Introduzione
Introdurre un testo poco esplorato, come Roland Barthes par Roland Barthes, e,
soprattutto, portare avanti un discorso su di esso, è cosa abbastanza difficile perché esso
non ha avuto una fortuna critica tale da infondermi, ora, sicurezza nella scrittura
inducendomi a sviluppare la mia analisi quasi ‘sottovoce’, tra virgolette.
Spesso tralasciato a favore di altri testi dello stesso autore largamente
‘saccheggiati’, è questo un testo dal fondo infinito, in cui diversi sono gli spunti di
riflessione e gli argomenti poi divenuti di moda, introdotti con parole qui usate per la
prima volta e poi divenute di uso comune. Il testo è stato tralasciato dalla critica per
diversi motivi: in primo luogo perché fino a metà degli anni Ottanta del Novecento, non
si prestava particolare attenzione all’autobiografia, genere considerato dalla critica come
un genere ‘basso’ rispetto al romanzo, e, in secondo luogo e in modo particolare, perché
l’opera che mi accingo ad esaminare, può essere iscritta in quel particolare tipo di
autobiografia che potremmo definire, al momento, come atipica. La critica, in quegli
anni si interessava, al contrario ad altri testi di Roland Barthes quelli, cioè, semiologici,
critici o strutturalisti; tant’è che, a conferma di questa tesi, anche in Italia il testo venne
pubblicato solo nel 1980, all’indomani, cioè, della sua morte e, al momento della sua
pubblicazione, l’editore si guardò bene dal definirlo un’autobiografia.
Sfogliando l’opera, fin dalle prime pagine, ci rendiamo conto della sua forma un
po’ atipica. L’opera si apre con le immagini ingiallite delle foto dei nonni o di lui
ragazzino, a cui segue sempre un breve commento, un frammento; e questa è anche la
forma che l’autore utilizzerà per l’intera redazione dell’opera. Il testo procede per
commenti frammentari di poche righe: ogni frammento introduce un argomento, e ogni
argomento è una possibile introduzione di uno scritto futuro. Apparentemente, un testo
per frammenti, come questo, si presenta sempre poco unitario, come se quei frammenti
richiedano e vogliano un’indipendenza. Eppure, dai frammenti che ritornano
insistentemente si può intravedere, se non un’unità, quantomeno dei cardini attorno ai
quali l’opera si snoda e porta avanti un suo “discorso”. Appare subito evidente quasi
un’ossessione sulla doxa e sul suo contrario, il paradosso, attorno ai quali Barthes
riflette da diverse angolature: sul loro potere, su come essi si presentano nella società e
nella cultura e, ancora, come incidono sulla società e su di noi. È altresì evidente una
riflessione sulla pluralità del senso della letteratura, del sesso e della sessualità; termini
abusati oggi e politicamente rilevanti allora, così come pluralità e differenza sono
termini esaminati da Barthes da una posizione allora intellettualmente solitaria e oggi, al
3
contrario, dominante. Il discorso sulla sessualità, ad esempio, era presente di frequente
sui giornali, in tv; ne parlavano i giovani nelle loro stanze fumose e gli intellettuali nei
loro salotti. Barthes rifiuta tout court questo discorso imperante e un po’ troppo a senso
unico, chiuso su se stesso, dichiarandosi a favore di un apertura e della “differenza”.
Penso che siano questi gli argomenti sui quali soffermarsi nel corso del presente
lavoro più che sul dato autobiografico qui volutamente tralasciato, occultato e bistrattato
sardonicamente. Cercherò, per quanto possibile, di impostare la mia riflessione a partire
da alcuni indizi interessanti introdotti nel testo, senza fare del tutto affidamento, però,
sulle liste di cose che ama o non ama, di cose che fa o si rifiuta di fare, che a più riprese
vi troviamo inserite.
Barthes parla già di questo gusto “fantasmatico” della realtà e del dato
autobiografico, all’interno de Le plaisir du texte, testo in cui egli definisce il lettore
come un «piccolo isterico» che ricava godimento dal teatro della mediocrità, dai dati
che si attaccano al reale, dalle cose nelle quali facilmente si può sostituire. Date queste
premesse, ritengo che Roland Barthes par Roland Barthes non sia, dunque, un testo da
liquidare come autobiografia – esso peraltro non corrisponde affatto alla definizione del
genere di Philippe Lejeune - ma semplicemente un “testo”, un testo in più, un
frammento in più all’interno di quell’opera più grande che è l’insieme dei testi di
Roland Barthes. Ritengo perciò imprescindibile mostrare come il testo non possa essere
sottoposto né al patto di Lejeune né al più sfuggevole patto di Doubrovsky. Semmai
cercherò di mostrare lo sfuggevole contatto, la frizione che questo testo attiva con i due
patti, senza dimenticare l’ammiccamento al Lettore, la proposta di contratto di lettura.
Si tratta di escamotages che Roland Barthes conosce bene e sfrutta al fine di
destabilizzare una pratica, un genere e lo stesso status di scrittore.
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Capitolo primo
Roland Barthes par Roland Barthes attraverso la lettura de Le pacte
autobiographique e il concetto di autofiction.
Come ho già accennato nell’introduzione, ho deciso di sottoporre il testo di
Roland Barthes al patto di Lejeune e al più controverso - vedremo perché - patto che
scaturisce dal termine autofiction proposto per la prima volta da Serge Doubrovsky.
Philippe Lejeune nel suo Le pacte autobiographique propone, per riconoscere
un’autobiografia, questa definizione: «récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle
fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier
sur l’histoire de sa personnalité »
1
. Questa dunque la definizione data da Philippe
Lejeune all’interno del suo patto nel 1975, testo quasi contemporaneo, è bene ricordarlo,
del testo di Barthes. Ma vediamo subito che il testo qui preso in considerazione presenta
alcune anomalie rispetto a quel ‘patto’.
Il testo di Barthes non è un récit; non ha nulla del racconto, anzi, presenta una
forma strettamente antinarrativa che procede per frammenti. Possiamo quindi escludere
l’impiego del récit all’interno del testo, benché un récit ci sia, ma esso è talmente celato
e frammentato da risultare inintellegibile. Barthes, inoltre, non mette quasi mai
l’accento sulla sua vita di individuo, né tanto meno, sulla sua esperienza di uomo e di
scrittore; e, quando lo fa, è per mettere in ridicolo i procedimenti classici
dell’autobiografia. Il testo è costruito come una sorta di lista di cose che, secondo
l’autore, un lettore dovrebbe sapere; si tratta di cose che egli ama o che gli piacerebbe
fare. Il testo di Barthes appare dunque, fin da subito, e anche dal punto di vista
strutturale, molto lontano da quelli che possono essere classificati, senza ombra di
dubbio alcuno, nel genere autobiografico. Esso se ne discosta fin dal suo incipit, assai
diverso da altre rinomate autobiografie quali, ad esempio, Les Confessions di Rousseau,
il cui testo prende avvio con la ormai famosa espressione «Je suis né à Genève en
1712»
2
, o, ancora, dal più recente Mémoires d’une jeune fille rangée di Simone de
Beauvoir che si apre con l’inequivocabile e dichiarata intenzione autobiografica attestata
ancora una volta dal suo incipit: « Je suis née à quatre heures du matin, le 9 janvier 1908
»
3
. In quest’ultimo caso, l’autrice eccede nella precisione sul dato della nascita,
1
Ph. Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Éditions du Seuil (“Poetique”), 1975, p. 14.
2
J.-J. Rousseau, Les Confessions, Paris, 1782.
3
S. de Beauvoir, Mémoires d’une jeune fille rangée, Paris, Gallimard, 1958.
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precisandone persino l’ora: tra i tanti nati il 9 gennaio del 1908, ella, però, è nata alle
quattro del mattino. Tra Les Confessions di Rousseau e i Mémoires della Beauvoir sono
trascorsi circa duecento anni, eppure gli incipit sono molto simili, tanto da poterli
definire un po’ tutti figli della stessa cultura.
È a partire dagli anni Sessanta del Novecento che generi letterari, scritture,
espedienti e procedimenti sembrano velocemente cambiare ed entrare in crisi. Gli
autori abbandonano il je della narrazione in prima persona, della narrazione della verità,
dell’impegno epistemologico per eccellenza, e, con esso, tutti i dati reali e sensibili che
il pronome porta con sé. Prova di questo cambiamento sono i testi che vengono dati alle
stampe nell’ultimo biennio degli anni ‘60 e nei primi anni ’70, periodo in cui si ascrive
lo stesso testo di Barthes o, ancora, W ou le souvenir d’enfance di Perec, testo in cui al
récit de vie fa da contrappunto un racconto immaginario che l’autore ha dentro di sé fin
dall’infanzia e in cui l’incipit è immancabilmente diverso da quelli precedentemente
presi ad esempio: «je suis né le 25 juin 19…, vers quatre heures, à R., petit hameau de
trois feux, non loin de A.»
4
. Perec esita sul dato anagrafico così come sul luogo e sulle
sue coordinate, laddove, al contrario, nei due incipit sopra citati gli autori palesavano la
certezza assoluta di ciò che affermavano. E, ancora, vorrei riportare l’incipit di un testo
più recente, il diario della malattia di Hervé Guibert À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie
dove il dato autobiografico è scomposto, gli eventi del passato ritornano in modo
confuso e si alleano con gli eventi del presente. È vero, egli parla in prima persona ma
tutti gli altri nomi sono di fiction e l’incipit è, poi, sicuramente d’effetto dichiarando
esplicitamente, pur senza enfasi, la materia del testo: «j’ai eu le sida pendant trois mois.
Plus exactement, j’ai cru pendent trois mois que j’étais condamné par cette maladie
mortelle qu’on appelle le sida»
5
Ho riportato alcuni esempi di autobiografie scritte nell’arco di due secoli per
mostrare come nell’ultimo trentennio il patto sia difficilmente applicabile tout court. I
confini sono praticamente caduti, mentre bordi che prima si tenevano a distanza oggi
convivono; pratiche letterarie diverse e disparate sembrano fondersi in quello che
ancora oggi ostinatamente chiamiamo autobiografia e che, invece, non è che un
arcigenere capace di includere quasi tutto.
Tutto ciò appariva già chiaro all’indomani della pubblicazione del testo di
Lejeune ma, lo appare ancora di più oggi, periodo in cui, sempre di più, i testi sfuggono
alla definizione di autobiografia e giocano con la nozione d’identità. In questo senso, si
può affermare che Barthes sia un precursore: nel suo testo, infatti, l’identità tra autore e
soggetto è ora svelata ora compromessa; a volte l’autore si definisce come «je», altre
4
G. Perec, W ou le souvenir d’enfance, Paris, Denoël, 1975.
5
H. Guibert, À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie, Paris, Gallimard, 1990.
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