CAPITOLO 1
IL RITO SOCIALE DELL’IMMAGINE
1.1 LA CIVILTÀ DELL’IMMAGINE
Oggi, l’opinione condivisa è che si stia vivendo nella civiltà dell’immagine, una
convinzione derivante dal fatto che ovunque volgiamo il nostro sguardo siamo investiti da
superfici ricoperte di immagini. Quella che per l’uomo è un’innata pulsione, il vedere, è
sovreccitata, iperstimolata; per questo, la definizione di civiltà dell’immagine in molti casi è
accompagnata da un alone di negatività, come se da quest’era si speri di uscirne presto visto
questo ‘bombardamento‘ costante dal quale non sappiamo dove, e tante volte come, trovare un
riparo. Questa sensazione negativa deriva anche dal fatto che ci sentiamo spesso impreparati,
inadeguati, se non addirittura analfabeti, di fronte a molte immagini che vediamo
quotidianamente; le immagini sono uscite allo scoperto e non sono più relegate in luoghi
specifici dove in passato venivano poste con uno scopo ben preciso. Questa pratica presumeva
uno spettatore in qualche modo preparato, un fruitore d’immagine che sapeva cosa l’aspettava:
il vedere un’immagine, infatti, aveva uno scopo e un fine dichiarato. È sufficiente pensare, ad
esempio, all’arte cristiana e al suo valore catechetico dalle prime catacombe alle cattedrali
gotiche. Oggi l’immagine, come detto, esce allo scoperto, cerca nuove superfici poste bene in
vista e cerca molto spesso di cogliere lo spettatore di sorpresa. Sono queste le origini dello
spaesamento e delle incertezze; abbiamo la sensazione che più vediamo immagini «più
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rischiamo di essere manipolati, ingannati, e non siamo che all’alba di una generazione di
immagini virtuali, quelle ‘nuove’ immagini che ci pongono in mondi illusori e tuttavia
percettibili, all’interno dei quali potremo muoverci senza per questo lasciare la nostra camera da
letto...»
1
.
P e r m e g l i o c o m p r e n d e r e l ’ e p o c a i n c u i c i t r o v i a m o è o p p o r t u n o i n q u a d r a r l a
storicamente; l’inizio della civiltà dell’immagine può essere collocato alla fine della seconda
guerra mondiale, periodo in cui ci fu lo spostamento del baricentro d’influenza dall’Europa agli
Stati Uniti d’America che rese gli Europei non più colonizzatori, ma colonizzati. Arriva, infatti,
dagli Stati Uniti un nuovo modo d’intendere l’economia; è l’economia della grande produzione
in massa fondata su catene di montaggio e costruzione in serie. Non è più quindi l’individuo ad
andare alla ricerca di quel qualcosa di cui necessita, ma è l’oggetto stesso a diventare cacciatore
proiettandosi nel mondo per farsi conoscere ed acquistare. La Pop Art a cavallo degli anni
Sessanta e Settanta è lo specchio di questa nuova società che va costituendosi; una società che
compra quello le si propone, una società che in pieno boom economico ha denaro da spendere e
che vuole far vedere come investe questo denaro. La base economico-sociale di questa Europa è
quindi chiara; una nuova borghesia pronta ad aprire il portafogli per farsi notare, a volte
invidiare o che aspira solamente a circondarsi da un numero sempre più alto di oggetti che
rendano la vita più agevole. In questo terreno sociale si sviluppano velocemente i germogli di
un nuovo modo di intendere l’immagine; l’ambito pubblicitario, da sempre specchio della
società con i suoi studi di mode e tendenze ma anche portatore stesso di influenze, «si trasforma
in pratica di comunicazione»
2
. Rispetto al passato, quando il soggetto delle campagne
pubblicitarie era l’oggetto in sé con le sue caratteristiche tecniche, ingegneristiche da mostrare,
c’è stato un cambiamento di tendenza. Oggi, infatti, al centro della campagna pubblicitaria ci
sono le qualità intrinseche, sensoriali ed ideali del prodotto che creano i presupposti per i quali
l’acquisto di quell’oggetto rende l’acquirente in qualche modo una persona migliore.
L’immagine è quindi costruita in modo da creare mondi possibili in cui lo spettatore si
può immergere e sognare una vita alternativa. La crisi mondiale ha sicuramente accelerato ed
5
1
M. Joly, Introduzione all’analisi dell’immagine, Torino, Lindau, 1999, p.11.
2
A. Semprini, La marca postmoderna. Potere e fragilità della marca nelle società contemporanee,
Milano, Angeli, 2006, p. 57.
accresciuto questo tipo di produzione creando vie di fuga ad una popolazione afflitta dai
problemi del quotidiano. Per sopravvivere, l’immagine ha, quindi, bisogno di farsi vedere, di
comunicare al mondo la sua presenza. Proprio questa caratteristica sembra essersi
maggiormente trasferita alle persone con un ‘effetto Grande Fratello’ grazie al quale «la
posizione sociale e il potenziale di un individuo o di un gruppo dipendono ormai più dal fatto di
essere ben posizionati nel sistema delle reti che dal loro capitale culturale, economico o sociale
tradizionale»
3
.
1.2 LO SPAZIO PUBBLICO MEDIATIZZATO
Viviamo oggi in quello che Dominique Wolton ha definito come ‘spazio pubblico
mediatizzato’ nel quale
la presenza e il ruolo dei media e delle altre forme di comunicazione sono diventati
ormai così importanti che hanno modificato la natura stessa dello spazio pubblico,
rendendolo ab origine uno spazio mediatizzato.
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Per comunicare bisogna quindi attraversare questo spazio. Ma quali sono le implicazioni? Di
sicuro la spettacolarizzazione: tutto diventa spettacolo da condividere e mostrare, le immagini
stesse, non raccontano più la realtà, ma piuttosto «conformano la realtà all’immagine del sogno
che desideriamo»
5
. La predizione che Marshall McLuhan fece negli anni Sessanta dello scorso
secolo sembra essersi avverata: siamo diventati voyeur, meri spettatori. Abitiamo il villaggio
globale nel quale tutti spiano tutti. A questa previsione, alla luce di quello che vediamo
oggigiorno, deve essere fatta una considerazione aggiuntiva: un’alta percentuale di persone
brama farsi vedere, notare, avendo fatta propria la filosofia di fondo di questa nuova epoca ‘se
6
3
A. Semprini, 2006, op. cit., p. 56.
4
D. Wolton, La communication politique: construction d’un modèle, in «Hermes. Cognition,
Communication, Politique.», Paris, Éditions du CNRS, IV(1989), pp. 27-42 in A. SEMPRINI, 2006,
op.cit., pp.52-53.
5
F. Scianna, Etica e Fotogiornalismo, Milano, Electa, 2010, p. 33.
appari, esisti’. Ad uno sguardo più approfondito appare chiaro come sia stato proprio questo
modo di pensare, a fare esplodere la moda dei social network: Facebook, Netlog, Badoo sono
solo alcuni degli esempi più eclatanti.
Visto il suo impatto sulla società attuale, è importante soffermarsi per qualche momento
sulla piattaforma relazionale creata da Mark Zuckerberg. Facebook nasce nel febbraio del 2004
come servizio universitario all’interno del campus accademico di Harvard; già a pochi mesi
dalla sua apertura fu introdotto anche a Stanford, alla Columbia University e a Yale. A nemmeno
un anno dalla sua creazione anche gli altri istituti della Ivy League
6
iniziano ad utilizzarlo così
come il Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università di ricerca del
mondo. Nel 2005 acquisirono i requisiti per parteciparvi le persone con un indirizzo di posta
elettronica accademico di istituzioni di tutto il mondo (per esempio .edu, .ac.uk). Dall’11
settembre 2006 chiunque abbia più di 13 anni può crearsi un profilo su Facebook; il social
network di Zuckenberg passa, in questo modo, dall’essere una piattaforma di contatti tra
studenti di università e licei a rete sociale che abbraccia trasversalmente gli utenti di Internet di
tutto il mondo. Secondo Mashable
7
, a settembre del 2011 il numero degli utenti attivi ha
raggiunto quota 800 milioni. Questi i numeri di Facebook, piattaforma passata da essere un
veicolo per mantenere contatti tra accademici a social network mondiale. La forza di Facebook
è stata indubbiamente quella di creare uno spazio pubblico mediatizzato, di facile accesso ed
utilizzo, nel quale l’utente potesse riversare il proprio esistenzialismo condividendo immagini e
pensieri, creando così i presupposti per uno scambio di informazioni con il mondo esterno. A
confermare l’impatto che Facebook ha avuto sulla nostra società vi è anche il fatto che non sono
solo i privati cittadini a trovare un loro spazio naturale su Facebook, ma anche le istituzioni, le
associazioni, le marche. Il social network può essere quindi usato per scopi spionistici come
predetto da McLuhan, ma anche con intenzioni comunicative.
Gli adolescenti, inoltre, con il loro bisogno di essere approvati, sfruttano la piattaforma
soprattutto per ottenere consensi; si mostrano in abiti succinti e in pose da divi visti in qualche
pubblicità cercando di raggiungere un numero sempre più alto di amici (o ammiratori sarebbe
7
6
Ivy League, o Ancient Eight, è un titolo che accomuna le otto più prestigiose ed elitarie università
private degli Stati Uniti d’America.
7
Mashable è un sito web d’attualità statunitense in forma di blog, il terzo blog più popolare al mondo.
più opportuno dire). La pubblicità, il personaggio famoso, la cultura dell’aspetto fisico perfetto
ad ogni costo, sono ormai i miti e i valori ai quali aderire per avere successo. Nel 2007 il Censis
ha pubblicato dei dati che confermano quanto appena detto; il 56% dei ragazzi tra i 18 e i 25
anni ha espresso l’aspirazione a voler migliorare il proprio aspetto fisico. Sembra che questa
società dell’immagine abbia reso più importante l’aspetto esteriore di una persona rispetto al suo
quoziente intellettivo, il carattere; è sufficiente accendere anche per un solo minuto la
televisione per vedere che la realtà appare essere davvero così. Veline e velone (sono state
coinvolte perfino le nostre nonne), letterine e letteronze sono le evoluzioni delle soubrette
introdotte nella nostra televisione e via via spogliate di indumenti e parola. Agli uomini non va
di certo meglio, essi sono diventati tronisti o sportivi che tolta la muta degli allenamenti vestono
quella di testimonial, modelli tirati a lucido da palestre e centri estetici.
I divi sono e rimangono icone immutabili, non scalfibili dal quotidiano e abitanti di un
Olimpo irraggiungibile ai comuni mortali. Questa supposta irraggiungibilità alimenta il
desiderio di conoscere i particolari della vita di queste nuove divinità della nostra epoca e crea i
presupposti dell’esistenza del circuito del gossip che ha come suo caratteristica più evidente
l’aggressività della Stampa nei confronti del privato delle star. Il divo diviene così personaggio,
crea tendenze, mode, stili di vita e questo far parlare di sé è la fonte stessa della sua
sopravvivenza e di chi a questo modello aderisce: “non m’importa di come parlino di me, basta
che ne parlino”
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sembra essere il motto di quest’epoca dell’immagine. In una società nella quale
apparire è tutto, aderire a modelli e stereotipi portati avanti dalla maggioranza è un’ancora di
salvezza in un mondo in balia delle incertezze. Non si tende a fare affidamento sui propri mezzi,
sulle proprie qualità e la propria unicità; la serializzazione industriale sembra essersi insidiata
nel genere umano. Così le marche vestono gli umani come fossero manichini la cui unica
diversità risiede a volte nel non essere statici riempimenti di vetrine spettacolarmente arredate.
Accanto alla serializzazione e alla standardizzazione troviamo anche la sfida al tempo
che passa; il botox, e le varie operazioni di chirurgia plastica vanno a cancellare quei segni che
l’inesorabile trascorrere del tempo lascia sul nostro fisico ma che non possiamo permetterci in
una società che anela all’imperitura perfezione. Questa stessa ansia dello scorrere del tempo ha
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8
George M. Cohan, attore, scrittore e produttore teatrale statunitense attivo fino agli anni Quaranta dello
scorso secolo.
senza dubbio influito sulla produzione di immagini che devono essere una sorta di
testimonianza della nostra esistenza perfetta; il fotoritocco è diventato estremo e non esiste
copertina di rivista di tendenza che non mostri il divo di turno in perfetta forma, senza troppe
rughe, grasso o qualche altro tipo di inestetismo. Non è un caso che in questo secolo siano
molto diffuse malattie come la bulimia e l’anoressia che trovano le loro radici in una psiche
desiderosa di apparire come la società ci vorrebbe.
Il tempo deve essere fermato e proprio questo è uno dei motivi del successo della
fotografia in questo secolo.
1.3 IMMAGINE COME RITO SOCIALE
Io fotografo per vedere che aspetto
avrà una cosa una volta fotografata.
Garry Winogrand
Sviluppatasi a inizio secolo come pratica ludica per ricchi ed eccentrici e circondata da
scetticismo, la fotografia si è invece diffusa a tutti gli strati sociali in meno di un secolo dalla
sua scoperta. Lo sviluppo tecnologico ha fatto sì che l’uso di una macchina fotografica richieda
una minima, o nessuna, preparazione; l’accessibilità all’acquisto, vista la radicale diminuzione
del prezzo, ha favorito un’ulteriore propagazione. La Kodak, sotto la guida di George Eastman,
nel 1891 mette le basi per una diffusione sociale proponendo un servizio di sviluppo e stampa:
l’apparecchio era venduto già caricato; nel prezzo di 25 dollari era compresa tutta la
lavorazione. [...] Lo slogan di Eastman: “V oi premete il bottone, noi faremo il
resto”.
9
La fotografia entra così a far parte della vita di tutti i giorni, soddisfacendo, secondo il pensiero
di Pierre Bourdieu, cinque aspetti: «la protezione contro il tempo, la comunicazione con gli altri
9
9
B. Newhall, Storia della fotografia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 178-179.
e l’espressione dei sentimenti, la realizzazione di sé, il prestigio sociale, la distrazione o
l’evasione».
10
È importante soffermarsi su ognuno di questi punti poiché aiutano a comprendere
le dinamiche sociali che hanno portato l’immagine ad essere elemento preponderante di
quest’epoca. La fotografia, secondo il primo dei cinque punti, avrebbe la funzione di vincere il
potere distruttivo del tempo andando ad incidere sull’angoscia di mortalità propria dell’essere
umano. La memoria è stimolata dalle immagini ad evocare ricordi colmando, così, i vuoti che il
tempo crea nel suo naturale fluire e con il suo accavallarsi di eventi; non ci rassegniamo
all’oblio ma siamo desiderosi di ricordare e di trasmettere le nostre esperienze. La scrittura, e
quindi la Storia, nascono proprio da questo desiderio di comunicare un certo tipo di sapere ai
posteri permettendo ad altri di rivivere in comune esperienze ed eventi e mostrando
conseguentemente l’affetto che si nutre per loro. Questa tensione affettiva si manifesta tanto nel
macro quanto nel microcosmo se siamo consci del fatto che nella Storia dell’umanità siamo
inclusi naturalmente anche noi, con le nostre azioni quotidiane, immersi totalmente nel fluire
socio-culturale di un’epoca. Comunicazione quindi, ma anche realizzazione personale del
fotografo che si appropria magicamente del soggetto e lo ricrea nell’immagine. Una fotografia
non è mai una mera rappresentazione oggettiva del mondo in cui viviamo, ogni scatto
presuppone che dietro al mezzo fotografico ci sia un essere con una data sensibilità, cultura,
abilità tecnica, emozioni che vuole siano trasposte in quello che produce. La padronanza
tecnica, il quarto dei punti di Bourdieu, è inoltre segno di prestigio per il fotografo, a volte viene
considerata più importante delle stesse intenzioni artistiche, e così un’immagine ben a fuoco,
ben composta secondo certi standard può far avere al fotografo un’alta considerazione del suo
fare e definirlo di conseguenza un buon operatore. Fotografare sarebbe infine un mezzo di
evasione, una distrazione alla pari di un gioco, «diffusa quasi quanto il sesso e il ballo».
11
Di
contro, a far astenere dal fotografare è, prima di tutto, il freno economico e, successivamente, il
timore di fallire e di rendersi ridicoli evitando così inutili complicazioni.
Oggi, la tecnologia applicata alla fotografia ha insinuato, soprattutto nei ceti sociali
meno preparati culturalmente o appena sopra la soglia della povertà, la sensazione che a un più
10
10
P. Bourdieu (a cura di), La fotografia. Usi e funzioni di un’arte media, Rimini, Guaraldi, 1972, p. 50.
11
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi, 2004, p. 8.
alto tasso tecnologico corrisponda una maggiore qualità dell’immagine. Questo strato sociale
tende, quindi, ad essere più restio a fotografare in attesa di poter accedere economicamente a
materiale altamente tecnologico che risolva questa paura di inadeguatezza nei confronti della
fotografia. Proprio per questo in molti fotoclub la tecnica viene disprezzata e si vorrebbe (come
già Warhol) essere fotografi senza però il presupposto per esserlo, ovvero senza una macchina
fotografica. Altri fotoclub invece esaltano sopra ogni altra cosa l’aspetto tecnico (trascurandone
quindi altri come ad esempio quello culturale) con un ritorno a un modo pre tecnologico di
concepire la fotografia, dove circuiti e meccanica sono ridotte al minimo, se non assenti, e dove
l’operatore sembra poter quindi influire maggiormente sul risultato finale. Questo tema sarà
affrontato nel secondo capitolo in cui si cercherà di risolvere la questione tecnologica che
accompagna ed affligge da sempre la fotografia.
La diffusione della produzione di immagini a mezzo della fotografia agli strati popolari,
si nota soprattutto tramite due fenomeni sociali: il comporre e sfogliare l’album di famiglia e il
turismo. Tra il 1905 e il 1914 la possibilità economica alle attrezzature nei Paesi industrializzati
permette di documentare le condizioni sociali d'esistenza testimoniando le tappe ritenute
socialmente più importanti della propria vita. La fotografia della cerimonia nuziale è la prima
forma di festa che si ritiene indispensabile rappresentare fotograficamente poiché è uno di quei
momenti culminanti in cui il gruppo riafferma la propria unità nel mondo esterno, nella società
appunto. La fotografia di gruppo diviene indispensabile come testimonianza di presenza, di
appartenenza fondata su legami affettivi che devono essere documentati ed eternati nel tempo.
Mancare nella foto di gruppo significa quasi rinnegare lo stesso gruppo, fare uno sgarro ai
festeggiati, non trasmettere la propria immagine a chi farà parte in futuro della famiglia.
L’album racchiude in sé tutte le nozioni da tramandare agli eredi ed è così che, ad un certo
punto della vita, la madre educa il bambino ai differenti gradi di parentela e alle relazioni
interne alla famiglia; lo stesso insegnamento viene impartito a chi entra a far parte della cerchia
familiare. Sfogliare insieme l’album diviene vero e proprio rito di iniziazione. È quindi
fondamentale riuscire a documentare al meglio gli eventi significativi di un gruppo sociale; di
conseguenza, è importante sottolineare come la figura del fotografo professionista sia
indispensabile laddove si debba portare in primo piano il paesaggio sociale, o meglio, venga
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chiamato in causa quando l’individuo passi dall’essere entità privata a personaggio pubblico.
Compito del professionista sarà perciò quello di riuscire a documentare le dinamiche del
gruppo, individuando gli attori principali e le loro funzioni sociali. Il fotografo amatore è
sufficiente invece per documentare gli ambiti privati o meno solenni; in certi casi non è
necessaria la trasmissione profonda di un’entità sociale ma solo degli aspetti ludici o estetici.
Soprattutto a cavallo delle due grandi guerre questa documentazione è compito del
capofamiglia, portatore delle conoscenze tecniche per l’utilizzo della macchina fotografica. Col
termine della seconda guerra mondiale il bambino diviene soggetto per eccellenza della
fotografia di famiglia; in questi anni il nucleo familiare che vive e muore sotto lo stesso tetto o
nella stessa borgata si disgrega, i giovani si trasferiscono in città e non si abita così più ad una
distanza grazie alla quale la madre può compiere il rituale di andare in visita ai parenti con i
propri figli. La fotografia diventa necessaria testimonianza oltre che veicolo per tenere informati
i parenti riguardo alla crescita dei piccoli; sarebbe considerata una grave offesa e mancanza di
affetto il non far avere una foto del proprio bambino almeno ai parenti più prossimi. Il
battesimo, la comunione, la cresima entrano rapidamente a far parte di quel circuito di
fotografia sociale dal quale non si può uscire; queste infatti sono divenute cerimonie che si
devono fotografare proprio perché il bambino, ragazzo, uomo diventa sempre più parte attiva di
un gruppo. La figura del fotografo professionista si afferma perché riesce meglio a rendere
l’idea di gruppo individuando e fermando in una istantanea l’affettività di quella cerchia nei
momenti in cui ci si rende conto che il fotografo amatoriale (spesso interno al gruppo sociale
che documenta) tende a produrre immagini più legate alla sensazione affettiva personale e,
quindi, soggettiva. È questo ‘essere interno al gruppo’ che molto spesso porta a produrre
immagini che non vengono riconosciute come ‘buone immagini’ in quanto la soggettività e
l’estetica superano di gran lunga la ragione d’esistere del fotogramma stesso. Il racconto
nell’immagine perde il suo significato sociale per assumerne altri di natura vicina a quella
ludica, perdendo la possibilità di trasmettere i ruoli sociali propri del gruppo.
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