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CAPITOLO I°
“IL CONCETTO DI AUTONOMIA FINANZIARIA
DELLE REGIONI”
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Sommario: 1.1 La previsione legislativa in materia di Irap. - 1.2 I presupposti
costituzionali in materia tributaria e la previsione dell’art. 119.
a) L’autonomia finanziaria come condizione dell’autonomia politica
delle regioni. b) L’autonomia finanziaria secondo l’interpretazione si-
stematica dell’art. 119. c) L’autonomia finanziaria secondo una parte
della dottrina moderna d) Limiti all’autonomia finanziaria e gli
interventi della Corte Costituzionale.
1.1 - La previsione legislativa in materia di Irap.
Il percorso legislativo che ha portato all'emanazione delle norme istitutive
dell’IRAP, Imposta Regionale sulle Attività Produttive, è stato alquanto articolato
e può riassumersi in due periodi ben distinti. In un primo momento, la previsione
di una Commissione preposta allo studio della riforma del sistema tributario
vigente, in seguito i dettati normativi veri e propri, di grado diverso, volti alla
specifica regolamentazione del nuovo tributo.
Infatti, l’allora Ministro delle Finanze, Augusto Fantozzi, con decreto del 16
giugno 1995 aveva istituito la Commissione di studio per la riforma del sistema
tributario, presieduta dal prof. Gallo, fissando alcuni criteri di massima quali:
a) la revisione della disciplina del finanziamento alle regioni ed enti locali tramite
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b) tributi propri, quote di tributi erariali e trasferimenti, abolendo nel caso alcuni
tributi e istituendone altri, in un’ottica di efficienza e semplificazione del
sistema;
c) l’attribuzione di un maggior potere impositivo agli enti territoriali, nel rispetto
dei dettami costituzionale previsti dagli artt. 23 e 119 della Cost.;
d) la partecipazione delle regioni e degli enti locali al gettito di alcuni tributi,
nonché la previsione di un sistema perequativo interregionale che consenta di
tenere presente gli squilibri di ordine economico e sociale esistenti tra le
diverse aree del Paese.
Successivamente, sulla base anche dei risultati esposti dalla Commissione Gallo,
con la Legge 23 dicembre 1996 n. 662 il Governo è stato delegato ad emanare una
serie di decreti volti a modificare radicalmente il nostro sistema tributario. Tra le
deleghe più importanti vi è senza dubbio quella riferita all’Irep
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, il cui testo è
contenuto nell’art. 3, commi 143,144,146,147,148 e 151 della legge sopra citata.
Diversi sono gli obiettivi perseguiti: “...semplificare e razionalizzare gli
adempimenti dei contribuenti, di ridurre il costo del lavoro e il prelievo
complessivo che grava sui redditi da lavoro autonomo e di impresa minore, nel
rispetto dei principi costituzionali del concorso alle spese pubbliche in ragione
della capacità contributiva e dell’autonomia politica e finanziaria degli enti
1
Questo è il nome previsto dalla Legge Delega 662/96, mentre nei lavori della Commissione
Gallo si parla di un’Imposta per l’Autonomia Regionale IPAR.
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territoriali...”
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. Il tutto in un’ottica generale di avvio del decentramento fiscale,
con riduzione dei vantaggi fiscali relativi all’indebitamento e quindi, maggiore
neutralità del sistema di prelievo in ordine alla scelta dei mezzi di finanziamento
degli investimenti, nonché invarianza del gettito complessivo. Nella legge delega
si fa esplicito riferimento
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ad una nuova imposta di carattere reale, relativa
all’esercizio di un’attività organizzata per la produzione di beni o servizi, con una
base imponibile derivante dal valore aggiunto prodotto nel territorio regionale e
risultante dal bilancio. Di carattere non deducibile dalla base imponibile
dell’IRPEF e IRPEG
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.
Il tutto entro undici mesi dall’approvazione della Legge delega: un particolare
questo di una certa importanza, dal momento che ha influenzato non poco
l’attuazione pratica dell’imposta nel primo esercizio d'applicazione.
All’insieme di deleghe il Governo ha dato attuazione con il D. Lgs. 15 dicembre
1997, n. 446 pubblicato sul S.O. n. 252/L alla G.U. 23 dicembre 1997, n. 252/L.
Il decreto delinea subito l’IRAP, come un’imposta regionale e di carattere reale;
prevede l’abolizione di sei distinte forme di prelievo fiscale e parafiscale nel
rispetto del vincolo dell’invarianza del gettito complessivo, nonché la contestuale
presenza di norme di diverso grado, volte a disciplinare specifici aspetti del
tributo. Infatti, accanto ad una legislazione di carattere statale (legge delega
2
Art. 3, comma 143 L. 23/12/96 n.662.
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Articolo 3, comma 144, lett. a.
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Articolo 4, comma 144, lett. g.
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662/96 e D. Lgs n. 446/97), che regola i caratteri fondamentali del tributo,
sussistono atti del Ministero delle finanze volti ad intervenire su questioni
specifiche, leggi regionali che possono disciplinare le procedure applicative
dell’imposta, nonché delibere d'ordine provinciale e comunale dirette ad
introdurre eventuali addizionali d'aliquote. Peraltro, nonostante un quadro
normativo articolato, è previsto una prima fase di carattere transitorio in cui si
avrà solo una normativa di carattere statale.
E’ opportuno evidenziare alcune caratteristiche strutturali del disposto normativo
446/97; infatti, oltre all’istituzione dell’imposta di cui si tratta, è prevista la
modifica dell’IRPEF e il riordino della tassazione locale. Trattasi di materie che,
unitamente alla revisione delle imposte sul reddito d'impresa, rappresentano un
passo importante nel processo di riforma fiscale:
è precisa intenzione attuare un efficace decentramento del prelievo dallo Stato
alle regioni e agli enti locali, dotandoli dell’autonomia finanziaria necessaria allo
svolgimento di un’autonoma politica di bilancio, da ritenersi quale uno dei
presupposti di un’evoluzione in senso federale dello Stato.
Esplicito è il tentativo di semplificare
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il sistema tributario e contributivo, di
modificare le aliquote, scaglioni ed ammontari delle detrazioni dell’IRPEF,
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Numerose sono state le critiche apparse per lo più sulla stampa in occasione della prima
applicazione dell’imposta, soprattutto sulla base di precise scelte operate dal legislatore nella
definizione della base imponibile.
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nonché di rivedere profondamente la tassazione delle imprese.
A questo proposito è opportuno ricordare che, sebbene la presente trattazione si
riferisca unicamente all’IRAP, la stessa si accompagna anche ad un'altra
innovazione in materia di tassazione delle società rappresentata dalla DIT (Dual
Income Tax), volta ad una detassazione degli utili reinvestiti. L’introduzione
combinata di questi due strumenti permetterà senza dubbio di attuare le intenzioni
di innovazione e rivoluzione del sistema impositivo a carico delle imprese.
1.2 - I presupposti costituzionali in materia tributaria e la previsione
dell’art.119Cost.
Dall’analisi del testo del decreto legislativo D. Lgs. 15 dicembre 1997, n.
446 istitutivo dell’Irap, emerge immediatamente una delle caratteristiche
fondamentali del tributo: si legge, infatti, nell’art. 1 “E’ istituita l’imposta
regionale sulle attività produttive esercitate nel territorio delle regioni...”; e
nell’art. 28 ”Con legge regionale da adottarsi entro il 31/07/99 sono stabilite le
aliquote minime, rispettivamente, dell’addizionale comunale e di quella
provinciale all’imposta sulle attività produttive;...I soggetti passivi dell’imposta
sulle attività produttive dovranno ripartire la corrispondente base imponibile
utilizzando gli stessi criteri indicati nell’art. 4, comma 2, con riferimento al
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territorio provinciale e comunale. Alle basi imponibili provinciali e comunali così
determinate si applicano le aliquote delle addizionali deliberate dagli enti
locali......”.
Appaiono evidenti due aspetti: la natura regionale del tributo e il potere
impositivo degli enti locali. Dobbiamo premettere che i presupposti generali in
materia tributaria presenti nella nostra Costituzione sono quelli contenuti negli
artt. 2, 23, 53, 117, 119 e 120, peraltro quelli che in questa sede ci interessano in
modo più immediato sono indicati negli artt. 117 e 119.
Nell’art. 117 Cost. sono stabilite le materie nelle quali le regioni sono autorizzate
ad emanare norme legislative, sebbene non via sia un esplicito riferimento alla
materia finanziaria e tributaria, “...nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con
l’interesse nazionale e con quello d'altre Regioni...”, mentre nell’art. 119 è
stabilito che le Regioni hanno autonomia finanziaria, alle stesse “...sono
attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, nelle forme e nei limiti stabiliti
da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, Province
e dei Comuni”.
E’ necessaria una precisazione di fondo: la duplice limitazione costituzionale
degli artt. 117 e 119 che emerge, non deve intendersi come un rafforzativo di un
medesimo divieto, bensì di natura profondamente diversa. Infatti il coordinamento
prescritto dall’art. 119, può richiedere vincoli alle potestà legislative e
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amministrative regionali, oltre i limiti posti dai principi fondamentali, relativi alle
materie previste dall’art. 117 della Cost.; il raffronto letterale dei due articoli
evidenzia che nell’art. 119 ci troviamo dinanzi a limiti privi di una specifica
qualificazione, che sono posti non da norme-principio, ma da disposizioni di
specie, tanto da poter affermare che la potestà legislativa regionale risulta
configurata come appartenente ad una categoria inferiore a quella della potestà
concorrente
6
.
Ora sulla base delle premesse fin qui esposte, appare evidente, che la trattazione
di un tributo regionale non possa prescindere da uno specifico approfondimento in
materia d'Autonomia Finanziaria delle Regioni.
La dottrina, muovendosi dall’art. 119 Cost. dove si dice che “le Regioni hanno
autonomia finanziaria nelle forme e limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica
(...) ” e che “sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali (...) ”, ha
cercato di formulare un’interpretazione precisa di autonomia finanziaria, cercando
correlazioni con i concetti di autonomia politica ed autonomia tributaria.
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E. Gizzi in “Manuale di Diritto Tributario”, Ed. Giuffre’, Milano 1991, pag. 89 e ss.
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a) L’autonomia finanziaria come condizione dell’autonomia politica delle
regioni.
Questa impostazione privilegia la previsione letterale del testo dell’art.
119, valorizzando il riferimento normativo alla natura finanziaria dell’autonomia
riconosciuta alle Regioni nel primo comma.
Tuttavia la disamina non si presenta di pronta ed immediata comprensione
soprattutto in virtù di un opportuno iter evolutivo sul concetto di autonomia.
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La prima domanda che ci si deve porre è perché in uno Stato unitario, con un
sistema finanziario centrale, agli Enti territoriali minori è attribuito un autonomo
potere, per effetto del quale gli stessi possono imporre tributi, amministrare
patrimoni e ridistribuire le entrate così ottenute. Infatti, se si accetta
l’impostazione secondo cui lo Stato nel perseguire fini di interesse generale, ha
bisogno di quei mezzi in grado di attuare tali scopi, si rende necessario
giustificare il sistema finanziario degli Enti Territoriali, che diversamente
apparirebbe come un semplice doppione del sistema centrale.
Una prima argomentazione a favore dell’Autonomia Finanziaria degli Enti Locali
ritiene che i fini di interesse pubblico sono in parte perseguiti dallo Stato ed in
parte dagli Enti minori; quindi è necessario fornire tali enti degli strumenti per il
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In particolare si vuole fare riferimento all’opinione espressa in materia di autonomia finanziaria
da N. D’Amati , ”Saggio sul Concetto Giuridico di Autonomia Finanziaria”, in Riv. Trim. di
diritto Pubb., 1963, pagg. 821 e ss. da cui sono tratti numerosi spunti per approfondimenti svolti
nel corso di questo paragrafo.
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raggiungimento degli scopi istituzionali. Tuttavia quest'impostazione si presta ad
una grossa critica di fondo: infatti, presuppone come dato sostanzialmente certo
quanto invece dobbiamo dimostrare, vale a dire l’opportunità di decentrare alcune
funzioni che potrebbero essere assunte da organi periferici del governo centrale.
Allo stesso modo non si può completamente controbattere che molte
problematiche ribaltate in ambito locale possono trovare una più agevole
soluzione. Infatti, se da un certo punto di vista quanto espresso costituisce uno dei
punti di forza delle autonomie locali, è altrettanto condivisibile l’opinione
secondo cui la visione ristretta di un problema rischia di sminuire le esigenze
locali, modificandole dalla realtà nazionale da cui non possono in nessun caso
prescindere.
Questo non vuole assolutamente significare che l’attività degli Enti minori debba
venir meno: infatti, se un controllo sull’attività di tali Enti è imprescindibile, non
si deve, tuttavia, tradurre in uno strumento di condizionamento della volontà degli
enti minori, ma essere circoscritto nei limiti di un controllo di legittimità, rivolto
ad evitare che le iniziative di tali Enti possano contrastare con le leggi nazionali,
ma non a limitare le autonomie locali
8
.
Il passo successivo ci porta ad analizzare in modo più specifico il problema del
controllo degli atti delle Regioni; queste costituiscono il grado più elevato
8
Questo orientamento è in linea di massima riscontrabile nell’art. 130 Cost. che stabilisce che “un
organo della Regione, costituito nei modi stabiliti dalle leggi della Repubblica, esercita, anche in
forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle provincie, comuni e degli altri enti
locali”.
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d’autonomia, in quanto un’accentuazione estremizzata delle autonomie regionali
condurrebbe allo Stato federale. Anche in questo caso sussiste esplicita
indicazione nella Costituzione art. 125, dove si stabilisce che il controllo di
legittimità sugli atti amministrativi è esercitato da un organo dello Stato in forma
decentrata, nei modi stabiliti dalle leggi della Repubblica, mentre il controllo di
merito è ammesso al solo scopo di sollecitare il riesame della delibera ad opera
del consiglio regionale. In questo modo, pur sussistendo un preciso controllo, è
alle Regioni che spetta la decisione definitiva.
A questo punto, per dare una risposta generale al quesito iniziale, si può affermare
che si giustifica l’esistenza d’un sistema di poteri locali, distinto dal sistema dei
poteri centrali, con la necessità di rendere effettiva la rappresentanza delle
comunità minori. Per rendere concreta l’autonomia locale è necessario assicurare
a tali enti la possibilità di perseguire i propri fini senza il pericolo di un
condizionamento esterno, dotandoli innanzitutto di un sistema finanziario proprio.
In difetto, gli enti minori sarebbero necessariamente esposti ad una precisa
discriminazione da parte degli organi centrali, da cui dovrebbe dipendere la
somministrazione dei fondi necessari a raggiungere gli scopi istituzionali; di fatto
assisteremmo ad uno svuotamento di significato del concetto di autonomia ad essi
concessa in via di principio. L’esistenza di un sistema finanziario trova quindi la
sua ragione fondamentale nell’esigenza di garantire l’autonomia degli enti stessi,
autonomia che è tanto più reale tanto più gli enti sono sottratti dalle
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discriminazioni del potere centrale.
Un altro aspetto fondamentale dell’analisi è la comprensione dell’esatto
significato del termine “autonomia”:
- l’impostazione tradizionale la definisce come la potestà, riconosciuta a persone
od enti, di produrre norme giuridiche. Vi è piena convergenza con la facoltà di
regolamentare. Discendono, infatti, da uno stesso fenomeno, quello
“dell’attribuzione che fa il potere legislativo dello Stato, del carattere di fonti
giuridiche dell’ordinamento statale a norme deliberate da istituzioni da esso
distinte, ora in esso contenute, ora ad esso solo subordinate”
9
.
- La dottrina moderna, invece, ritiene che non esista un concetto unico di
autonomia, ma più concetti e nozioni di contenuto e funzioni notevolmente diversi
tra loro.
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Più specificatamente, per la dottrina istituzionale il termine autonomia indica
“soggettivamente, la potestà di darsi un ordinamento giuridico e , oggettivamente,
il carattere proprio di un ordinamento giuridico dove individui o enti si
costituiscono da sé, in contrapposto al carattere degli ordinamenti che per essi
sono costituiti da altri.”
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In altre parole, per aversi autonomia, è necessario
qualcosa di più che la mera potestà di produrre norme giuridiche, poiché si
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G. Zanobini, “Caratteri particolari dell’autonomia”, in” Scritti vari di Diritto Pubblico”,
Milano, 1955, pagg.273 e ss.
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Concetto sostanzialmente esposto da M. S. Giannini in “Saggi sul concetto di autonomia”, in
Riv. Trim. del Dir. Pubb., 1951, pag. 851 e ss..
11
S. Romano, voce Autonomia, in “Frammenti d’un dizionario giuridico”, Milano, 1947, pag. 14
e ss..
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richiede la potestà di darsi un ordinamento. Non si può qualificare come “... diritto
obbiettivo, un atto giuridico; perché possa considerarsi fonte di diritto, occorre
che stabilisca non solo regole, ma una più o meno completa organizzazione
sociale.”
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Quindi, almeno per la dottrina istituzionale, con il termine di autonomia si
identifica la potestà di produrre delle norme giuridiche: ma allo stesso modo per
qualificarsi come autonomia questa potestà non deve porre solo norme giuridiche,
poiché deve costituire l’ordinamento di cui quelle norme sono parte.
A questo punto si può affrontare il tema dell’autonomia finanziaria; infatti per gli
enti che godono di un’autonomia generale, tale da disporre di un potere normativo
e di un potere organizzativo, non si discute sull’ammissibilità della stessa, ma
dell’inquadramento nell’ambito di altre forme di autonomie. In particolare è stato
detto che “l’esigenza che il cittadino si trovi obbligato , a favore dello Stato, a
quell’imposta che fu deliberata dalla rappresentanza politica di tutti i cittadini,
non esclude che il Parlamento possa conferire poteri normativi, sia ad organi
statali, per ciò che riguarda le imposte dello Stato o di altri enti, sia ad enti diversi
dallo Stato, per ciò che riguarda le loro imposte e le imposte degli enti minori”.
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In questo modo l’autonomia finanziaria opera come un potere normativo che si
inquadra nello schema della riserva di legge ex art. 23 Cost., ed operando in tal
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S. Romano, “Ordinamento Giuridico”, cit., pag. 70.
13
In particolare è l’opinione espressa da S. Bartolini, “Il principio di legalità dei tributi in materia
di imposte”, Padova, 1957, pag. 107.
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modo i suoi limiti coincidono con quelli normativi di tali enti.
Questo orientamento è sostanzialmente accettato dalla dottrina, che però critica
l’evoluzione, secondo cui è inammissibile che la legge possa disporre liberamente
quando attribuisce poteri normativi d’imposizione a enti diversi dallo Stato,
poiché deve tutelarsi l’esigenza dell’autoimposizione.
Peraltro l’autoimposizione presuppone la netta distinzione tra il gruppo sociale
che detiene il potere godendo di privilegi fiscali e un altro gruppo, suddito rispetto
al potere e soggetto al pagamento delle imposte
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e soltanto con tale impostazione
può trovare un fondamento.
Ora con la diffusione dei regimi rappresentativi democratici e l’accoglimento del
principio del suffragio universale, l’impostazione del principio di legalità quale
garanzia dell’autoimposizione perde ogni fondamento.
Un’ultima considerazione appare doverosa: l’attività finanziaria non può
prescindere da una motivazione di ordine politico, economico e sociale; si tratta di
una motivazione che costituisce la ratio delle norme. Così da poter affermare
come il potere finanziario non rappresenta la supremazia dello Stato sui cittadini,
al contrario si manifesta nella fissazione di norme giuridiche che traggono
presupposti dalla struttura politico-sociale dello Stato che le pone. Inoltre il
superamento della concezione autoritaria dello Stato ha avuto quale conseguenza
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E’ una sostanziale impostazione medievale che poneva tra le attribuzioni dei parlamentari quella
di consentire al principe la percezione delle imposte, che non poteva riscuotere senza il consenso
del parlamento. Il principio è stato assunto dal diritto inglese e si diffuse in seguito in altri
ordinamenti europei, tra cui anche l’Italia tramite lo Statuto Albertino.