblico. Giolito non era in
grado, secondo quanto stabilito attraverso lo studio degli autografi di cui disponiamo
6
,
di scrivere in un volgare che non fosse quello mercantile. Non dominando neanche la
lingua toscana, Giolito commissionava ai suoi collaboratori, Dolce in primo luogo, le
lettere alle quali poi lui avrebbe apposto la firma.
Dolce lavorava tanto affannosamente nella bottega dei Giolito che a quando ci è
dato sapere viveva presso la casa del tipografo. Un’ulteriore conferma di questo è data
dalla mancanza, nei registri veneziani, di qualunque traccia di un possedimento della
famiglia Dolce all’interno della Repubblica.
Prima di analizzare in numeri la produzione dolciana si può tentare di tracciare un
breve profilo della sua attività dall’esordio sino alla morte del letterato, seguendo un
percorso che porta Dolce ad intrecciare la sua opera con i principali accadimenti
storico-politici dell’epoca.
Negli anni trenta del Cinquecento Dolce, giovane letterato ancora ventenne
esordisce come poeta. Le sue prime opere che nascono anche sotto l’influenza del
circolo di giovani letterati riuniti intorno alla figura di Aretino, sono caratterizzate dal
6
Vd. Angela Nuovo, Chris Coppens, I giolito e la stampa nell’Italia del XVI secolo, Ginevra, Droz, 2005
7
petrarchismo e sono in generale in linea con le tendenze della prima metà del secolo.
La relazione con Aretino è attestata già nel 1533, anno in cui Dolce viene citato nel
Merescalco
7
di Aretino; la collaborazione tra i due è di grande interesse per la
comprensione del rapporto di Dolce e degli altri letterati del circolo di Aretino con
Erasmo da Rotterdam e la Riforma. E’ evidente, dando uno sguardo alla letteratura
della prima metà del XVI secolo, come, rispetto a figure come Lutero o Calvino,
Erasmo in Italia subì un atteggiamento diverso, più tollerante, che permise una
maggiore diffusione delle sue opere. Tuttavia l’atteggiamento degli studiosi mutò nel
corso del secolo; nella prima metà del Cinquecento l’interesse per Erasmo era stimolato
anche dalla discussione politica e religiosa, “corrispondendo meglio alla sostanza
morale e religiosa dell’attività di Erasmo”,
8
nella seconda parte del Cinquecento
l’interesse per l’umanista si limitò all’ambito letterario. Tra i poligrafi del circolo di
Aretino Nicolò Franco fu il più erasmiano ma anche Dolce subì il fascino di Erasmo
come confermano le due tragedie Hecuba ed Ifigenia che sono traduzioni più o meno
fedeli della versione latina di Erasmo.
L’interesse del circolo di Aretino per Erasmo è evidente, sin dai primi anni di
appartenenza di Dolce alla cerchia aretiniana, come dimostra Cairns, mettendo a
confronto le opere satiriche dei due, a partire dal Marescalco egli afferma che “the key
to Aretino’s Erasmian interests in the early venetian period (1527-1533) lies with
Ludovico Dolce”.
9
Cairns individua sia nel Marescalco sia nella commedia Il ragazzo
di Dolce un’influenza marcatamente erasmiana. Analizzando poi le opere spirituali di
Aretino lo studioso rileva nel suo lavoro la presenza di idee evangeliche ed erasmiane
sia nello scrittore sia nei membri del suo circolo.
Sin dai primi anni di attività Dolce si inserisce nel dibattito politico
necessariamente intrecciato con quello religioso. Una delle tendenze cui Dolce aderisce
è l’appoggio all’Imperatore Carlo V. L’Imperatore viene sostenuto negli anni trenta dai
letterati italiani perché considerato come l’unico in grado di fronteggiare la minaccia
7
Cfr. Cairns, Pietro aretino and the republic of venice researches on aretino and his circle in venice 1527
1556, cit., p. 60 “there is further circumstantial evidence of a community of interests between Aretino and
Dolce, whose relationship goes back to 1533 at least, since Dolce is cited in the Marescalco”.
8
Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento, cit., p. 187.
9
C. Cairns, Pietro Aretino and the Republic of Venice, cit., 61.
8
turca, come si vedrà in seguito. Ma un altro dei motivi per cui Carlo assume così
grande importanza si lega ancora alla riflessione religiosa. In Italia, e soprattutto
nell’area veneta dove si formò presto un coeso movimento religioso ereticale, Carlo V
venne visto non solo come colui che avrebbe sconfitto gli infedeli ma anche come
l’uomo che avrebbe potuto portare la libertà di religione realizzando finalmente la pace
tra i popoli.
10
Cantimori individua le motivazioni di questa investitura di Carlo V
essenzialmente nella sua politica verso il papato quindi nei suoi interventi nella vita
della Chiesa, interpretati come <<principio di separazione tra stato e Chiesa>>
11
ed
infine nella caratteristica intrinseca della spiritualità valdesiana che, confinando
nell’interiore la virtù cristiana e la fede, aveva un atteggiamento piuttosto elastico verso
le chiese, le confessioni e le sette.
12
Le prime opere di Dolce si inseriscono in queste due direzioni. Da una parte, il
sostegno all’imperatore con le stanze di M. Ludovico Dolce composte nella vittoria
africana nuovamente havuta dal sacratissimo imperatore Carlo Quinto del 1535,
dall’altra con Il sogno di Parnaso, composto sotto l’influenza di Petrarca e del circolo
di Aretino e pubblicato nel 1532.
Sempre in questi anni Dolce, che non aveva ancora stretto rapporti con Gabriele
Giolito, esordisce come editore e traduttore, curando per varie tipografe l’Orlando
Furioso di Ludovico Ariosto, la traduzione della prima satira di Giovenale e della
Poetica di Orazio. Alla fine del decennio, nel 1539, Dolce si occupa anche di tradurre
in volgare per la tipografia di Bindoni e Pasini, il primo libro delle Transformazioni
d’Ovidio. La prima attività di Dolce si allinea già prepotentemente quindi con le
tendenze della letteratura contemporanea.
Gli anni quaranta del secolo segnano l’esordio drammatico di Dolce con la
commedia Il Ragazzo pubblicata nel 1541 e le due tragedie del 1543, La Hecuba e
Thyeste. Questo decennio è uno dei più produttivi per Dolce che da alle stampe otto
nuove opere e numerose traduzioni, edizioni di altri autori e ristampe, oltre a comparire
in miscellanee come i Capitoli del s. Pietro Aretino, di m. Lodovico Dolce, di m.
10
Cfr. Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento, cit., pp. 189-190.
11
Ibidem
12
Ibidem
9
Francesco Sansovino et di altri acutissimi ingegni (Curzio Navò, 1540) e Le terze rime
del Molza, del Varchi, del Dolce et d'altri sempre del 1540. Dolce pubblica in tutto
ventotto opere, un numero incredibile, che coincide con l’inizio della sua
collaborazione con Gabriele Giolito, editore della maggior parte delle pubblicazioni.
Oltre al numero così ingente colpisce la varietà dei generi cui si avvicina. E’ proprio
negli anni quaranta infatti che Dolce inizia la sua fortunata produzione di dialoghi,
commedie e tragedie che accanto alle rime alle riscritture, alle riedizioni ed alle
traduzioni lo consacreranno a grande protagonista della letteratura veneziana
Cinquecentesca. Ludovico Dolce e Gabriele Giolito diedero vita, durante la loro
collaborazione, alla pubblicazione di tutti “i testi basilari della civiltà
Cinquecentesca”.
13
Come riportato da Cicogna
14
Dolce era membro di numerose accademie, tra cui
quella veneziana dei Pellegrini sotto il nome di Accademico Pellegrino con il quale
firmo anche alcune opere, quella della Fratta e l’Accademia degli Infiammati. I suoi
contatti con il circolo di Aretino e con membri illustri del circolo napoletano di Juan de
Valdes come Vittoria Colonna e Carnesecchi, oltre che con Berni e Varchi, riscontrabili
attraverso le numerose edizioni delle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini
completano il profilo di questo giovane scrittore che era tornato a Venezia stabilmente
proprio negli anni quaranta.
Il decennio successivo segna per la storia di Venezia e per quella di Dolce un
capitolo importante. Venezia era ancora, alla metà del secolo, una delle città centrali
per le comunità ereticali; ancora tutto sommato libera. Nel 1550 si era tenuto a Venezia
un concilio che aveva riunito tutte le comunità ereticali italiane e aveva stabilito una
serie di punti in comune sui grandi temi della religione e nello stesso anno Dolce era
stato inserito ne Il primo libro delle opere burlesche pubblicato a Firenze in cui erano
presenti le opere di due personaggi legati ai movimenti evangelici italiani, Berni e
Varchi. Quest’ultimo in particolare era legato a Dolce da un’amicizia confermata dallo
13
Il Cinquecento: La dinamica del rinnovamento, a cura di Armando Balduino, Giovanni Daozzo, in Storia
Letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 2006, Volume I, tomo II, p. 886.
14
Emmanuele A. Cicoglia, Memoria intorno la vita e gli scritti di messer Lodovico Dolce, letterato
veneziano del secolo XVI, cit., p. 108.
10
scambio epistolare
15
e dalla presenza di entrambi, negli anni quaranta del Cinqucento,
all’interno dell’Accademia degli Infiammati. Varchi era in contatto con alcuni dei più
grandi sostenitori della Riforma italiana come Carnesecchi e Flaminio. Era inoltre un
grande estimatore di Valdes, Vittoria Colonna e Pietro Bembo. Berni e Varchi non sono
casi isolati nelle frequentazioni di Dolce che oltre ad avere legami con Bembo e
Vittoria Colonna si trovò imputato in ben due processi dell’Inquisizione, uno nel 1558
e uno nel 1565 perché chiamato in causa da due suoi amici, Ulloa e Giolito, entrambi
sotto accusa.
A partire dal 1527 a Venezia il Consiglio dei Dieci aveva stabilito per i libri
pubblicati a Venezia o provenienti dall’estero l’obbligo di ottenere la licenza di stampa.
Questa regola, tutto sommato ignorata nei primi anni di vita, venne ribadita con forza
nel 1542 e da allora rispettata. La legge stabiliva che prima di essere stampato un libro
doveva essere sottoposto alla lettura di due revisori laici. A partire dal 1562 poi i
revisori divennero tre, un ecclesiastico nominato dal Santo Uffizio, un lettore pubblico
nominato dalla Repubblica e un segretario ducale. I tre revisori che sottoscrivevano la
fede di stampa, giuravano in sostanza che nel libro non fosse contenuto alcun
argomento politico o religioso che ne sconsigliasse la pubblicazione. I revisori non
erano censori di professione, piuttosto uomini di cultura comunemente apprezzati, e
spesso vicini anche a idee riformiste. Oltre a Ludovico Dolce furono incaricati dai
Riformatori dello studio di Padova, l’organo preposto alla cultura alla censura,
personaggi come Francesco Sansovino e Aldo Manuzio
16
. La situazione cambiò con la
conclusione del Concilio di Trento; la censura della stampa divenne più serrata e
l’apertura alla quale avevano contribuito questi letterati prestati alla censura
scomparve. Così molte tipografie entrarono in crisi. Come si è visto Giolito de Ferrari a
partire dal 1565 inizia a preferire alla pubblicazione di opere di letteratura
contemporanea opere devozionali. Dolce ricoprì il ruolo di revisore e proprio a causa di
questa investitura nel 1558 venne interrogato a seguito della pubblicazione da parte di
Ulloa della traduzione volgare italiana dell’ Institutione d’un re cristiano di Felipe de
15
Ludovico Dolce, Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni, scritte in diverse
materie, nuovamente ristampate e i più luoghi corrette. Libro primo. Venezia, presso i figli di Aldo Manuzio,
1544, p.149.
16
Crf. Mario Infelise, I libri proibiti. Da Gutemberg all’Encyclopedie, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 14-27.
11
la Torre e dei Dialoghi di secreti de la natura. Dolce aveva dato la fede di stampa per
queste opere, convinto, dice in sede di interrogatorio, non avendo letto la Institutione
né tantomeno i Dialoghi, che fossero entrambi testi cattolici, ‘vedendo io la fede di un
maestro di theologia’
17
Tutte le copie di queste due opere alle quali Dolce aveva dato la
fede di stampa furono bruciate pubblicamente ma Dolce ne uscì incolume, a quanto
pare. Nel 1565 Dolce fu interrogato una seconda volta, nell’ambito del processo subito
da Giolito a seguito della denuncia da parte di Pietro Ludrini, collaboratore della filiale
napoletana della tipografia. Dolce fu chiamato a rispondere della scrittura della Vita di
Carlo V per la quale tra le varie fonti Giolito era riuscito a far avere a Dolce i
Commentarii de statu religionis et reipublicae Carolo V Caesare del 1555 di Giovanni
Sleidano, opera messa all’indice ma largamente diffusa e conosciuta in Italia dai gruppi
eterodossi. Il processo del 1565 non sembra aver avuto conseguenze per i due, anche se
proprio il 1565 segna in modo netto e marcato un cambiamento nella produzione
editoriale di Giolito. Alla prima generazione di collaboratori che avevano reso grande
la tipografia giolitina portando a Venezia la loro libertà di pensiero, il tipografo
sostituisce una seconda generazione che favorisce la proliferazione di testi di
argomento religioso.
Un mutamento quello di Giolito, che lascia intuire la sua simpatia per i
movimenti eterodossi avuta almeno fino al 1565. Sia Bareggi che Terpening, sono
concordi nell’affermare che un atteggiamento eterodosso può quasi certamente essere
imputato a Giolito, non a Dolce. La distinzione tra i due ha motivo di essere perché per
il tipografo si hanno « indicazioni precise e documentate»
18
cosa che non può dirsi per
Dolce. Certamente questa indagine richiederebbe una ricerca approfondita, ma sin da
ora è possibile fissare alcuni punti che confermerebbero invece quanto Dolce fosse
inserito nell’ambiente eterodosso italiano e come per lo meno simpatizzasse per il
movimento ereticale. Le frequentazioni di Dolce confermano infatti quanto Dolce
respirasse l’aria riformata italiana. Non ci sono prove ad oggi di un’appartenenza di
Dolce a qualche setta eretica, e non si vuole sostenere questo. E’ innegabile tuttavia che
17
Cfr. Claudia Di Filippo Bareggi Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia
nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, p. 206 e Terpening, Lodovico Dolce, renaissance man of letters,
Toronto, University of Toronto press Incorporated, 1997 p. 22
18
Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel
Cinquecento, cit. p.208.
12
la storia personale e artistica di Ludovico Dolce non possa essere studiata senza
considerare la sua vicinanza con la Riforma italiana che pare impregnare molti dei
luoghi di produzione della cultura cinquecentesca. Non è casuale forse, ad esempio, che
Dolce curò personalmente la pubblicazione dell’epistolario dell’amico, riformato,
Orazio Brunetto.
Primi sospetti di una conversione di Dolce vengono evidenziati nel lavoro di
Bareggi anche se i dati da lei riportati vengono considerati alla fine insufficienti a
confermare in maniera certa l’appartenenza di Dolce ai gruppi eterodossi italiani. Altri
studiosi sostengono invece che le prove che possediamo oggi siano bastevoli per
confermare l’ipotesi che Dolce facesse parte del movimento ereticale italiano.
19
Nel
1545 ad esempio Dolce scrive a Paolo Manuzio “vi mando un sonetto spirituale per
segno della mia conversione”.
20
Qui e in altre lettere dal tono ambiguo Bareggi
individua la possibilità di una partecipazione di Dolce ai movimenti evangelici;
21
frasi
come “Havrei caro di parlarvi con vostro commodo e solo”
22
scritto da Dolce a
Brunetto o “Dimane verrò à casa V.S dove ho da ragionar di cose che m’ hanno
spaventato fuor di modo, in certa materia mia particolare: intenderete a bocca il tutto”
23
da Brunetto a Dolce sono per Bareggi e Terpening spie di una partecipazione di
Dolce alle riflessioni religiose di Brunetto confermata anche dalla disputa dei due con
fra Sisto de Medici, ebreo convertito e poi francescano “un uomo sicuramente vicino a
posizioni riformate”
24
intorno alla necessità dell’eloquenza per il predicatore del
Vangelo.
In tale scontro il Brunetto – e con lui anche il Dolce- sostenne
al contrario la necessità di tornare alla consuetudine della Chiesa degli
19
Cfr. Lodovica Braida, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e
“buon volgare”, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 136-139
20
Bernardino Pino, Della nuova scielta di lettere, Venezia, Giovanni Antonio Rampazzatto, 1582, p. 418.
21
C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel
Cinquecento, cit. pp. 206,208.
22
Orazio Brunetto, Lettere, Venezia Arrivabene, 1548 p.156.
23
Ivi, p.160
24
C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel
Cinquecento, cit., p.206.
13
apostoli che “operò con fuoco de le parole o con la semplicità dello
spirito, che le inspirava i concetti et le formava le parole d’una in una,
et con la fede la quale li univa a quello sapientissimo vivo fonte di
saluberrima eloquenza, Dio benedetto”
25
Lo stesso tipografo presso il quale Dolce pubblicò l’epistolario di Brunetto
lascia un velo di sospetto sulla posizione del letterato veneziano, dato che il tipografo
mantovano Arrivabene teneva nella sua bottega molti libri eretici e fu per questo più
volte processato dall’inquisizione.
26
Una prova convincente sulla vicinanza di Dolce ai
movimenti evangelici italiani, seppure assumendo come atteggiamento privilegiato
quello chiamato da Calvino nicodemismo, atteggiamento questo accolto da molti
italiani che non vollero scegliere l’esilio, è la testimonianza dell’avvocato Alessandro
Da Riva che nel 1567 a proposito di Dolce dichiara: “In materia del sacramento lui
teneva che Christo non fusse nell’hostia realmente, negava l’auttorità del papa et li
voti monastici”.
27
Del resto, anche restando nell'incertezza sulla posizione di Dolce, sarebbe
difficile approcciarsi alla sua opera senza scontrarsi prima o poi con la questione
religiosa. Proprio per la centralità di Venezia in epoca di Riforma e Controriforma
risulterebbe poco credibile parlare di un autore così produttivo, così inserito all’interno
della comunità letteraria e sociale, senza ricercare il rapporto che ebbe con la Riforma.
Non si vuole qui tentare di dimostrare un ruolo principe di Dolce nelle vicende
religiose, dato che sarebbe indimostrabile, poco utile ai fini della ricerca e non
rispondente alle nostre convinzioni. La questione religiosa, come la questione della
lingua, fu nel corso della prima metà del secolo argomento irrinunciabile di discussione
e nessun letterato che vivesse tra università e tipografie, in particolare nel territorio
della Repubblica, poté ignorarla. Non si deve dimenticare che la Repubblica veneziana
25
Ibidem
26
Cfr. Lodovica Braida, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e
“buon volgare”, cit. p. 138
27
Federica Ambrosini, Libri e lettrici in terra veneta nel sec. XVI. Echi erasmiani e inclinazioni eterodosse ,
in Erasmo, Venezia e la cultura padana nel '500: atti del 19° Convegno Internazionale di Studi Storici,
Rovigo, Palazzo Roncale, 8-9 maggio 1993, organizzato dall'Associazione culturale Minelliana, in
collaborazione con l’ Università degli studi di Padova, Dipartimento di storia, a cura di Achille Olivieri,
Rovigo, Minelliana, 1995, p. 190.