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INTRODUZIONE
Il genere umano è profondamente attraversato da uno spartiacque
sessista. Il lavoro di ricerca, argomento di questa tesi, affronta un lato
di questo spartiacque: la condizione femminile.
L’analisi di questa condizione è orientata ad individuare, attraverso
le evoluzioni storiche, filosofiche e religiose, i valori attribuiti dalle
società umane al genere femminile. In particolare, l’analisi è stata
indirizzata al confronto della condizione femminile nei tre grandi
monoteismi: Cristianesimo, Ebraismo ed Islam.
Appare evidente la diversità nei rapporti di forza tra il genere
femminile e il genere maschile. Ancora oggi, nelle società più
sviluppate, gli indici statistico – economici pendono dalla parte
maschile. Il retaggio di questa disuguaglianza affonda le radici già
nelle prime organizzazioni sociali umane, ma è proprio con l’assetto
di tali monoteismi che ha assunto valori sistemici.
Per questo motivo e in quanto appartenente a quella sfera del genere
umano così svantaggiata dagli accadimenti innanzi descritti, ho voluto
affrontare questo argomento.
Nel I capitolo ho analizzato gli archetipi di alcune figure femminili
presenti nella mitologia greca, Circe, Medea, Era ed Afrodite, che,
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incarnando rispettivamente la donna – maga, la donna – omicida –
infanticida, la donna – moglie tradita, la donna – totale, che unifica in
sé il maschile e il femminile, esemplificano modi di essere,
archetipici, appunto, della donna, o intrecciandosi tra loro o dando vita
a tipi femminili facilmente rintracciabili nella storia della donna.
Ancora oggi, infatti, questa tipologia appare attuale e di grande
rilievo, tipologia che ci potrebbe soccorrere non poco nello studio
delle differenze sessuali nel genere e nella storia umana.
Nel II capitolo la trattazione è stata centrata sulla comparazione
della posizione della donna all’interno del Cristianesimo e
dell’Ebraismo, condotta attraverso la lettura e l’analisi di alcuni brani
dei testi sacri. Da tale comparazione emergono indizi di importanza
capitale per la comprensione del fatto che, nonostante il lungo
cammino, storico – culturale compiuto, poche cose sono cambiate
riguardo alla condizione femminile e molte sono rintracciabili, ormai,
come corredo quasi “naturale”, nella psicologia femminile stessa.
Nel III capitolo si è proceduto alla disamina ed al raffronto della
condizione femminile nel contesto sociale e culturale precedente e
susseguente all’avvento dell’Islam, che oggi si apre su un dibattito
assai scottante, sulle risposte che la cultura occidentale ha saputo o no
elaborare in merito ad una cultura totalmente altra e ad una condizione
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della donna di difficile comprensione e tollerabilità da parte di quella
che è diventata la “sensibilità” occidentale riguardo ad esse.
Nel IV capitolo, infine, si sono affrontate le tesi di Simone de
Beauvoir e Gilles Lipovetsky riguardanti una possibile strada per
l’affrancamento definitivo della subordinazione femminile nelle
società attuali. Tali tesi, in realtà, in mezzo ad infinite altre, pur
effettuando una lucida ed accurata disamina della condizione
femminile, non arrivano, tuttavia, ad elaborare soluzioni definitive ad
un “problema”, che, in quanto “problema”, è infinito e porta già in sé,
forse, le premesse di una sua radicale insolvenza.
Troppe sono le questioni che andrebbero affrontate e rimesse in
discussione, e il genere umano non possiede gli strumenti, né la voglia
di impegnare le energie in questo se non fino ad un certo punto, quel
punto in cui la storia si scontra con il “limite” ontologico umano.
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CAPITOLO I
ANTROPOLOGIA DEL FEMMINILE
1. Quattro figure mitiche della donna in Karol Kerényi: Circe, Medea,
Era ed Afrodite
La condizione femminile si riferisce al complesso di norme, costumi e
visioni del mondo che riguardano il ruolo della donna nella società.
Nel corso del tempo la condizione della donna è sempre stata
fluttuante: talvolta ha ottenuto un ruolo più predominante, altre volte
invece è stata relegata ad un ruolo marginale.
Secondo le teorie androcentriche, ad esempio, il genere femminile è
considerato inferiore a quello maschile a causa di fattori biologici
“naturali”, antichi quanto la specie umana.
Tuttavia le testimonianze archeologiche indicano che le donne
godevano di un’elevata considerazione nelle civiltà pre-urbane e solo
in seguito hanno perso importanza. A riprova di ciò, gli archeologi
citano spesso l’esempio di Catal Hüyük, un insediamento neolitico
dell’Asia Minore risalente al 6000 a.C., dove sono state rinvenute
piattaforme funerarie domestiche contenenti sepolture di donne, e
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decorazioni parietali di molti luoghi sacri raffiguranti soprattutto
figure femminili. Ma quella di Catal Hüyük non è l’unica cultura
antica della regione che testimoni la condizione favorevole, se non
addirittura privilegiata, delle donne. Altri ritrovamenti archeologici
indicano che il culto della dea-madre era praticato il tutto il Medio
Oriente nel periodo neolitico, e in alcune zone sopravvisse fino al
2000 a.C.. Studi sulle antiche culture della regione, inoltre, mostrano
frequentemente la superiorità di una divinità femminile attestando che
l’elevata posizione delle donne era piuttosto la regola e non
l’eccezione, e non solo in Mesopotamia, ma anche a Elam, in Egitto, a
Creta, come pure fra i Greci, i Fenici e altri popoli.
Tale elevata posizione della donna nel Medio Oriente, ad un certo
punto, subisce un forte cambiamento a causa dell’avvento delle
società urbane e delle prime forme statuali. Infatti, i centri urbani, sorti
in Mesopotamia fra il 3500 e il 3000 a.C., seppero sviluppare
complesse città-stato, in cui risultava predominante il carattere
patriarcale, non solo nel campo militare, ma anche in quello religioso:
La sessualità femminile fu definita proprietà femminile, in primo
luogo del padre, e poi del marito, e la purezza sessuale della donna (in
particolare la sua verginità) divenne un bene negoziabile
economicamente importante.
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Inoltre la crescente complessità e specializzazione delle società
urbane e lo sviluppo demografico di popolazioni costituite da
artigiani, mercanti e contadini contribuì all’ulteriore subordinazione
della donna, facilitando la loro esclusione dalla maggior parte delle
attività professionali. Questo a sua volta ridusse ulteriormente il loro
contributo economico e quindi il loro prestigio sociale, con il
conseguente declino delle divinità femminili e la nuova supremazia di
quelle maschili.
In contemporanea alla crescita delle diverse città-stato, le leggi che
regolavano la famiglia patriarcale divennero sempre più severe e
restrittive nei riguardi delle donne. Per esempio, il Codice di
Hammurabi (1752 a.C. circa) limitava a tre anni il periodo di tempo in
cui il marito poteva dare in pegno la propria moglie o i figli e
proibiva, inoltre, espressamente, che venissero picchiati o maltrattati.
Inoltre, il Codice di Hammurabi consentiva agli uomini di divorziare
facilmente dalle proprie mogli, soprattutto se non avevano avuto figli:
in questo caso dovevano pagare un’ammenda e restituire la dote.
Secondo il medesimo codice di leggi, le donne, invece, potevano
ottenere difficilmente il divorzio: “Se una donna odia al tal punto il
marito da dichiarare: “Tu non mi puoi avere”, la sua condotta verrà
giudicata dal consiglio della sua città e se il marito l’ha denigrata
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fortemente in pubblico, quella donna, senza incorrere in alcun
biasimo, può prendere la sua dote e ritornare alla casa del padre”.
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La richiesta di divorzio, tuttavia, comportava gravi rischi. Se il
consiglio stabiliva, in seguito ad indagini, che la donna “non si era
comportata bene, ma era una perditempo, che trascurava la casa e
umiliava il marito”, ella subiva la pena di essere buttata in acqua.
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Nonostante la loro inequivocabile subordinazione, sancita dalle
leggi che regolavano la famiglia patriarcale, le donne del ceto
superiore, tuttavia, godevano di un’elevata posizione sociale, come
pure di diritti legali e di privilegi. All’interno di questo sistema
giuridico, le donne aristocratiche potevano esercitare diritti quali il
possesso o l’amministrazione di beni in nome proprio, sottoscrivere
contratti e testimoniare in giudizio.
Inoltre, le donne di alto rango potevano svolgere anche un ruolo
importante nel campo religioso come sacerdotesse o serve degli dei.
Esse potevano non solo possedere beni propri, ma potevano anche
ereditare “come un figlio maschio”, e, quando morivano, le loro
proprietà ritornavano alla famiglia patriarcale. Potevano inoltre
dedicarsi agli affari, dare in affitto campi, acquistare schiavi,
concludere contratti, concedere prestiti, e così via:
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Ibidem
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La posizione sociale elevata e i diritti economici delle donne di alto
rango non erano in conflitto con il sistema patriarcale, ma servivano
piuttosto a favorire gli interessi dei patriarchi dominanti che
fondavano il loro potere su una “burocrazia patrimoniale”.
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Il diritto di possedere beni, di concludere contratti, testimoniare in
giudizio e dedicarsi agli affari era concesso anche alle donne
appartenenti ad altre classi sociali, come quelle che lavoravano come
vasaie, tessitrici, filatrici, parrucchiere, contadine, e a volte
svolgevano anche funzioni che richiedevano un lungo apprendistato,
come quella di scriba.
Diversa è la condizione della donna nella società greca del periodo
classico. Ad Atene, nel periodo classico (500-323 a.C.), le donne
libere erano solitamente segregate, così da non poter essere viste da
altri uomini che non fossero i parenti stretti. Maschi e femmine
conducevano una vita separata. Gli uomini passavano la maggior parte
della giornata in luoghi pubblici, come il mercato e il ginnasio, mentre
le donne dovevano rimanere in casa. Confinate nei loro alloggi, si
occupavano delle faccende domestiche, badavano ai loro figli e alla
servitù, alla cucina e alla tessitura. Vivevano in stanza separate,
lontane dalla strada e perfino dalla parte pubblica della casa:
Vestivano in modo da sottrarsi agli occhi degli estranei: portavano uno
scialle che poteva essere sollevato sulla testa come un cappuccio. Le
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qualità apprezzate nelle fanciulle erano il silenzio e la sottomissione.
Gli oratori elogiavano la riservatezza e l’invisibilità delle donne ed
evitavano di fare il nome di quelle rispettabili ancora in vita.
L’infanticidio, soprattutto delle bambine, era probabilmente praticato
all’occasione.
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In particolare per la legge ateniese, la donna, per poter accedere alla
sua eredità, doveva sposare il parente più prossimo dalla parte del
padre, e così assicurare un erede maschio alla famiglia paterna.
Difatti, la donna era considerata alla stregua di un minore nei
confronti del marito: i maschi diventavano maggiorenni a diciotto
anni, mentre le femmine non potevano conseguire tale privilegio. Sul
piano economico esse non potevano comprare o vendere terreni:
potevano solo acquisire proprietà in regalo o in eredità, anche se poi
venivano amministrare da tutori maschi. Non era loro concesso
neppure commerciare prodotti alimentari sul mercato “poiché si
pensava che l’acquisto o lo scambio fossero operazioni troppo
complesse per le donne, che dovevano inoltre essere sottratte alla vista
di estranei”.
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La subordinazione della donna greca trova riscontro nel pensiero di
Aristotele. Secondo il filosofo greco, lo scopo del matrimonio e la
funzione della donna erano di procurare eredi. Per Aristotele la donna,
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AHMED 1995, 33
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Ibidem