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INTRODUZIONE
Il presente elaborato è frutto di un’accorta e costante ricerca in merito al
tema del disimpegno morale, inteso come perdita della responsabilità
morale e negazione del senso di colpa.
Il disimpegno morale consiste, infatti, nel disinvestimento della morale
che si ottiene operando una disattivazione selettiva del giudizio morale.
Normalmente gli individui non sono soliti adottare una condotta
riprovevole, poiché, hanno bisogno di giustificare a se stessi la
correttezza delle proprie azioni monitorando le proprie condotte e
valutandole in base ai propri standard morali e regolandole in base alle
conseguenze che si possono prevedere sia a breve che a lungo termine.
La storia, però, ha dimostrato come in particolari situazioni (che
andremo tra poco ad analizzare), l’uomo perda questa capacità e si
renda autore di azioni disumane. E’ il caso della Shoah, che ha visto
l’uccisione di milioni di persone innocenti.
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L’intento di questo lavoro è di analizzare le possibili cause del collasso
morale avvenuto soprattutto in Germania durante il regime nazista, e in
seguito di individuare un possibile percorso formativo volto alla
formazione di un uomo in grado di autodeterminarsi.
Per tal ragione, il primo capitolo si apre con un’attenta e minuziosa
definizione del concetto di responsabilità morale, enfatizzando la
differenza tra essa e la mera imputazione, pervenendo alla conclusione
che l’imputabilità leghi in termini causativi il soggetto all’evento,
mentre la responsabilità richiami l’elemento spirituale e la previsione
degli effetti dell’azione posta in essere dal singolo.
La responsabilità morale è definita, quindi, come quell’abilità a
rispondere a se stessi, e dunque alla propria coscienza, delle proprie
azioni, tenendo presente la capacità del singolo di prevedere le
conseguenze dei propri comportamenti e di correggere il medesimo
comportamento in base a tale previsione; parliamo di responsabilità
morale perché investe la sfera intima del singolo, l’insieme di valori
iscritti in lui, che lo guidano nel compiere le scelte.
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L’attenzione, dunque, è rivolta al singolo e al dialogo interiore che egli
intrattiene con se stesso prima di affrontare qualsiasi scelta, onde
evitare di convivere con un sé assassino o criminale. Non c’è nemico
peggiore, infatti, secondo Socrate come secondo Hannah Arendt, di un
sé criminale, poiché dagli altri si può scappare, ma da se stessi non si ha
scampo.
Una volta definito il comportamento responsabile dal punto di vista
morale, l’analisi si sposata sugli avvenimenti accaduti, incentrandosi
dapprima sulla definizione e sul significato della Shoah, per poi passare
alla descrizione dei fatti accaduti.
L’attenzione si focalizza sul ruolo che hanno avuto i medici nella
Shoah, e il loro venir meno al giuramento ippocratico, rendendosi
protagonisti dapprima del programma di sterilizzazione, per poi passare
all’eutanasia e in fine alle operazioni e alla sperimentazione nei campi.
In seconda analisi, l’attenzione si concentra sul ruolo che ha avuto
Adolf Eichmann, il grande coordinatore e responsabile delle macchina
delle deportazioni, emblema dell’uomo figlio del suo triste tempo, il
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quale ebbe un ruolo notevole nell’ottenere la collaborazione delle
vittime.
L’attenzione, in seguito, viene infatti rivolta al ruolo che hanno avuto le
vittime, e dunque sulla loro innegabile collaborazione. Tra le vittime
collaboratrici sono stati annoverati i leader della comunità ebraica e i
medici prigionieri. Per quanto concerne i consigli ebraici, essi
eseguirono gran parte del lavoro burocratico (consistente nel fornire i
dati ai nazisti di tutte le potenziali vittime) e le attività di polizia volte a
mantenere l’ordine. Tutto questo non gravò sui persecutori che furono
facilitati nel compiere lo sterminio nelle sue fasi progressive.
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Essi non
provarono rimorsi, senso di colpa, ma riteneva di compiere
semplicemente il proprio dovere.
I medici collaborazionisti, invece, collaborarono con i persecutori
durante le operazioni volte all’incremento delle conoscenze scientifiche
e al progresso della scienza.
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Cfr. Bauman Z., Modernità e Olocausto, trad. it., il Mulino, Bologna 1992, p. 18.
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Il capitolo si chiude con l’analisi del caso degli spettatori passivi che
con il loro silenzio hanno favorito l’avanzare dello sterminio, anziché
opporsi alle atrocità che si stavano verificando in quel momento storico.
Nel secondo capitolo l’attenzione è incentrata sulle possibili cause del
collasso morale.
In prima analisi l’analisi si incentra sui fattori sociali che hanno
facilitato il venir meno di un agire responsabile del soggetto, tra cui è
importante annoverare, innanzitutto, il sistema politico operante in quel
momento storico in Germania: il totalitarismo.
Tale sistema politico comporta la riduzione delle parti ad un unicum e
tutto ciò che non può assimilare annienta; <<la società totalitaria […] è
monolitica: ogni manifestazione di carattere culturale, artistico e
scientifico, come ogni organismo sociale e assistenziale e perfino ogni
forma di intrattenimento o di manifestazione sportiva, tutto deve essere
perfettamente “allineato”
2
>>.
2
Arendt H., Responsabilità e Giudizio, trad. it., Einaudi, Torino 2004, p. 28.
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Attraverso il terrore e il pensiero ideologico, il totalitarismo riesce a
distruggere tutti i legami tra gli uomini, e il legame tra uomo e realtà. Il
suddito ideale del regime totalitario, dunque, non è il nazista convinto
ma l ’ i ndi v i duo per i l qual e l a d i s t i n z i one f r a r ea l t à e f i nz i one, f r a ver o e
falso, fra giusto e sbagliato non esiste più: <<l’uomo Eichmann,
informato alla logica dell’obbedienza, del dovere per il dovere. […]
Eichmann compie il male da don Rodrigo, e non da Innominato: nel
culto dell’azione fine a se stessa, nell’esperienza di una vita mistificata,
nella sua fatticità, simbolo della desertificazione è paradigmatico del
totalitarismo
3
>>.
Successivamente l’analisi si sposta sul mezzo che ha consentito il
concretizzarsi della Shoah, in maniera fredda e sistematica: la
burocrazia. La burocrazia, infatti, attraverso la divisione del lavoro
consente la creazione di una distanza pratica e mentale tra coloro che
contribuiscono all’attività collettiva per il conseguimento dell’obiettivo
finale e l’esito stesso dell’attività. In questo modo vi è una non
consapevolezza del fine reale delle azioni di ciascuno. Questo consente
3
Saponaro M.B., Olocausto. Passato – futuro, Cacucci, Bari 2000, p. 71.
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la sostruzione di una responsabilità morale con una tecnica: <<la
moralità si riduce all’imperativo di essere un buon lavoratore:
efficiente, diligente ed esperto
4
>>.
In questo modo i soggetti coinvolti poterono non sentirsi in colpa,
manifestando forme di disimpegno morale, senza porsi in aperto
conflitto con se stessi, ma auto-ingannandosi.
L’analisi, poi si sposta su tre meccanismi sociali in grado di rendere il
singolo artefice delle più grandi atrocità, pur mantenendo intatta la
propria coscienza. Tali meccanismi sono: l’autorizzazione, ovvero
quando vi è un’autorità legittima che concede il permesso di compiere
tali atti (idea supportata dai risultati degli esperimenti condotti da
Milgram); la routinizzazione, ovvero il porre in essere in maniera
continua, costante e ripetitiva le medesime azioni; la de-umanizzazione,
ovvero le persone vengono reificate e ritenute essere delle cose
5
.
4
Bauman Z., op. cit., p. 147.
5
Kelman H.,C., Violence without Moral Restraint, in <<Jorutnal of Social Issues>>, 29 (1973), pp.
29-61. Cfr. Ravenna M., Carnefici e vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità
sociali, il Mulino, Bologna 2004, pp. 217-224.
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L’attenzione, successivamente si svolge al singolo, e ai meccanismi che
egli attiva per tacitare la propria coscienza e auto ingannarsi, in modo
da poter convivere con un sé malfattore, senza provare alcun senso di
colpa. Il riferimento va ad Albert Bandura, famoso psicologo canadese,
il quale si propone di spiegare come processi cognitivi possano
trasformare un atto immorale in una cosa di poco conto o addirittura in
un’azione morale e quindi favorire il disimpegno morale a scapito
dell’agire in maniera responsabile dal punto di vista morale.
Egli divide tali processi in tre gruppi: nel primo gruppo colloca i
meccanismi che ridefiniscono l’azione dannosa operando una
ristrutturazione cognitiva (giustificazione morale; uso di eufemismi;
confronti vantaggiosi); nel secondo gruppo colloca i meccanismi che
oscurano l’azione individuale e distorcono il rapporto fra l’azione e i
suoi effetti (spostamento della responsabilità; diffusione della
responsabilità; distorsione delle conseguenze); e in fine colloca in un
altro gruppo i meccanismi che producono una specifica
9
rappresentazione della vittima (de-umanizzazione; attribuzione di
colpa)
6
.
Il capitolo si conclude con il riferimento a Lifton e a quello che lui
chiama sdoppiamento del sé, ossia la divisione del sé in due sé
funzionanti così che un sé parziale si trovasse ad agire come un sé
intero. Ciò permise agli esecutori di adattarsi alle situazioni estreme
senza entrare in conflitto con se stessi, e continuare a vivere una vita
normale come padre affettuoso di famiglia, in concomitanza ad un
lavoro sporco e macabro come l’annientamento freddo e sistematico di
milioni di persone, tra cui anche bambini
7
.
Nell’ultimo capitolo, l’argomento é affrontato da un punto di vista
prettamente pedagogico, cercando di individuare il comportamento e lo
stile educativo che un educatore dovrebbe seguire in modo da
scongiurare un possibile ritorno di Auschwitz.
Il capitolo si apre con la definizione del concetto di Bildung, sino a
giungere all’affermare la necessità di un’educazione che interessi tutte
6
Cfr. Ravenna, M., op. cit., pp. 46-58.
7
Cfr. Lifton R.J., I medici nazisti. La psicologia del genocidio, trad. it., Rizzoli, Milano 2003, pp.
543, 546-547.
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le dimensioni dell’uomo, e non solo la sfera intellettiva, ma anche
quella affettiva, emotiva.
Come infatti sostenne Goethe:
Quello di formazione è […] un principio onnicomprensivo [allumfassendes Prinzip]
che abbraccia sia l’esistenza naturale sia quella spirituale, e che serve proprio a
mantenere costantemente evidente la necessaria e inviolabile unità dei due piani.
Chi si sforza di erigere una barriera tra natura e spirito, chi li contrappone in un
dualismo metafisico astratto ha già mancato l’autentico concetto di formazione
[Bildung]. “Chi non vuole ammettere che spirito e materia, anima e corpo, pensiero
ed espansione, erano, sono e saranno i necessari ingredienti duplici dell’universo,
che pretendono entrambi insieme come rappresentanti di Dio, chi non può elevarsi a
questa idea, avrebbe dovuto da tempo rinunciare a pensare e impiegare i suoi giorni
nelle comuni chiacchiere mondane
8
.
Inoltre, come sostenne Adorno, per scongiurare il ritorno di Auschwitz,
si rende necessaria la formazione di un uomo autonomo, un uomo che
riesca ad opporsi alle pressioni provenienti dal mondo esterno, che
8
Lettera a Knebel dell’8 aprile 1812, in Briefe (Weimarer Ausgabe), vol. 22, p. 321 sgg.; cfr. Kaiser
A., (ed.), La BILDUNG ebraico-tedesca del Novecento, Bompiani, Milano 2006, p. 266.
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recuperi la capacità di riflettere sul proprio operato e che sia in grado di
autodeterminarsi, un uomo che ritorni, insomma, ad essere umano.
Fatta questa premessa, nel primo paragrafo si passa all’analisi dello
stile educativo vigente nella Germania nazista, ovvero lo stile educativo
autoritario, enfatizzandone i limiti (dialogo assente; imposizione di
ordini e norme, eccessive pretese; potere massimo dell’adulto; culto
dell’obbedienza, della disciplina e dell’ordine) e il desolante risultato:
l’uomo etero diretto, non in grado di pensiero autonomo, e quindi la
tipologia di uomo che ha reso possibile la Shoah.
Nel secondo paragrafo, si specifica che lo stile educativo permissivo
non sia, come invece si suole erroneamente pensare, l’antidoto
all’autoritarismo. Esso, infatti, è caratterizzato dal pieno rispetto dei
bisogni dell’educando, ma anche dal non intervento dell’adulto, il quale
rinuncia alla sua responsabilità verso le future generazioni, poiché
ritiene un proprio possibile intervento come negazione della libertà
dell’educando, lasciando così tutto in balia di uno spontaneismo senza
freni.
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In ultima analisi, l’attenzione si concentra sul vero antidoto
all’autoritarismo: lo stile educativo autorevole. Tale stile pare essere
caratterizzato dalla presenza di un adulto non autoritario, e quindi che
non impartisce ordini, ma vi è il culto del dialogo, e il tutto si svolge nel
pieno rispetto e riconoscimento rei reciproci diritti e doveri, educatore
ed educando concrescono, il tutto nel pieno rispetto di norme condivise,
che vengono introiettate dall’educando in maniera consapevole e
ragionata.
L’educatore diviene una guida e la sua azione è orientativa. Vi è quindi
il recupero del concetto di autorità, vista nel suo vero significato, e
come una e possibile fonte di autonomia per l’educando.
Infine vi sono alcuni suggerimenti didattici volti a favorire un clima in
grado di formare un soggetto autonomo, integrale, multidimensionale
ed ecologico; autonomo perché non dipendente da nessun ente esterno;
integrale e multidimensionale perché senza mutilazioni, in quanto tutte
le sue dimensioni devo essere formate, ma non secondo una forma
imposta dall’esterno, ma devono assumere una propria forma;
ecologica perché in equilibrio con se stessa e con l’ambiente in cui vive.