4
1
L’era della conversazione
Il dibattito sugli effetti dell’Information & Communication Technology ha prodotto due
prospettive di analisi distinte: la prima, diffusasi nell’ultimo decennio del secolo scorso,
ereditando l’impostazione classica di marketing, ha enfatizzato il potenziale di
elaborazione delle tecnologie che, consentendo un perfezionamento dei processi di
segmentazione del mercato, rappresentano la leva per superare i limiti del marketing di
massa e spingersi fino all’ipotesi di gestire il singolo consumatore come controparte
dell’impresa (Peppers e Rogers, 1993; Hoffman e Novak, 1996). La seconda
prospettiva, cresciuta sulla scia dei fenomeni sociali che hanno accompagnato e
condizionato lo sviluppo recente della rete, ha sottolineato il potenziale interattivo della
tecnologia, ipotizzando la configurazione di relazioni fondate sul dialogo e sullo
scambio di conoscenze allo scopo di potenziare i processi di innovazione e generare
customer loyalty (Rheingold, 1993).
I due approcci forniscono due diverse chiavi interpretative del ruolo del
consumatore nei processi economici: secondo i sostenitori della prima prospettiva di
analisi, ovvero gli entusiasti dell’one-to-one marketing, il consumatore rimane oggetto
di studio e di elaborazione da parte dell’impresa senza acquisire una legittimità fondata
su una compiuta capacità di espressione (Micelli, 1997). La seconda impostazione,
viceversa, definisce uno scenario radicalmente rinnovato che individua nella tecnologia
un fattore abilitante di forme di interazione finora sconosciute consentendo a domanda e
offerta di trovare soluzioni convergenti attraverso forme di comunicazione innovative a
costi limitati (Micelli e Prandelli, 2000). La diffusione capillare della rete, unitamente
5
allo sviluppo interattivo della stessa tramite il Web 2.0 consente di migrare verso nuove
geometrie dei flussi di comunicazione centrate non più - e non tanto - sul binomio
impresa-consumatore, ma piuttosto su una fitta trama di relazioni che i consumatori
instaurano tra loro (Hagel III e Armstrong, 1997) realizzando, in questo modo, un
sensibile spostamento del baricentro della catena del valore dall’impresa all’utente
finale. Se il one-to-one marketing ha, dunque, avuto l’obiettivo di migliorare l’utilizzo
della conoscenza sul consumatore, l’approccio più recente, centrato sul potenziale
interattivo della tecnologia si propone, invece, di rendere fruibile il patrimonio di
conoscenze ed esperienze del consumatore, attraverso l’attivazione di processi di
apprendimento fondati sul dialogo e sull’interazione (Micelli e Prandelli, 2000).
La rete è divenuta oggi un grande network di persone rese improvvisamente
protagoniste attive della vita pubblica e artefici dirette della formazione di opinioni,
compiti precedentemente ascritti al solo mondo dei media; i nuovi strumenti di
comunicazione interpersonale (forum, blog e social network) hanno liberato le persone,
trasformandole da semplici spettatori passivi a influenzatori (Guadagni e De Tommaso,
2007).
“Internet è molto più interessante da quando ci sono le persone” afferma
Lardellier (2006, p.76) e questo ecosistema digitale, simile ad un ecosistema biologico
(Guadagni e De Tommaso, 2007), dove ogni singola parte cresce con il tutto - concetto
questo che è anche alla base dell’idea di social network - rende l’espansione del Web un
processo inarrestabile perché esso ha ormai posto le proprie radici nel quotidiano della
vita delle persone.
1.1 I mercati come conversazioni
I mercati, così come le organizzazioni, sono conversazioni (Sica e Scotti, 2007).
L’affermazione nasce dalla convinzione che l’evoluzione del Web e le trasformazioni in
atto nell’IT stiano cambiando il funzionamento dei mercati (strutture sociali di scambio)
e delle organizzazioni (strutture sociali di relazioni); due cambiamenti radicali che
6
aprono nuove prospettive di sviluppo organizzativo e vedono nuovi attori diventare
protagonisti dell’emergere di nuove tendenze, paradigmi, valori e modalità d’intervento
caratterizzate da informalità e spontaneità (Sica e Scotti, 2007). Linfa vitale ed elemento
determinante di questi cambiamenti è il diffondersi delle conversazioni intese come
luogo di relazione e di elaborazione in cui la strategia organizzativa è chiamata a
produrre informazioni, comportamenti e risultati. Conversazioni che rendono possibile
non soltanto l’emergere delle molte strutture informali di cui è solitamente composta
un’organizzazione, ma anche l’adozione di nuovi modelli e approcci utili allo sviluppo
organizzativo, al miglioramento delle prestazioni, alla diffusione dell’apprendimento,
per sostenere innovazione e capacità creativa, migliorare senso d’appartenenza e
motivazione (Mazzucchelli, 2008).
Il contesto di riferimento della nuova organizzazione è quello postindustriale
caratterizzato dall’enfasi posta sulla dimensione culturale e sull’importanza dei codici
espressivi, da realtà organizzative con confini labili e elastici e da catene del valore
sempre meno lineari e sempre più reticolari e complesse. In questo nuovo scenario,
variabile e in costante cambiamento, quello che conta è il capitale immateriale
1
,
costituito dalle strutture informali e dalle reti sociali, dalle conoscenze delle persone
coinvolte, dalle loro competenze, informazioni, valori, comportamenti, narrazioni e
conversazioni. Conta la velocità con cui ci si adatta al nuovo e si reagisce alla
concorrenza diventata “glocale”
2
contano le relazioni, la capacità di comunicare e
gestire il rapporto con l’esterno e con tutti gli attori coinvolti nelle nuove filiere di
produzione e distribuzione.
Il concetto dei mercati come conversazioni non è però una novità: alla fine del
secolo scorso la sostanza del fenomeno era già chiara e ciò grazie alle pagine del
Cluetrain Manifesto
3
che contribuì ad assestare un duro colpo al modo tradizionale di
1
I primi studiosi a sostenere questa tesi furono i teorici della cosiddetta resource-based view. Cfr. tra gli
al. Penrose, 1959; Rumelt, 1984; Wernerfelt, 1984; Barney ,1986 e 1991.
2
Glocalizzazione (o glocalismo) è un termine coniato dal sociologo Bauman (2005) per adeguare il
panorama della globalizzazione alle realtà locali, così da studiarne meglio le loro relazioni con gli
ambienti internazionali.
3
Il Manifesto fu scritto nel 1999 da Levine, Locke, Doc Searls, Weinberger e pubblicato nel 2001 da
Perseus Book.
7
intendere i mercati economici; un testo volutamente “eretico” e provocatorio fin nella
scelta di articolare i concetti in “95 tesi” - un richiamo evidente a Lutero
4
- ma anche, e
soprattutto, un’analisi puntuale dei profondi cambiamenti che l’avvento di Internet e
dell’e-commerce stavano generando (e avrebbero generato) nei mercati planetari e nelle
organizzazioni.
“Una potente conversazione globale è in atto” – si legge nell’introduzione del
Manifesto – “attraverso la rete le persone scoprono rapidamente la possibilità di
stabilire livelli di conoscenza prima sconosciuti e nuovi modi di condividere la
conoscenza”, diventando, di conseguenza, più consapevoli e quindi refrattarie al
bombardamento mediatico del marketing tradizionale. Viene anche affermato: “Nel
mondo online gli individui sono molto più avanti delle organizzazioni e delle aziende
cui appartengono. E, così, sono i cittadini e i consumatori, che fanno il vero mercato.
Gli individui sanno già comunicare in modo nuovo. Essenzialmente, scrivono e
comunicano come esseri umani e non con il linguaggio asfittico e vecchio delle aziende.
E allora, perché le aziende non comunicano con voce umana, cioè in modo più aperto,
diretto, e magari con più senso dell’umorismo? Insomma, basta con il linguaggio vuoto,
piatto e ufficiale delle aziende. Anche le aziende, come gli individui, devono finalmente
parlare con voce umana. E se non sanno farlo, perché non fanno parlare direttamente
gli individui?”
5
.
Un cambiamento di portata mondiale sarebbe in atto, ben riassunto dallo stesso
Manifesto nella prima e più celebre delle 95 tesi: “I mercati sono conversazioni”.
A quasi dieci anni dalla pubblicazione del documento e nel momento di piena
esplosione del cosiddetto Web 2.0, questa affermazione è divenuta un valido punto di
riferimento per tutte quelle organizzazioni che desiderano crescere competere e definirsi
“2.0”. Questo concetto è servito e serve a focalizzare l’attenzione dei manager d’azienda
4
Il numero, infatti, costituisce un evidente richiamo alle 95 tesi di Martin Lutero affisse il 31 Ottobre del
1517 sulla porta della Chiesa di Wittenberg con le quali il teologo tedesco attaccò alcune consuetudini
ecclesiastiche che stavano maturando in seno alla Chiesa Cattolica dando inizio alla cosiddetta Riforma
protestante.
5
Tratto da “le 95 tesi del Cluetrain Manifesto. Un manifesto per la comunicazione di impresa nel mondo
online”, www.mestierediscrivere.com, 1999.
8
non soltanto sulla velocità con cui i mercati si adattano ai cambiamenti, ma anche sul
nuovo ruolo che i dipendenti giocano, come parte integrante di una rete sconfinata di
conversazioni che vedono impiegati, clienti, e fornitori comunicare tra loro.
Conversazioni, che oggi, sono rese praticabili e arricchite all’interno delle
organizzazioni dalle nuove tecnologie sociali “2.0” (blog, wiki, forum, VoIP, social
network ecc.), e che favoriscono la produzione del valore intangibile di
un’organizzazione, del suo capitale intellettuale e di conoscenza utile ad affrontare le
difficoltà e a risolvere i problemi che si frappongono al raggiungimento degli obiettivi.
Conversazioni che, all’interno delle organizzazioni, assumono un peso rilevante
nei processi di scambio e in tutte le interrelazioni che caratterizzano le cosiddette
strutture informali (Mazzucchelli, 2008). È proprio in queste strutture, o reti sociali
semiorganizzate, che viene prodotta la conoscenza più pregiata, maturano legami
relazionali e professionali forti, si sviluppano nuove energie e potenzialità innovative e
si creano quelle sinergie e forme collaborative che, solitamente, non emergono nelle
strutture e nei processi formali. In queste strutture informali, e grazie alle conversazioni
che in esse prosperano, la strategia aziendale riesce oggi più facilmente a trasformarsi in
valore per l’azienda perché in grado di condizionare e produrre comportamenti e
risultati.
I mercati attuali, sempre più reticolari, hanno la caratteristica di auto-organizzarsi
e di farlo molto più rapidamente di quanto non riescano a farlo le aziende che in essi
operano. Essi sono meglio informati e organizzati di un tempo e fonte di nuove
conversazioni tra i nodi della rete; fanno emergere nuove forme di networking sociale,
di reti sociali e di scambi di conoscenze. In mercati conversazionali le persone hanno
compreso di poter avere accesso a informazioni migliori e di poter ricevere un supporto
migliore dai nodi loro pari di quanto non ne possano ricevere dalle aziende. In rete i
segreti si sgretolano, prodotti e servizi vengono messi a nudo e le notizie, sia positive
che negative, si diffondono e si auto-propagano molto più rapidamente (Mazzucchelli,
2008).
Un’impresa, per poter competere in un’economia relazionale come quella odierna, deve
avere relazioni solide con i suoi mercati ma anche conversazioni franche, aperte e
9
oneste perché sono quest’ultime a generare transazioni e risultati. Le conversazioni che
caratterizzano questi mercati sono non-stop, molto fluide, non gerarchiche,
bidirezionali, libere e senza controlli (Mazzucchelli, 2008). Queste conversazioni
rappresentano i movimenti dei mercati e obbligano le aziende a ricercare e a dotarsi di
nuovi metodi per comprenderle e gestirle.
1.2 Il profilo del consumatore postmoderno
In uno scenario complesso, dominato da incertezza, cambiamento e frammentazione
sociale il consumatore del terzo millennio è chiamato a riadattare se stesso a tutte le
situazioni che la vita gli riserva. Ecco allora che la trasversalità e l’adattabilità
diventano elementi costitutivi di una personalità duttile, in grado di sopravvivere in
un’epoca che i sociologi defininiscono come postmoderna
6
. Si tratta per lo più di un
consumatore evoluto e informato, caratterizzato da uno spiccato senso di indipendenza,
che manifesta il proprio individualismo (Lipovetsky, 1983, 1987; Firat e Venkatesh,
1993; Firat e Shultz II, 1997) e il rifiuto di ogni forma di fedeltà nei confronti del
marchio
7
. I suoi bisogni cambiano in funzione dell’estrinsecazione del proprio ego
(Guadagni e De Tommaso, 2007). Una condizione che gli consente di spaziare
liberamente attraverso diversi stili
8
(dimensione orizzontale) e diverse fasce di prezzo
(dimensione verticale), rivendicando, al tempo stesso, autonomia nelle scelte ed
esigendo prodotti adeguati alla propria personalità e alle proprie emozioni
9
.
6
Il primo a parlare di postmodernismo fu Lyotard (1979). Secondo l’opinione prevalente la
postmodernità non indica una fase avanzata della modernità ma una vera e propria epoca nuova,
caratterizzata da nuove regole di produzione e tecnologie e rispondente a regole e paradigmi inediti. Altri
autori, al contrario, contestano il clamore attorno al postmodernismo sostenendo che questo sia soltanto la
riscoperta di alcuni aspetti del modernismo.
7
In tal senso Fabris (2003) descrive il consumatore postmoderno come un informatissimo poligamo,
nomade, eclettico, esigente, curioso, creativo e consapevole del proprio potere..
8
Questa tendenza a combinare stili diversi viene efficacemente definita da Fabris (2003) con il termine
sincreclettismo: il nuovo consumatore è, cioè, eclettico perché si muove con disinvoltura tra stili diversi e
sincretico perché riesce fonderli realizzando una sintesi armonica.
9
La teoria postmoderna riconosce all’individuo il diritto alla diversità, alla mutevolezza e all’unicità. Per
una panoramica completa della teoria post-moderna applicata ai consumi cfr. Firat e Venkatesh (1995).
10
Così la frammentazione sembra essere la caratteristica che meglio descrive il
consumatore postmoderno (Firat e Venkatesh, 1995; Venkatesh, 1999). Se, infatti, nella
modernità i prodotti si caratterizzavano per la loro fisicità, ossia per il loro valore d’uso,
oggi i prodotti si dematerializzano e si trasformano in segni, simboli e immagini
liberamente scelti e mescolati per comunicare la propria identità
10
(Baudrillard, 1981;
Firat e Shultz II, 1997; Arnould e Thompson, 2005). Di conseguenza la realtà stessa
diviene parte di un mondo simbolico e simulato
11
, definito come iperreale (Baudrillard,
1983; Eco, 1986), e costantemente costruita e consumata (Firat e Venkatesh, 1995).
Il consumo permea ormai ogni sfera esistenziale dell’individuo che lo assume
quale mezzo espressivo della propria reale identità (Firat e Venkatesh, 1995; Firat e
Dholakia, 1998), spesso palesando, attraverso i diversificati atti di consumo, la pluralità
e l’eclettismo delle personalità (Fabris, 2003). Infatti, l’identità diventa più
imprevedibile, flessibile e indeterminata: nella postmodernità il consumatore passa da
un’identità all’altra in modo assolutamente contraddittorio, a seconda delle circostanze
(Cova, 1997; Venkatesh et al., 1998).
Il consumatore viene percepito oggi come un essere emozionale, in cerca di
esperienze sensibili che lo facciano interagire con i prodotti e servizi del sistema di
consumo (Cova, 2003). Tutto ciò ha condotto a stemperare la visione utilitaristica del
consumo
12
per abbracciare la cosiddetta prospettiva esperienziale del consumer
behaviour (Holbrook e Hirschman, 1982; Hirschman e Holbrook, 1982) la quale mette
in rilievo i valori edonistici, la soggettività dell’individuo e il ruolo giocato dalle
emozioni nei processi di consumo. Nel contornarsi di oggetti del desiderio il
consumatore vuole appagare il suo senso estetico e ricercare il piacere, intendendo
10
Scrive Fabris (2003): “il valore di un bene è soprattutto un valore semantico e valoriale con cui ci
esprimiamo e comunichiamo con gli altri” (p. 68-69); in altre parole il consumo di un prodotto non è
legato tanto alle caratteristiche tecnico-funzionali dello stesso, quanto, piuttosto, alla sua capacità di
veicolare messaggi.
11
Derrida (1970) definisce la simulazione come una catena senza fine di significati nella quale ogni
significato è continuamente sostituito da un altro significato.
12
Tutti i modelli elaborati dal filone di studio utilitaristico si basano sul fatto che ogni scelta compiuta dal
consumatore è frutto di un processo razionale e consapevole (Venkatraman e MacInnis, 1985).
Hirschmann e Holbrook (1986) hanno elaborato il paradigma ICABS (information, cognition, affect,
behavior) al fine di ricondurre tutti i modelli elaborati ad un paradigma generale.
11
comunicare i suoi stati d’animo, i suoi valori o i suoi stili di vita attraverso un sistema di
codici che lo distinguano per la sua unicità e specificità ma che, al tempo stesso,
segnalino la sua appartenenza a un gruppo (Fabris, 2003).
In questo modo l’esperienza di consumo vissuta dal consumatore permea il
consumo stesso di simboli e significati di valore certamente individuale ma alla cui
creazione contribuisce in vario modo la società e il contesto all’interno dei quali
l’esperienza è vissuta (Addis, 2005). Nella prospettiva postmoderna è evidente “una
diminuzione dell’importanza della funzione del bene/servizio in sé e un incremento di
importanza del bene/servizio come vettore di significati simbolici” (Addis, 2005, p. 56).
In tal modo, da consumers, le persone divengono transumers
13
(Lipovetsky,
2005): non si accontentano del possesso di prodotti semplicemente funzionali ma
chiedono divertimento, emozioni ed esperienze. Insomma, siamo di fronte a una grande
svolta nei processi di consumo, in cui cessa il potere assoluto della marca e si tende ad
assegnare ad essa delle valenze diverse da quelle convenzionalmente accettate,
certamente più emozionali.
Finita l’epoca moderna, caratterizzata dalla fiducia illuministica nel progresso, dal
mito della crescita infinita dalla certezza nella razionalità dell’uomo, se ne è aperta
un’altra, all’insegna della complessità, del relativismo, della contingenza e della
diversità (Cova, 1996; Firat e Venkatesh, 1993; 1995)
14
. Si è passati, così, da un
modernismo fatto di produzione di massa, uniformità di comportamenti e subalternità
del consumatore ad un postmodernismo che vede superare i problemi di asimmetria
informativa grazie alle nuove tecnologie e diventare così “consumAttore” (produttore di
contenuti), “consumAutore” (competente e selettivo) e “consumatoRe” (è lui che guida
il rapporto con le aziende) (Fabris, 2008).
13
In tal senso Lipovetsky (2005) sostiene che: “Transumers are consumers driven by experiences instead
of the “fixed”, by entertainment, by discovery, by fighting boredom, who increasingly live a transient
lifestyle, freeing themselves from the hassles of permanent ownership and possession. The “fixed” is
replaced by an obsession with the current, an ever-shorter satisfaction span, and a lust to collect as many
experiences and stories as possible. In other words; the past is, well, over, and the future is uncertain, so
all that remains is the present, living for the now”, (p. 76).
14
In tal senso cfr. Cova (1996), Addis e Holbrook (2001).
12
Gli stessi concetti di mercato e consumatore, visti come capisaldi di una razionalità che
l’individuo mostrerebbe in fase di acquisto, sfumano rapidamente, per riportare al
centro della riflessione la società e l’individuo nella sua interezza.
Dal punto di vista etimologico, infatti, “consumare” indica modalità di fruizione
dei prodotti ormai passate: con tale vocabolo, infatti, si vuole far riferimento alla
distruzione, al logorio e all’annullamento fisico di un bene (Tirelli, 1996). Tuttavia
questa accezione del termine consumare sembra non essere più idonea a descrivere la
nuova natura del consumo (Poster, 1975; Firat e Dholakia, 1998; Fabris, 2003): basti
pensare al settore dei servizi che non rientra nell’insieme di beni che si “distruggono”
con l’uso. Inoltre, il consumo non sembra più essere legato al bisogno inteso come
spinta impellente a soddisfare una necessità vitale (Benigno e Salvemini, 2002); in un
mercato maturo, nel quale gran parte dei settori si avvia alla saturazione, i bisogni
cedono il passo ai desideri e alle emozioni quali strumenti in grado di indirizzare le
scelte di consumo (Firat e Shultz II, 1997). In sostanza, per il consumatore
postmoderno, “il consumo non è un semplice atto di distruzione o di utilizzo di un
prodotto ma piuttosto un atto di produzione di esperienze e, al tempo stesso, di sé stessi
e di immagini di sé” (Firat e Dholakia, 1998, p. 96).
Le motivazioni di consumo, così come le tipologie di beni, sono estremamente
varie, pertanto la semplicità delle categorie tradizionalmente impiegate per spiegare il
consumo contrasta con la sua crescente complessità. Consumare, infatti, può essere
ricerca di piacere, di divertimento, ma anche ribellione. Il consumatore descritto in
ambito economico, isolato, atomizzato proteso al perseguimento egoistico di obiettivi di
consumo, se mai esistito, è un lascito della modernità che la postmodernità non accoglie
(Fabris, 2003). La nuova epoca è caratterizzata dalla nascita dell’homo aestheticus
15
,
che vuole affermare il proprio individualismo nel consumo attraverso una forte
valorizzazione dell’edonismo del narcisismo e del benessere fisico.
15
Come ricorda Fabris (2003), ci sono diverse definizioni in proposito. Morra individua, nel corso della
storia umana, quattro tipi antropologici: dopo le epoche che hanno visto come protagonisti prima l’homo
sapiens, poi l’homo religiosus – che coniuga la vita terrena con quella trascendente – e in seguito l’homo
faber – caratterizzato da una razionalità strumentale – si è giunti a una sorta di mutazione antropologica
con l’emergere dell’homo ludens, proprio della postmodernità. Per Maffesoli, invece, dopo l’homo
politicus e l’homo economicus, la postmodernità sarebbe caratterizzata dall’homo aestheticus.
13
Ma l’esasperato individualismo non necessariamente implica la fine dei legami sociali:
per quanto i due concetti possano sembrare antitetici, non bisogna dimenticare che nella
postmodernità le contraddizioni convivono (Boero, 2003). Se si accetta l’interpretazione
analitica postmoderna, l’immaginario e i valori delle società occidentali sarebbero in
procinto di attuare una sinergia tra “progresso” e “regresso”, sviluppo tecnologico e
arcaismo, che porrebbe ogni individuo in tensione tra i due tipi di immaginario
(Maffesoli, 2004; Cova et al., 2008). Proprio per questo motivo, accanto
all’individualismo emergono nuove forme di socialità che vengono comunemente
definite neotribù o sotto-culture di consumo (Bauman, 1990; Maffesoli, 1996, Cova,
1997). Così, mentre l’individualismo acquista una nuova legittimità sociale
16
, nello
stesso tempo, si riafferma il desiderio di stare insieme per scambiare atmosfere,
esperienze ed emozioni: nascono, in questo modo, inedite forme di socialità, diverse da
quelle più tradizionali basate sulle appartenenze di ceto e di classe
17
, “la cui unica
ragion d’essere è la cura di un presente vissuto collettivamente” (Maffesoli, 2004, p.
125).
Queste nuove forme di micro-socialità mostrano delle singolari analogie con le
tribù: inizialmente diffuse solo presso la popolazione giovanile (ad esempio i punk o gli
hippies), oggi le tribù si estendono anche alla popolazione adulta, tagliando la società in
termini interclassisti o intergenerazionali (Fabris, 2003). Le tribù riguardano anche il
mondo del consumo: qui il desiderio di appartenenza e di interazione crea un legame
che diventa persino più importante di quello con il bene che ha originariamente generato
l’incontro. La persona sembra, allora, non tanto cercare nel consumo un mezzo diretto
per dare un significato alla sua vita, liberandosi dagli altri, bensì un mezzo per legarsi
agli altri nel quadro di una o più comunità di riferimento (Cova, 1997).
16
In realtà non tutti sono d’accordo con questa tesi. Maffesoli (2004) sostiene che il postmodernismo non
segna il trionfo dell’individualismo ma l’inizio della sua fine. La postmodernità sarebbe dunque
caratterizzata da tentativi di riaggregazione sociale “nell’ansiosa ricerca di un legame di tipo
comunitario” (Maffesoli, 2004, p. 21).
17
In tal senso Cova (2003) sostiene che “il soggetto postmoderno, liberatosi completamente dai suoi
legami sociali, ricercherebbe una ricomposizione sociale sulla base di libere scelte emotive” (p. 10).