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Introduzione
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Entrare nel territorio della decrescita significa ascoltare la voce di
chi pare giocare una partita fuori casa e ha l’impressione che gli arbitri
siano corrotti. Il contemporaneo, dominato dal produttivismo, propone
attrattive decisamente ammalianti, che una proposta politica e culturale
alternativa sembra semplicemente impossibile. Figuriamoci se questa
proposta poi andasse a suggerire una rinuncia volontaria allo stile di vita
attuale a favore di una frugalità ricercata (e non imposta dallo spettro della
crisi). Eppure non viviamo tempi particolarmente rosei. La parola “crisi”
risuona come un mantra nei discorsi delle persone e il futuro spaventa.
Spaventa soprattutto i miei coetanei, sempre più laureati ma con sempre
meno prospettive. Viviamo un momento contraddittorio. Crisi economica,
crisi finanziaria, crisi energetica, crisi idrica, forse anche crisi culturale,
eppure la crescita è comunque l’imperativo. Imperativo così forte da
essere quasi controproducente. Sul Corriere della Sera del 5 Luglio 2010
è uscito un articolo sulla decisione di un assessore del Comune di Milano
di abbattere 12000 alberi “pericolosi” perché causa dell’aumento del
numero di allergie da polline. Nell’articolo stesso si specifica che il polline
mescolato allo smog crea un “cocktail velenosissimo” per cui la decisione
di abbattere cipressi, aceri, platani, betulle e altri alberi “allergenici”. La
scelta pare azzardata anche ad occhio inesperto.
La teoria della decrescita è una delle possibili risposte all’assurdo in
cui oggi siamo immersi: da una parte crisi ecologica, crisi finanziaria e la
6
sensazione di un imminente tracollo, dall’altra dipendenza dal consumo,
imperativi per la crescita e convinzione che l’economia di mercato sia, del
resto, l’unica soluzione possibile. Entrare nell’universo delle soluzioni
“altre” apre gli occhi sia sulla diversa percezione delle problematiche
relative alla crisi generale che sulla volontà e sulla necessità di spingere
per un cambiamento che non sia solo teorico ma trovi soluzioni pratiche. E
non si tratta di un mondo popolato da “irosi figli di Seattle” quanto di
persone decise a prendere in mano la situazione indagando se è possibile
applicare oggi concetti quali reciprocità e solidarietà. E’ un universo
capillare che si muove sapientemente tra i fili della tecnologia per
recuperare competenze e conoscenze e condividerle per tentare di
riprendersi un po’ di autonomia. Il percorso non è semplice (non bisogna
dimenticarsi infatti che per quanto i protagonisti coinvolti siano tanti e in
crescita si tratta comunque di un movimento di e per pochi) e la teoria a
volte incespica, però resta l’evidenza che una crisi ambientale, finanziaria
ed economica esiste e non sono in pochi a considerarla frutto del nostro
sistema produttivo.
Il percorso che ho tentato di tracciare parte guardando alle
contraddizioni del nostro sistema economico. Il capitalismo è stato una
conquista del sistema economico moderno e ha consentito la diffusione
del benessere così come oggi lo conosciamo. La sua degenerazione in
fenomeni quali consumismo, obsolescenza programmata, sfruttamento
irrazionale delle risorse ha portato però a conseguenze tutt’altro che
positive: inasprimento delle disuguaglianze, guerra per le risorse, perdita
di sovranità del consumatore. Queste conseguenze minacciano di
diventare croniche e non suggeriscono la soluzione a un futuro
sostenibile. Una soluzione alternativa invece è proposta dalla teoria della
decrescita. In particolare, per voce di quello che è il suo fondatore ideale,
Goergescu Roegen, la teoria individua come causa della crisi
internazionale la convinzione di poter inseguire una crescita infinita in un
mondo finito. La decrescita, secondo l’autore, sarà inevitabile nel
momento in cui le risorse non ci saranno più e i consumi verranno
7
naturalmente inibiti. I teorici contemporanei riconoscono l’inevitabilità di
una decrescita ma suggeriscono di attivarla in modo sereno finanziando
circoli virtuosi che facciano sì che la decrescita non sia traumatica ma
felice. Per questo sostengono una voluta diminuzione del Prodotto Interno
Lordo, per eliminare tutte le produzioni inutili se non nocive, che
contribuiscono a gonfiare il paniere dell’economia ma non aumentano il
reale benessere dei cittadini. Le strategie per raggiungere la decrescita
partono dal presupposto antropologico per il quale è necessario
abbandonare l’immaginario a cui la società della crescita ci ha abituati a
favore di una revisione delle priorità. Le applicazione della teoria della
decrescita sono varie ma grande impatto sociale hanno le associazioni su
base volontaria di cittadini che decidono di creare legami di
interdipendenza per condividere competenze e conoscenze in modo da
creare uno strumento che metta in pratica i principi teorici. L’aumento dei
legami di reciprocità e solidarietà tra membri di un gruppo, che condivide
gli stessi principi, favorisce la formazione di capitale sociale, che non è la
panacea di tutti i mali, ma crea un solido collante tra i nodi della rete
solidale. Grazie ai contributi della teoria delle reti è facile scorgere
l’importanza delle interdipendenze all’interno delle reti di produttori, di
consumatori, di cittadini. Nel terzo capitolo ho approfondito il discorso
sull’esperienza dei distretti dell’economia solidale, considerano
l’esperienza dell’economia altra come emblematica rispetto alla capacità e
alla volontà di scegliere di agire in modo alternativo rispetto agli
insegnamenti dell’economia tradizionale. I distretti si presentano infatti
come laboratori in via di sperimentazione che, su base volontaria,
coordinano il lavoro di tutti i personaggi che animano l’economia solidale:
dalle botteghe del mondo alla finanza etica. Non sono però l’unico
esperimento vicino ai presupposti della decrescita. Nel quarto capitolo ne
ho individuati altri, senza pretesa di completezza visto il variegato
panorama, ma evitando di proposito le esperienze virtuose ma estreme
per dimostrare anche che esistono esempi facilmente praticabili che non
condannano necessariamente a una vita da eremiti. Il fatto che esistano
8
tante e diverse sperimentazioni dimostra come le diverse realtà sappiano
rispondere alle problematiche che investono tutti in modo originale e
innovativo.
La seconda parte del lavoro si propone di tentare la descrizione di
quella che è la realtà effettiva dell’economia solidale e in particolare dei
Gruppi d’Acquisto Solidali. La metodologia per indagare quest’universo
economico di difficile stima, perché di fatto non ufficiale, è l’analisi di un
questionario riguardante le motivazioni legate all’associarsi in Gas. In
particolare l’universo di indagine, oltre che una prima panoramica
anagrafica per descrivere il campione, si è soffermato prima sulle scelte di
consumo degli intervistati e poi sulle motivazioni alla scelta di acquisto
solidale. Ho confrontato poi i questionari con il documento base dei Gas
per valutare l’impressione degli attori rispetto alla mission del progetto. I
partecipanti hanno dimostrato un’alta partecipazione alla vita civica oltre il
Gas, confermando l’idea che la sensibilizzazione attorno al tema del
consumo si sviluppi collateralmente a una critica generale del sistema
economico globale e una preoccupazione per tematiche ecologiche.
Il Gas rappresenta una valida esperienza di autorganizzazione
votata a necessità pratiche, importante per il suo valore economico ma
anche come necessità sociale di aggregazione, in un’epoca decisamente
votata alla cultura individualistica.
Mi propongo di sospendere, quanto possibile, il giudizio personale
onde evitare manipolazioni, anche involontarie, dei dati raccolti, nelle quali
è facile cadere visto il tema particolarmente attuale. Tuttavia colgo
l’occasione dello spazio introduttivo per definire anche quelli che sono stati
i punti più controversi, che, a mio parere, restano tutt’ora questioni aperte
e, se la teoria avrà fortuna probabilmente entreranno a forza nel dibattito
pubblico, quando già non sono state affrontate. Di teoria della decrescita
ultimamente si sente parlare, o meglio, si legge di più. A parlarne sono
personaggi pubblici e a volte, con certa sorpresa, perfino piccoli
9
imprenditori
1
, quelli che per inciso dovrebbero puntare alla crescita.
Sebbene restino sempre una nicchia rispetto alla maggioranza di persone
che non ne conoscono i dettagli, si tratta spesso di paladini dal sapore un
po’ sessantottino, solitamente benestanti e tesserati al club della
decrescita. Raramente sono economisti.
Il secondo punto sul quale ho evidenziato alcune falle è la
contraddizione del movimento di voler essere una teoria che coinvolge
tutti ma che resta al contempo chiusa entro i suoi rigidi confini. Questo è
evidente soprattutto nelle applicazioni pratiche. C’è il rischio, in sostanza,
che la teoria venga fraintesa per moda e così includa un pubblico
selezionato sbarrando la strada ad altri. Qui entra in campo la mia
esperienza personale: chi può permettersi di dedicare tempo al
volontariato se lavora 40 ore alla settimana? Chi può permettersi la spesa
bio? Certo ovviamente esiste anche chi coniuga alto impegno lavorativo a
forte motivazione civica ma certo non sono la maggioranza dei lavoratori. I
teorici della decrescita parlano spesso di downshifting ma, almeno stando
alla mia esperienza lavorativa, ottenere un part-time non è una cosa che
dipende esattamente dalla volontà individuale e, soprattutto, l’opportunità
di decidere quanto e come lavorare ce l’ha solo chi occupa posizioni
dirigenziali e può permettersi flessioni salariali senza soffrirne troppo. Con
ciò non voglio accusare alcuno di ricorso all’idealismo ma solo riflettere su
quanto i buoni propositi promulgati nella teoria siano davvero attuabili
nella realtà.
Un ultimo spunto di riflessione riguarda la costituzione dei Gas,
argomento approfondito nell’ultimo capitolo del lavoro. I gruppi nascono
per offrire un’alternativa economicamente sostenibile alle scelte d’acquisto
tradizionali, per offrire ai cittadini una strumento col quale sviluppare
consapevolezza e relazioni forti in grado di contrastare il sistema
economico capitalista basato sull’individualismo e lo sfruttamento. I Gas,
quali medium economici, vogliono attivare circuiti commerciali innovativi
1
Il riferimento va a un intervento di Marco Cassini della Minimum Fax: “Impegnarsi insieme, e
reciprocamente, in una campagna di “decrescita felice”: produrre meno per produrre meglio”
10
basati su rapporti di fiducia reciproci tra produttori e consumatori che, in
questo modo, entrano in contatto diretto. Ovviamente per avere un reale
impatto sul sistema economico i gruppi devono figurare come alternativa
accessibile a tutti. Dal punto di vista economico l’obiettivo è raggiunto,
dato che i prezzi scavalcando gli intermediari si abbassano, ma dal punto
di vista sociale si può dire lo stesso? Ciò che mi chiedo è quanto il
movimento sarà capace di scendere a compromessi nel momento in cui si
vedrà allargato. Si trasformerà in un fenomeno legato allo status dei suoi
componenti o saprà mantenere i suoi caratteri più “puri”? Molti Gas
pretendono una partecipazione attiva dei suoi membri pena l’esclusione
del gruppo stesso. Ciò è condivisibile perché è solo con la partecipazione
attiva che si instaurano legami reticolari produttivi. Ma come si misura la
partecipazione? Non basta acquistare collettivamente per metterla in atto?
Non sarebbe meglio barattare un po’ di motivazione con un po’ di
coinvolgimento (se lo scopo dei gruppi è davvero influenzare il sistema
economico coi “grandi numeri”)? Questi quesiti probabilmente troveranno
risposta solo osservando l’evoluzione del movimento stesso che ha
certamente tutti le caratteristiche per imporsi nella scena economica.
Prima di iniziare con la trattazione aggiungo una premessa: sono
nata nel 1985, dunque non posso provare il romanticismo nostalgico per il
passato ormai fuggito. Non ho ricordi legati a una vita campestre fatta di
mucche al pascolo e mondine al lavoro quanto di walkman e prime play
station. In questo momento uso una connessione wireless, un pc. Non
credo sia la tecnologia ad aver condannato l’umanità alle pene della
società dei consumi quanto la deliberata scelta di come usare questi
oggetti. Non credo saranno le lampadine a risparmio energetico a salvare
il pianeta quanto forse la scelta consapevole di non accendere
l’interruttore della luce e magari aprire una finestra.
12
Max Temkin “Plastic spoon” 2011
13
Capitolo 1
Educazione alla decrescita
_______________________________________
“Capitalismo: stupefacente credenza
secondo la quale i peggiori uomini
farebbero le peggiori cose per il gran
bene di tutti”
John Maynard Keynes
La prospettiva economica relativa alla crescita della società di
mercato ha sviluppato il suo punto di vista in tempi relativamente recenti.
E’ con l’affermarsi degli Stati-nazione e la conseguente ascesa della
società borghese, infatti, che si sviluppa l’idea che il surplus economico,
ricavato dalla fiorente attività produttiva, potesse essere riutilizzato nelle
attività più varie. La crescita della produzione manifatturiera coincise con il
progressivo abbandono della terra e la conseguente qualificazione
nazionale sulla base non più della quantità di territorio posseduto ma sulla
capacità di creare ricchezza. Le origini della scienza economica possono
infatti essere fatte risalire proprio a questa fase transitoria: da economie
statiche si passa a economie dinamiche. La storia si caratterizza sin dagli
albori per sviluppo ineguale dei territori ma è solo in epoca moderna che la
polarizzazione si fa cronica e assimilabile a un unico modello dettato dal
modo di produzione. Se lo sviluppo mercantilistico antecedente la
Rivoluzione Industriale (1500-1800) getta le basi per la delimitazione di
zone periferiche (le Americhe a cui si aggiungeranno Africa e Asia ad
esclusione del Giappone), è con il modello classico industriale che si
definiscono i caratteri del capitalismo che decreterà la polarizzazione del
mondo quale sottoprodotto del nuovo sistema produttivo. Con la fine della
Seconda Guerra Mondiale si apre una nuova fase che vede
industrializzazione delle aree periferiche e smantellamento dei sistemi
14
produttivi nazionali autocentrici per costruire un sistema di produzione
integrato globale. Dagli anni Novanta in poi l’insieme delle trasformazioni
hanno decretato il crollo dei delicati equilibri postbellici.
Il capitalismo è un’opzione contabile finanziariamente vantaggiosa
ma non sostenibile. Il sistema si basa su una serie di presupposti: che il
progresso si costruisce in sistemi di produzione e distribuzione in
condizione di libero mercato, dove il reinvestimento dei profitti genera
maggior lavoro e maggior capitale; la concorrenza è il metro di valutazione
e premia chi è in grado di produrre più merce da reinvestire su mercati in
espansione; la crescita del Prodotto Interno Lordo (da ora Pil) è la scala
per determinare le condizioni di benessere della popolazione; la questione
ambientale è subordinata dalla crescita economica considerata prioritaria,
libera impresa e libero mercato collocano persone e risorse nel miglior
modo possibile. Con l’industrializzazione questa serie di principi si sono
cristallizzati come egemonici. La macchina- alimentata nell’ordine ad
acqua, legno, carbone, petrolio, elettricità- sostituì il lavoro dell’uomo e
aumentò la resa consentendo una sovrapproduzione di merci utili. A ciò
seguì un miglioramento degli standard di vita, dei salari e della domanda
di altri prodotti. Le migliorie tecnologiche consentirono ulteriore
diminuzione di prezzo che si tradusse in aumento di richiesta di case,
educazione, trasporti: le basi della moderna economia. Il modello
industriale non è che la sequenza lineare del processo estrattivo seguito
da quello produttivo e distributivo e si pone come obiettivo la creazione di
valore. Il problema dei rifiuti è contemplato nella misura in cui questi
vengano trasferiti da “altre parti”.
“Il capitalismo è un sistema economico in cui i datori di lavoro,
utilizzando capitali di proprietà privata, impiegano lavoro salariato per
produrre beni economici allo scopo di ricavarne un utile.”
2
I cambiamenti
tecnologici costanti fecero aumentare a livelli impensabili la produttività:
tecniche produttive, comunicazione, trasporti, medicina, agricoltura,
2
S. Bowles, R. Edwards, F. Roosvelt (2005) Introduzione all’economia politica. Le dinamiche del
capitalismo. Oxford University Press (pag. 2)
15
biologia e chimica alcuni degli ambiti che si svilupparono con velocità e
forza penetrante tale da non conoscere precedenti storici. Ciò significò
principalmente miglioramento della vita materiale e aumento degli
standard di consumo, ma anche cambiamento delle condizioni lavorative
(si pensi ai rischi connessi alla disoccupazione e all’impossibilità di
provvedere al proprio sostentamento), cambiamenti nella struttura
familiare (il passaggio dalla Gemeischaft alla Gesellschaft
3
) e non ultimo
distruzione ambientale. Non solo aumento produttivo e demografico
dunque ma anche deterioramento del territorio: aria, acqua, suolo, clima
hanno subito alterazioni coma mai prima. Dunque il progresso ha
permesso di raggiungere livelli altissimi in tutti i campi, dalla conoscenza al
tenore di vita, ma ha portato con sé effetti collaterali imputabili
inequivocabilmente alla sfrenata corsa per la crescita. Il capitalismo ha
fatto quello che nessun governante è mai riuscito a fare: trasformare il
mondo in un sistema unico e onnicomprensivo. Parlare di conseguenze
del capitalismo apre la porta a un dibattito che dal XIX continua fino ad
oggi. Se da una parte dunque il nuovo sistema industriale ha prodotto
“crescita” economica in termini di benessere, consumo e libertà individuali
dall’altra lo si accusa di “costare” troppo in termini umani e ambientali, di
aver dato il via a nuove forme di imperialismo e di significare profitto solo
quale contropartita allo sfruttamento.
L’apertura del mercato alla globalità ha aperto dunque nuovi spazi
agli scambi mercantili e alla conoscenza ma, al contempo, ha dato
centralità al fenomeno del consumo. Così dalla nascita dei mercati
ottocenteschi si è presto passati ai grandi magazzini della produzione di
massa. Con il supporto della teoria taylorista, perfezionata negli
stabilimenti Ford grazie all’uso della catena di montaggio, il fenomeno ha
preso velocità per arrivare oggi alla società dell’iperconsumo. Una delle
conseguenze incontrovertibili dunque dello “spirito del capitalismo” che ha
3
La teoria che spiega la modernità per Tönnies è vista come il passaggio da una fase comunitaria
(la Gemeinschaft) e una societaria (Gesellschaft) dove i rapporti sociali sono governati da
contrattualismo e convenzione e trovano espressione appunto nei rapporti di scambio
capitalistici.
16
contagiato il globo è la tendenza a quello che Marx chiamava “feticismo
della merce”
4
. Il punto di partenza privilegiato nell’analisi del consumo è
l’utilitarismo, la corrente di pensiero che ha dominato gli studi economici
ottocenteschi. Secondo questo filone infatti “i bisogni umani sono il fattore
determinante nella produzione e nella distribuzione di beni e servizi, ma al
tempo stesso nella società sono ‘non strutturati’ cioè variano in modo
casuale e debbono quindi essere considerati come dati nell’analisi
economica”
5
. Col principio di utilità marginale decrescente, Marshall
(1842-1924), diede struttura all’analisi dei bisogni, sostenendo che l’utilità
di un bisogno diminuisce all’aumentare della quantità. Con questa
specificazione Mashall introdusse la determinazione sociale alla domanda
accanto a quella puramente psicologica legata al soddisfacimento dei
bisogni. Ma è con l’espansione economica degli anni Sessanta che il
fenomeno del consumo conosce forse il suo apice in Occidente, spinto
anche dalla promulgazione di leggi motivate da politiche di welfare. La
spinta al consumo qui non è solo auspicata ma fortemente indotta, quale
motore capace di mantenere stabile la domanda di beni e dunque la
prosperità. Fenomeni conseguenti quali la pubblicità, il pagamento a rate,
le cambiali convinsero anche i meno benestanti a concedersi l’acquisto di
beni, non più per una spinta dettata dal bisogno ma per stare al passo coi
tempi. Il fenomeno persiste sino ad oggi ed è detto consumismo.
Il consumismo è la manifestazione cronica dell’acquisto continuo di
beni e servizi che prescinde totalmente dall’effettiva necessità che si ha di
essi, dalla loro durata e dalla capacità del sistema di smaltirli. Il
consumatore è dunque colui che sceglie un prodotto non sulla base del
4
“Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta
non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa
che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra
cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare
un’analogia, dobbiamo involarci nella ragione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del
cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di
loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano
umana.
Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti
come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci”. (Il Capitale, I libro, I
sezione, cap. I).
5
Talcott Parsons (1962), La struttura dell’azione sociale, Bologna, Il Mulino
17
costo, della qualità o del bisogno ma semplicemente perché è indotto a
farlo, perché non può farne a meno. Se a livello individuale il consumismo
osanna il lusso, la ricchezza come scopo di vita, il possesso fine a sé
stesso, a livello di sistema l’unico imperativo è la crescita. E il paradigma
economicista definisce la crescita quale benessere derivato da denaro e
tecnologia. Il metro per misurare la crescita dal 1929 ad oggi è il Pil.
In economia dunque la crescita di un Paese corrisponde
all’aumento del suo Pil, cioè l’insieme dei beni e servizi prodotti nell’arco di
un anno e valutati sulla base dei prezzi di mercato (stime corrette sulla
base delle variabili non censibili in quanto non oggetto di scambio). Le
variazioni del Pil indicano, almeno secondo il linguaggio economico, lo
stato di salute di un Paese: l’aumento del Pil è un segnale positivo rispetto
alla crescita in termini di ricchezza del Paese stesso.
Il Pil può però ritenersi un indicatore attendibile? Per valutare se la
ricchezza di un Paese sia limitata alle sue entrate in termini monetari è
opportuno definire cosa di intende con crescita e con sviluppo, spesso
confusi come sinonimi. I termini sono infatti fortemente connessi: lo
sviluppo introduce la crescita e non c’è crescita senza sviluppo. La
crescita è aumento produttivo di beni e servizi disponibili atti a soddisfare i
bisogni di una popolazione e dunque è aumento del consumo. La
misurazione della crescita economica più semplice da calcolare è il Pil
appunto. Lo sviluppo invece è la scoperta di nuove innovazioni che
prescindono però dall’accumulazione capitalistica cui spesso il concetto è
collegato. Le innovazioni anzi, se lontane dalla logica dell’obsolescenza
programmata
6
, portano anche a risultati che possono ridurre gli impatti
ambientali. Dunque il concetto di sviluppo è più ampio di quello di crescita
tanto da poterci permettere certamente di affermare che ci può essere
sviluppo senza crescita. Solo che conviene poco.
“Il diritto allo sviluppo è un diritto inalienabile dell’uomo in virtù del
quale ogni essere umano e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di
contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale, politico nel
6
Cfr pagina 21 (Latouche)
18
quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possano essere
pienamente realizzati, e di beneficiare di questo sviluppo”. Declaration on
the Right to Development, General Assembly Resolution 41/128, 4
December 1986.
Portavoce ufficiale della sviluppo a crescita ridotta è la teoria della
decrescita (o come i più rigorosi precisano dell’a-crescita). Questo
vocabolo viene introdotto nello scenario accademico nel 1979 per voce e
mano di Nicolas Goergescu-Roegen che pubblica un saggio intitolato
“Demain la décroissance: entropie, écologie, économie”. Il concetto si
pone coma base della critica alla teoria economica classica e alla sua
relazione con l’ambiente, tanto da descrivere la decrescita come
conseguenza inevitabile dei limiti imposti dalla natura. Oggi i suoi
sostenitori non si riferiscono più al concetto come inevitabile ma come
auspicabile tanto da parlare di scommessa o di appello. Nella parole di
Latouche la decrescita oggi è “uno slogan che raccoglie gruppi e individui
che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e interessati ad
individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica di dopo
sviluppo”
7
Lungi dal presentarsi come progetto dall’impianto teorico compatto,
la teoria della decrescita non riesce ad affermarsi quale ricetta politica
“chiavi in mano”, anzi nelle sue proposizioni spesso pone problematiche
così vaste e complesse da allontanare soltanto le ricette semplificate e
semplificanti. La constatazione però dell’urgenza e della drammaticità
della questione ambientale, ma anche politica e sociale se non culturale,
hanno risvegliato il senso comune sulla necessità di accelerare il
cambiamento. Ecco perché questo progetto da semplice critica
all’economia neoliberista ha tentato il salto politico: perché la decrescita
propone una visione d’insieme delle varie “crisi” sostenendo un approccio
sistemico che riesca a decifrare l’operare di processi fondamentali e
ricondurli ad azioni reali. Quello che si sostiene è la scarsa correlazione
tra benessere reale e indicatori economici, primo fra tutti il Pil. Il limite del
7
S. Latouche (2009), “La scommessa della decrescita”, Feltrinelli, Milano
19
Pil è considerare il benessere alla stregua del numero di merci in
circolazione: non contempla gli ortaggi dell’orto sotto casa ma contempla il
carburante perso durante le code in autostrada, oppure ancora un malato
fa crescere il Pil molto più di quanto faccia una persona sana. I suoi
risultati non sono dunque attendibili o almeno non possono definire quello
che è il reale sviluppo di un territorio. Quello che auspica la decrescita è
convertire la produzione di merci in produzione di beni ed eliminare la
produzione de merci che non sono beni. Non si tratta di rinunciare ad
acquistare tutto ma di smettere di abusare del mercato e passare a
soluzioni alternative che ne fuggono il ricorso: dall’autoproduzione allo
scambio libero dal mercato.
1.1 Le 8 R della decrescita: “Kill PIL”
8
“Non è possibile convincere il capitalismo a limitare la crescita
esattamente come non è possibile persuadere un essere umano a
smettere di respirare.” Murray Bookchin.
Nell’ottica della teoria della decrescita, al capitalismo non si chiede
né un ritorno indietro né un compromesso: quello che si critica è la
concezione di economia formale intesa come ricerca di mezzi scarsi per il
soddisfacimento di fini, a favore di una definizione sostanziale ovvero
dell’economia quale attività che fornisce i mezzi per il soddisfacimento di
bisogni (definizione ripresa da Polanyi).
9
Il primo teorico a formulare un’embrionale definizione di decrescita
è Goergescu-Roegen, un’economista autore di numerosi studi
multidisciplinari che rientrano nella sua teoria bioeconomica. La riflessione
di Goergescu-Roegen parte dalla considerazione che il sistema
economico è in perenne relazione con sistema biofisico dal quale preleva
materia ed energia sottoforma di risorse naturali e le restituisce sottoforma
8
Titolo di una sezione tematica apparsa su http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil.html
9
Dumont, Valensi, Godelier, Stanfield, Rotstein, North, Caillè, Latouche, Berthoud (2003) Karl
Polanyi, Bruno Mondadori Editore, Milano