I bioindicatori maggiormente utilizzati per indagini sulla qualità dell’aria sono:
licheni, muschi, tracheofite (piante di tabacco, tulipani, graminacee, aghi di conifere,
cortecce), funghi.
Il biomonitoraggio si basa sul presupposto che qualsiasi fattore di “disturbo”
sull’ecosistema produce variazioni sui singoli organismi viventi e sulle comunità
biotiche.
Tali variazioni si possono manifestare nei seguenti modi (Nimis et al.,1989):
1) modificazioni morfologiche e fisiologiche
2) accumulo di sostanze inquinanti
3) modificazioni della composizione faunistica e/o floristica.
La valutazione di questi effetti, indotti dall’inquinamento sulle forme viventi,
fornisce informazioni dirette e sintetiche sul processo di deterioramento della qualità
dell’ambiente, perché gli organismi sono capaci di integrare stimoli provenienti dalle
componenti abiotica e biotica e rispecchiano situazioni manifestatesi su scale temporali
relativamente lunghe (funzionano quindi come “integratori di dati”).
Il biomonitoraggio permette la redazione di carte dell’inquinamento su aree
relativamente vaste in tempi brevi e con costi decisamente inferiori (Nimis et al., 1989)
ai metodi di rilevamento chimico-fisico.
L’approccio biologico inoltre, rispetto a quello analitico strumentale, può mostrare,
se presente, l’effetto sinergico o additivo di più sostanze nocive sulle forme viventi.
Questa metodologia non è in contrapposizione al rilevamento chimico-fisico (con cui
si ottiene l’esatta misura della concentrazione delle sostanze ricercate), né può sostituirsi
ad esso, ma lo completa arricchendolo di utili informazioni.
1.1 BIOINDICATORI E BIOACCUMULATORI
Gli organismi biologici possono essere impiegati nel monitoraggio dell’inquinamento
atmosferico in due diverse maniere: come bioindicatori e come bioaccumulatori.
Nel primo caso viene sfruttata la loro spiccata sensibilità ai contaminanti atmosferici
e la proprietà di presentare tipiche reazioni a differenti gradi di inquinamento,
facilmente distinguibili da quelle determinate dallo stress naturale. Alcune specie sono
sensibili ad una determinata sostanza inquinante, altre sono in grado di rilevare la
presenza di più inquinanti; la scelta di un bioindicatore è quindi funzione della finalità
dell’indagine.
Nel secondo caso vengono invece ricercate quelle specie maggiormente resistenti
all’inquinamento atmosferico, in grado di accumulare (senza decomporre o rilasciare)
contaminanti, quali ad esempio metalli pesanti, composti organici, radionuclidi, la cui
concentrazione sia quantificabile analiticamente.
Nel presente lavoro è stata sfruttata la capacità di bioaccumulo di metalli pesanti e
137
Cs della briofita Hypnum cupressiforme.
Gli organismi usati nel biomonitoraggio, siano essi bioindicatori o bioaccumulatori,
devono anche avere le seguenti caratteristiche:
- ampia distribuzione sull’area indagata
- scarsa mobilità
- lungo ciclo vitale.
Un bioindicatore o un bioaccumulatore è considerato un “biomonitor” quando esiste
una relazione tra i dati biologici e le reali concentrazioni di specifici inquinanti in
atmosfera; in questo caso è possibile estrapolare informazioni quantitative sui livelli di
inquinamento dai dati biologici (Nimis, 1990).
Se questa è la situazione ottimale, in realtà nella maggior parte delle ricerche di
biomonitoraggio non è stato ancora possibile stabilire una relazione matematica fra i
dati biologici e le concentrazioni atmosferiche degli inquinanti. Ciò è dovuto anche al
fatto che le forme biotiche sono influenzate da moltissimi fattori ambientali differenti, di
cui l’inquinamento (già di per sé fenomeno complesso) è solo uno di questi.
1.2 CENNI STORICI
I muschi sono stati largamente impiegati sia come bioindicatori sia soprattutto come
bioaccumulatori.
Per quanto riguarda l’uso dei muschi come bioindicatori della qualità dell’aria ed in
particolare della presenza di SO
2
e HF, negli anni ’70 furono effettuati studi sulla loro
distribuzione in diverse aree del Nord America. Queste ricerche hanno permesso di
determinare l’Indice di Purezza Atmosferica (IAP) tenendo conto della frequenza delle
specie trovate in ogni sito di campionamento.
I muschi, in qualità di bioaccumulatori di elementi in tracce, furono utilizzati dai
ricercatori svedesi Rühling e Tyler alla fine degli anni ’60 per monitorare la deposizione
atmosferica dei metalli pesanti in Scandinavia. In studi successivi (1971) rilevarono una
maggiore concentrazione di metalli nei muschi a Sud e Sud-Ovest della Svezia dove più
numerose sono le sorgenti inquinanti di origine antropica.
Ripetendo il biomonitoraggio ogni cinque anni dal 1968, sono state individuate le
aree maggiormente interessate dalla deposizione dei metalli, le principali sorgenti di
emissione ed è stata seguita l’evoluzione spazio-temporale del fenomeno (Rhüling e
Tyler, 1984).
Successivamente ricercatori dell’Europa del Nord (Steinnes et al.,1992, Liiv et al.,
1997) e centro-orientale (Grodzinska, 1978, Grodzinska et al., 1990, Markert et al.,
1996), degli Stati Uniti (Groet, 1976) hanno eseguito studi di biomonitoraggio mediante
muschi, contribuendo così alla definizione di mappe sovranazionali della
contaminazione atmosferica.
I muschi possono rilevare differenze nel grado di inquinamento all’interno di aree
limitate, come zone industriali, città, strade ad elevato traffico. Pertanto alcuni
ricercatori hanno utilizzato i muschi raccolti in zone non contaminate e trapiantati in
zone inquinate, al fine di studiare, mediante la concentrazione di eventuali contaminanti,
il bioaccumulo.
Ad esempio Goodman e Roberts (1971) introdussero in un'area industriale del Galles
dei ceppi recanti muschio della specie Hypnum cupressiforme. I trapianti continuarono
ad accumulare metalli anche dopo la morte dei muschi. Pillegard (1979) introdusse
Dicranoweisia cirrata con il suo substrato nelle vicinanze di un’acciaieria in
Danimarca. Egli trovò che l’accumulo di metalli poteva essere correlato linearmente alla
deposizione atmosferica.
Allo scopo di valutare la deposizione di metalli pesanti in aree limitate è stata usata
anche la tecnica delle “moss bags”. Si tratta di reti di nylon contenenti muschi prelevati
in zone non inquinate e sospese a circa due metri dal suolo, per sei settimane, in luoghi
soggetti ad elevato inquinamento da metalli.
Ratcliffe (1975), Cameron e Nickless (1977) usarono questa metodica con specie di
Sphagnum per indagare la zona circostante rispettivamente un’industria di batterie e una
fonderia.
Mediante la tecnica delle “moss bags” sono state svolte anche alcune indagini in cui i
muschi sono stati utilizzati per il biomonitoraggio degli idrocarburi policiclici aromatici
(Wegener et al., 1992).
Con i trapianti e le “moss bags” è stato riscontrato che la ritenzione dei metalli è
direttamente proporzionale al tempo di esposizione.
Inoltre le analisi di campioni di muschi da vecchi erbari (Herpin et al., 1997) e
prelievi di torba (formata dall’accumulo e dalla compressione di sfagni), hanno
consentito di determinare i passati livelli di contaminazione dovuta ai metalli pesanti.
Anche i muschi acquatici hanno dimostrato di assorbire efficientemente metalli in
fiumi e laghi inquinati (Cenci e Muntau, 1993).
I muschi, infine, per la loro capacità di accumulo sono stati utilizzati per
biomonitorare la deposizione di radionuclidi, ad esempio nell’area circostante una
centrale nucleare (Sumerling, 1984).
In Italia, mentre si è andato sempre più affermando, nell’ultimo decennio, l’uso dei
licheni come bioindicatori e bioaccumulatori dei contaminanti atmosferici, solo
recentemente sono state avviate ricerche sull’impiego di muschi come bioaccumulatori
di metalli pesanti e, in seguito all’incidente di Chernobyl, di radionuclidi.
1.3 BRIOFITE
Le briofite sono organismi eucarioti fotoautotrofi, per lo più a vita terrestre, che non
differenziano ancora veri tessuti vascolari specializzati (xilema e floema) né tessuti di
sostegno lignificati.
Sono caratterizzate da un ciclo vitale aplodiplonte, cioè con alternanza di generazioni
(aploide e diploide) eteromorfiche in cui il gametofito (n) è la generazione dominante e
indipendente, mentre lo sporofito (2n) è sempre attaccato al gametofito e dipende
troficamente da questo, benché possa svolgere una certa fotosintesi.
In termini di numero di specie sono il secondo gruppo più vario fra le piante terrestri
dopo le angiosperme e vengono suddivise in tre classi: Hepaticae, Anthocerotae e
Musci.
Le epatiche e le antocerote presentano gametofiti con struttura dorso-ventrale,
appiattita e sono diffuse in ambienti umidi e ombreggiati.
Muschi
I muschi costituiscono la classe più numerosa e più ampiamente distribuita delle
briofite.
I gametofiti presentano simmetria radiale, cioè le loro “foglie” (dette più
propriamente foglioline o fillidi) si originano da tutti i lati di un asse centrale. In molte
specie il “fusto” (detto più propriamente fusticino o caulidio) è eretto, in altre è prostrato
e dà origine a rami eretti, in altre ancora la pianta è interamente prostrata e strisciante
(Ray et al., 1994).
Le piantine sono fissate al substrato per mezzo di singole cellule allungate o di
filamenti pluricellulari detti rizoidi (Raven et al., 1990).
Alcuni muschi sviluppano un sistema conduttore costituito da idroidi, cellule morte
atte al trasporto di acqua e sali minerali, e leptoidi, cellule con citoplasma alterato atte al
trasporto delle sostanze elaborate. La somiglianza con xilema e floema viene
considerata un esempio di evoluzione convergente, anche perché bisogna ricordare che
la generazione predominante delle tracheofite è lo sporofito.
La fecondazione delle cellule uovo (prodotte negli archegoni) da parte di
spermatozoidi biflagellati (prodotti negli anteridi), conduce alla formazione dello
sporofito (2n). La gametogamia è l’unico processo nel quale le briofite si dimostrano
ancora dipendenti dall’acqua. Occorre infatti che tra archegoni e anteridi esista
dell’acqua (gocce di pioggia, rugiada) che consenta i movimenti autonomi degli
anterozoidi fino all’imboccatura dell’archegonio da dove poi possono raggiungere
l’oosfera (Gerola, 1988).
A maturità, lo sporofito è generalmente costituito da un piede, affossato nei tessuti
della pianta gametofitica, da una porzione filamentosa, seta o peduncolo, che termina
alla sommità con la capsula, o sporangio. Le spore vengono prodotte per meiosi
all’interno della capsula e sono poi disperse dal vento. Le meiospore germinano in un
protonema: una struttura filiforme ramificata da cui si originerà il gametofito foglioso.
I muschi possono riprodursi anche vegetativamente mediante gemme e propaguli che
si possono staccare e diventare piante indipendenti.
Caratteristiche peculiari dei muschi come accumulatori
1) Assorbimento di acqua e sali minerali
L’assunzione di acqua e nutrienti avviene direttamente dalle deposizioni
atmosferiche attraverso le foglioline del gametofito perché i rizoidi non costituiscono un
vero e proprio apparato radicale e servono solo per ancorare le piantine. L’assenza di
vere radici e di sistemi di conduzione permette di trascurare completamente l’influenza
del substrato (Rühling, 1994).
I muschi sono generalmente privi di tessuto epidermico (nella maggior parte delle
specie le foglioline sono spesse soltanto una cellula) e di cuticola protettiva; ciò rende i
loro tessuti facilmente permeabili all’acqua ed ai minerali, inclusi gli ioni metallici
(Tyler, 1990).
Per questi motivi gli elementi sono catturati esclusivamente per deposizione delle
particelle aereodisperse, dalle piogge e per contatto dai gas (Palmieri et al., 1995).
2) Capacità di accumulo
Numerosi studi hanno dimostrato che i muschi sono capaci di concentrare notevoli
quantità di metalli pesanti, in misura superiore alle normali capacità di assorbimento
delle piante vascolari. Essi accumulano metalli pesanti in modo passivo. Le pareti
cellulari hanno numerosi siti carichi negativamente (sostanze pectiche) che agiscono
come efficienti scambiatori cationici (Tyler, 1990).
Sembra tuttavia che la ritenzione dei metalli sia dovuta in alcuni casi anche a
processi di chelazione (presenza di gruppi con speciale affinità per Cu e Pb) e di
assorbimento attivo per lo Zn (Gjengedal e Steinnes, 1990).
Recentemente sono stati studiati particolari peptidi, detti fitochelatine, che
complessano metalli pesanti e la cui sintesi sembra essere indotta dalla presenza di
metalli (Zenk, 1996).
L’alto rapporto superficie/volume e la superficie microscopicamente scabra dei
muschi permettono inoltre di intrappolare minuscole particelle (Richardson, 1981).
Per quanto detto in precedenza, la concentrazione di tali elementi nei muschi può
essere strettamente correlata con la deposizione atmosferica (Rühling, 1994).
Le analisi condotte sui muschi hanno dimostrato che assorbono anche materiali
radioattivi, con una capacità più che doppia rispetto alle piante superiori. Infatti per la
loro elevata capacità di trattenere grandi quantità di acqua piovana funzionano come
ricettacolo di radionuclidi.
3) Distribuzione areale
I muschi vivono in una grande varietà di habitat su tutta la Terra e su diversi tipi di
substrato: roccia, terra, tronchi d’albero. Anche se sono largamente diffusi in luoghi
umidi ed ombrosi (boschi delle medie latitudini, torbiere, foreste equatoriali), diverse
specie vivono nei deserti o sulle rocce esposte al sole, tollerando lunghi periodi di
siccità in uno stato di vita latente. Molte specie sono cosmopolite in determinati habitat,
alcune sono abbondanti anche in ambienti pesantemente antropizzati.
4) Longevità
La maggior parte dei muschi è perenne ed ha un accrescimento lento. Per questo
motivo possono essere utilizzati per valutare le deposizioni durante un periodo di più
anni.
5) Accrescimento apicale
La formazione di nuova biomassa avviene alla sommità di quella vecchia,
precludendo qualsiasi sorta di contatto o interazione con il suolo o il substrato.
Non sembra esserci inoltre alcuna traslocazione di metalli pesanti dalla vecchia
biomassa a quella in via di sviluppo (Tyler, 1990).
I muschi presentano inoltre dei vantaggi rispetto ai licheni:
- molte specie sono meno sensibili a certi fitotossici gassosi, come SO
2
e HF, per i
quali invece i licheni dimostrano un’elevata sensibilità; i muschi infatti si trovano
spesso nelle aree con deserto lichenico e alcune specie sono quindi più adatte per la
sperimentazione con trapianti (biomonitoraggio attivo);
- in alcune ricerche hanno mostrato più alte concentrazioni metalliche rispetto a
licheni raccolti nella stessa località (Folkeson,1979) e accumulano con maggiore
efficacia i contaminanti in forme particellate (radionuclidi, metalli pesanti);
- è generalmente più facile determinare il tempo d’esposizione del materiale oggetto
di indagine poiché il tessuto vivente ha di solito tre anni d’età e in alcune specie, per
la loro struttura stratificata, è possibile riconoscere e separare gli incrementi annuali
di crescita, facilitando la determinazione dell’età;
- i muschi sono facilmente coltivabili in laboratorio e permettono in questo modo di
condurre esperimenti sulla loro fisiologia e anche sulla capacità di assorbimento e
ritenzione dei metalli, come infatti hanno realizzato Rühling e Tyler (1970),
Gjengedal e Steinnes (1990).
Per quanto riguarda il biomonitoraggio delle deposizioni radioattive la procedura di
campionamento e preparazione dei muschi è molto più semplice rispetto a quella per il
suolo, ciò permette quindi una rapida indagine di vaste aree a costi relativamente bassi. I
dati analitici dei radioisotopi relativi ai muschi sono inoltre meno variabili di quelli dei
funghi, i quali presentano carattere sporadico ed effimero.
Esistono comunque dei limiti nell’uso delle briofite per il rilevamento
dell’inquinamento atmosferico:
- come già detto, il rifornimento minerale è ottenuto principalmente dalle deposizioni
di particelle e sali solubili. Bisogna fare tuttavia attenzione alla scelta della specie
usata nel biomonitoraggio perché esistono delle eccezioni: in alcuni muschi sembra
avvenire un assorbimento di metalli dal suolo, principalmente per mezzo della
risalita capillare dell’acqua. Queste specie non sono quindi adatte per scopi di
biomonitoraggio (Cenci et al., 1998);
- in concomitanza con condizioni ambientali particolari (esempio acide) potrebbe
verificarsi un assorbimento incompleto di alcuni metalli (principalmente Zn e Cd),
aventi un’affinità piuttosto bassa per gli scambiatori cationici del tessuto;
- se sono assenti specie di muschi in aree urbane o in altri luoghi contaminati è
necessario intervenire con trapianti di muschio. In questo caso il problema principale
sembra essere il fatto che spesso essi vengono introdotti in habitat nei quali non
possono sopravvivere a causa di condizioni climatiche avverse o di severa
contaminazione. Parecchie specie comunemente usate sono sensibili all’essiccazione
e spesso interrompono la crescita o muoiono se trapiantate in un habitat inospitale
(Cenci et al., 1998).
Hypnum cupressiforme
Come già accennato, per l’indagine è stato impiegato il muschio Hypnum
cupressiforme (Hedw.), (Fig. 1.1).
È una specie cosmopolita, riscontrabile dal piano alla montagna entro i limiti della
vegetazione arborescente, in zone temperate, prevalentemente sciafila (si trova
raramente in piena luce o in piena ombra), mesofila (in stazioni abbastanza umide, ma
soggette ugualmente a lunghi periodi di aridità), sassicola, corticicola (fino a 2-3 m dal
suolo), terricola, è notevolmente polimorfa.
Ha una crescita reptante, il fusticino è generalmente prostrato e irregolarmente
ramificato, le foglioline sono falcate-seconde, da lanceolate ad ovate.
Questo muschio è stato scelto per diversi motivi:
- è già stato utilizzato come organismo accumulatore in Italia (Cenci et al., 1994;
Bargagli et al., 1994) e all’estero ed è quindi disponibile una vasta letteratura in
merito;
- è molto comune in tutta l’area studiata e, poiché è poliedafico, è facile reperirlo sia
nei boschi sia in zone abitate;
- ha una produttività annuale bassa, quindi in esso i metalli vengono concentrati, dato
che devono distribuirsi in meno biomassa per unità di area (Cenci et al., 1998);
- in precedenti studi (Rasmussen e Johnsen, 1976) non ha dimostrato di assumere ioni
metallici dal substrato;
- è piuttosto tollerante ai metalli pesanti (Tyler, 1989 e 1990) e forma densi tappeti
che fungono da efficaci trappole per le particelle aereodisperse e per i metalli
contenuti nelle acque piovane: è perciò adatto ad essere utilizzato come
bioaccumulatore.
Fig. 1.1 - Hypnum cupressiforme
1.4 SCOPO DELLA RICERCA
Scopo dell’indagine è stato di valutare la deposizione di alcuni metalli pesanti nella
città di Varese, quantificandone la concentrazione in Hypnum cupressiforme (Hedw.),
impiegato quale bioaccumulatore.
È stata pertanto allestita una rete di biomonitoraggio utilizzando “piantine” di
muschio raccolte in una zona, supposta poco contaminata, all’interno del Parco del
Campo dei Fiori, e trapiantate in vasi collocati in otto stazioni site in diverse zone della
città.
L’esposizione è durata 12 mesi dal 1° luglio 1997 al 30 giugno 1998.
Tre stazioni biologiche sono state posizionate all’interno delle aree delimitate in cui
si trovano tre centraline, gestite dalla Provincia, per il rilevamento chimico-fisico
dell’inquinamento: via Milano, via Manin, viale Borri, zone ad elevato traffico
veicolare.
Altre cinque stazioni biologiche sono state ubicate in luoghi protetti da possibile
danneggiamento; tra queste, quattro sono state situate in zone non soggette ad elevato
traffico veicolare.
I metalli ricercati sono: Cu, Pb, Zn, Mn, Fe.
Lo studio si propone di confrontare i risultati ottenuti nelle otto stazioni nell’arco di
tempo considerato e di valutare l’impatto dell’inquinamento urbano sulla
concentrazione degli elementi analizzati.
Inoltre mediante i parametri meteorologici forniti dal Centro Geofisico Prealpino di
Varese (temperatura, precipitazioni atmosferiche, velocità e direzione dei venti
prevalenti) si è cercato di indagare le influenze del clima sulle deposizioni atmosferiche
di metalli pesanti.
Al fine di ottenere dati indicativi sui livelli di inquinamento da metalli pesanti nella
Provincia di Varese, sono state eseguite le analisi su muschi della stessa specie prelevati
in sette località all’incirca equidistanti tra di loro.
La briofita Hypnum cupressiforme è stata anche utilizzata come bioaccumulatore di
137
Cs, radionuclide di origine antropica. I prelievi dei muschi sono stati eseguiti
all’interno di un’area compresa tra la Città di Varese (inclusa), il Lago di Varese, il Lago
Maggiore ed il confine con la Svizzera.
La ricerca ha avuto lo scopo di verificare se i muschi avessero conservato la
“memoria” dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl (Ucraina) nell’aprile 1986.