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Premessa
Perché la filosofia? E perché partire dalle sue origini? Che cosa
significa filosofare?
Un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose
straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall’esterno, da sopra e
da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale
gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si
spalancano abissi e aleggia un’aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se
stesso, ha paura di se stesso – ma che è troppo curioso per non tornare a se stesso ogni volta.
(Friedrich Nietzsche)
La filosofia non serve a nulla,dirai; ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù é il
sapere più nobile.
(Aristotele)
“L'origine della filosofia è la meraviglia. Platone nel Teeteto pone
sulla bocca di Socrate queste parole: <<Ed è proprio del filosofo
questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro
cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu
generata da Taumante non sbagliò, mi sembra, nella genealogia.>>
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La filosofia nasce dall'incanto e dallo stupore: tutto ciò che è abituale
e prevedibile non desta, infatti, attenzione, quel che invece attrae è
l'inatteso, l'evento fa apparire il circostante come assolutamente
nuovo, nella meraviglia gli occhi si aprono. Ora l‟insolito è appunto il
luogo della meraviglia e come tale della filosofia, la quale del resto,
nel suo significato più generale di riflessione dell‟uomo sopra se
stesso, la vita e il mondo, è antica quanto l‟umanità pensante.
Lo stupore destina alla verità da intendere non tanto come
l'oggettivamente dato, bensì come la tensione tra il celato e il
disvelato, il sempre da presso e l'infinitamente distante. Ci sono attimi
che rendono nuovo il mondo non tanto perché aggiungono qualcosa di
nuovo rispetto a quel che c'è, ma perché sprofondano tutto quel che c'è
nel senza fondo dell'origine. L'origine affiora nella distanza, essa
emerge nell‟effettiva esperienza dello sprofondare. Nella loro abituale
stabilità e persistenza le cose sono così presenti da risultare irrilevanti,
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sono così ovvie da divenire facilmente fungibili. Solo sullo sfondo del
loro svanire ci si interroga sul loro provenire e proprio a partire
dall'aleatorietà delle cose sorge la domanda intorno al senso del loro
essere. Ci sono delle situazioni in cui tale domandare affiora in modo
particolarmente pregnante, anche se di questo non ci si rende conto
sino in fondo.”
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“Il filosofo Heidegger segnala alcuni di questi momenti in cui il
mondo appare alla luce dell'insolito e perciò nel meraviglioso della
filosofia: <<In certi momenti di profonda disperazione, per esempio
quando ogni considerazione delle cose sembra venir meno e ogni
significato oscurarsi, la domanda risorge. Può darsi che una volta
essa ci abbia colpito, come il suono cupo di una campana echeggiante
nell'intimo e che vada via via morendo. Oppure la domanda si
presenta in un'esplosione giubilante del cuore, allorché
repentinamente tutte le cose si trasformano e ci attorniano come per
la prima volta, tanto che riuscirebbe più facile concepire che esse non
siano che siano proprio così come sono. La domanda si presenta
anche in certi momenti di noia, quando ci sentiamo ugualmente
distanti dalla disperazione come dalla gioia; ma in modo tale che
l'incombente normalità di ciò che è induce a una desolazione nella
quale appare indifferente che ciò che è sia o non sia.>>
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Disperazione, gioia, noia non sono da Heidegger introdotte come
situazioni semplicemente psichiche, ma come occasioni che
interrompono l‟andatura ordinaria della vita e liberano lo spazio
indeterminato e insieme accogliente della meraviglia.”
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“D'altra parte, è lo stesso Platone a notare come la meraviglia insorga
in uno con lo smarrimento e la vertigine. Teeteto, infatti, comunica a
Socrate la sua meraviglia con queste parole: <<In verità, o Socrate, io
sono straordinariamente meravigliato di quel che sono queste
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apparenze; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le
vertigini.>>
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La meraviglia non è banale spigolatura, ma senso di vertigine dinnanzi
alle cose e perciò visione inaugurante. Tale visione coglie il mondo
sullo sfondo del suo senza fondo e proprio nel punto in cui esso
precipita lì pure è trattenuto ed esposto. In questo senso la meraviglia
sviluppa tensione ritornando continuamente su se stessa. La
meraviglia, così intesa, è insieme via e meta e la filosofia non è nulla
di diverso dal meravigliarsi incessantemente.
Che Taumante abbia a che fare con la meraviglia è evidente per via
etimologica, significando il verbo greco thaumazo propriamente
meravigliarsi.
Di maggiore interesse è capire perché sia qui introdotta la figura di
Iride. Questa genealogia è di grande interesse, stando almeno al luogo
a cui fa riferimento Platone e che è la Teogonia di Esiodo. Ambedue i
nomi sono importanti per significare l‟origine della filosofia.
Taumante infatti, è figlio di Ponto e di Gea ed è perciò fratello di
Nereo e di Forco e probabilmente è un altro nome del vecchio del
mare.
Il vecchio del mare è secondo Esiodo colui che non mente (apseudes)
e dice il vero (alethes). Suo dominio è la verità.
Il vecchio del mare è una divinità oracolare e perciò sapienziale, ma
l‟oracolo svela allusivamente, dice e non dice, appunto accenna.
Thauma significa propriamente prodigio del mare e con Proteo
perfettamente indica la dimensione sfuggente, imprendibile, cangiante
delle cose. Queste divinità simbolizzano la natura oscillante e ambigua
del mondo e denotano quindi la natura segnica e allusiva delle cose. E
i segni possono essere compresi solo se sono decifrati. Quanto la
natura offre deve essere catturato, è il cenno che il divino invia svela e
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insieme irretisce. In questo senso è luogo che attrae e chiama, separa e
divide e proprio per questo articola dentro di sé una continua
mediazione. Iride ne è l‟emblema: essa infatti è dotata di piedi veloci,
è divinità messaggera. Iride è una divinità di mezzo e perciò è indice
di un perpetuo rapportarsi. Il prodigioso che è simbolizzato da
Taumante può essere esplorato solo attraverso una potenza che decifra
e trasmette. Ma la mediazione non scioglie l‟enigma, poiché il segno
che il Dio invia eccede l‟interpretazione e per questo, continuamente,
l‟incentiva. Quanto il segno indica vive e si trasmette attraverso la
storia delle sue interpretazioni dove artificio e persuasione trapassano
l‟uno nell‟altra, dando luogo al gioco derisorio e sublime di menzogna
e verità.
Il gioco spietato della ragione consiste proprio in questo. Socrate,
dopo aver celebrato in Teeteto la meraviglia, lo invita a percorrere lo
spazio da essa inaugurato. Tutto questo risulta evidente dalle parole
con cui Socrate si rivolge a Teeteto a proposito del grande Protagora:
<<E allora tu mi sarai grato se il pensiero di quest’uomo e anzi di
questi uomini rinomati che è ancora oscuro cercherò insieme con te di
scoprirlo nella sua vera verità.>>
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La risposta alla sfida dell‟enigma fiorisce come ricerca.
Probabilmente la vera verità non differisce dallo stesso ricercare. Ma,
indipendentemente dalla soluzione che si dà a una tale ipotesi, resta
impregiudicato il fatto che la ricerca si svolge in quell‟orizzonte
aperto dalla meraviglia e in esso si mantiene.
Dalla meraviglia nasce la filosofia: questo dice Platone, questo
ribadisce Aristotele nel I libro della Metafisica.
A questo punto la legittima domanda sulle ragioni per cui si debba
partire da così lontano per delucidare il senso della filosofia. La
risposta, almeno sulle prime, può essere semplice: si guarda
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all‟origine della filosofia perché verosimilmente, in tutto il suo
decorso, essa non si è mai distaccata dal luogo della sua origine.
L‟origine di cui si parla non è un inizio in senso cronologico e non è
neppure un accadimento identificabile in un punto determinato del
tempo: si tratta al contrario di una modalità di stare nell‟essere, anche
se questo stato appartiene, a suo modo, al tempo. Guardare le cose dal
punto di vista dell‟origine non significa fissarle nella luce di un
principio intemporale, né tanto meno si tratta di identificare una causa
incausata e assoluta da cui tutto prende inizio. Se l‟origine coincidesse
con la manifestazione piena di un tale principio intemporale e
incausato non ci potrebbe essere mai alcuna meraviglia, poiché in esso
tutto si troverebbe definitivamente risolto e compiuto. Al contrario, è
evidente come l‟origine si faccia manifesta nell‟allontanarsi delle cose
e come proprio in tale allontanarsi le cose vengano nel punto di vista
dell‟origine. Origine che si manifesta come voragine e quindi
propriamente come chaos.
E‟ noto che nel linguaggio dei greci chaos non significa affatto
disordine, indeterminata mescolanza, confusione, quanto soprattutto
incolmabile distanza, propriamente abisso. Chaos è propriamente lo
spalancarsi, è lo spazio della separazione in cui non si tocca il fondo,
in senso stretto è il vuoto. Nel contempo è il vuoto entro cui emergono
le cose, è l‟apertura illimitata che lascia cadere le differenze nel loro
accadere. Il chaos, in quanto apertura nell‟atto stesso dell‟aprirsi, non
può essere fissato come un‟entità, ma può essere percepito solo nel
suo farsi, può essere colto esso stesso come un divenire. In questo
senso il chaos è abissale e perciò spaventoso e meraviglioso insieme.
Esiodo ci suggerisce che il luogo dell‟origine è il luogo della
meraviglia e dello spaesamento e perciò il luogo della filosofia.
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Guardare le cose dal punto di vista dell‟origine, non significa
guadagnare l‟ultimità del fondamento, ma significa fissare il fondo di
indeterminatezza da cui le cose sorgono e nel contempo vengono
trattenute. Contenere il chaos è impossibile quanto è impossibile
emanciparsi da esso e uscirne. L‟origine entro cui le cose prendono a
essere si fa presente in esse come tentazione dell‟origine. La volontà
di afferrare l‟origine intanto è possibile in quanto all‟originario già da
sempre si appartiene. In altri termini l‟amore della sapienza è possibile
poiché la sapienza si fa già manifesta nell‟appartenenza.”
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Ed è al modo di quest‟appartenenza che guarda Aristotele quando
scrive: “Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere
nell’ignoranza e, quindi, se è vero che gli uomini si diedero a
filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi
perseguivano la scienza con il puro scopo di sapere e non per un
qualche bisogno pratico.”
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“Nella filosofia c‟è un abbisognare che trova soddisfazione nello
stesso filosofare, la cui pratica coincide con la realizzazione di
un‟essenza. Nell‟uomo la soddisfazione degli altri bisogni è una
condizione necessaria, ma non sufficiente perché si possa filosofare.
L‟uomo non diverrebbe mai filosofo, anche se fosse liberato da ogni
bisogno, se non fosse da sempre istituito nella meraviglia. La
soddisfazione dei bisogni materiali consente la pratica della filosofia,
ma non la istituisce: essa toglie un impedimento, non crea una
disposizione. In questo senso l‟uomo liberato dalla necessità è
restituito alla sua piena umanità che consiste nella sua appartenenza
all‟essere.
Per essenza non si deve tanto intendere una fissità di natura, quanto un
modo d‟appartenenza dell‟uomo all‟essere. La filosofia realizza
quanto nell‟orizzonte inaugurante della meraviglia si annunzia e rende
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manifesto nell‟uomo quello a cui la natura lo destina: essere
costitutivamente interprete, farsi segno di tutti i segni. Se ciò è vero,
l‟agire più pieno dell‟uomo riposa nella quiete dell‟origine. Ma è
dall‟origine stessa che proviene l‟inquietudine. E‟ questa la ragione
per cui all‟uomo non è dato uscire dalla dimensione del filosofare e
per questo la filosofia, come dice Aristotele, è scienza per sé. Ed è
singolare che questo lo dica proprio lui che per primo ha concepito la
filosofia come una scienza particolare – come un sapere tra i saperi –
lui, che meglio di altri, ha delimitato il filosofare come uno specifico
ambito disciplinare: ebbene, Aristotele, nel definire la filosofia come
scienza per sé è ancora per intero trattenuto dalla voragine originaria
da cui la filosofia scaturisce, ne sente ancora il richiamo abissale.
In Aristotele – e in generale presso tutti gli antichi – la filosofia si
formula sempre come forma di vita e specificamente come vita
filosofica, come consuetudine con l‟enigma, come amore – e perfino
piacere – del sapere.
D‟altra parte la filosofia cos‟altro è se non questo?”
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Cosa significa che tutti gli uomini sono filosofi?
“Il filosofare, così inteso, è quasi una disposizione della specie: se non
è sapienza, è di certo eros verso ciò che in senso lato chiamiamo
verità. La filosofia così definita, sembra avere un carattere universale,
intemporale, pervasivo. Per la medesima ragione essa sembra in
qualche modo inafferrabile: è in tutti i luoghi e non sta da nessuna
parte. Se però la si considera da vicino, ci si accorge che la filosofia è
molto più determinata di quanto non si creda e lo è storicamente.
La filosofia infatti è in primo luogo una pratica e come ogni pratica si
è istituzionalizzata, si è strutturata come forma discorsiva e perfino
come genere letterario. Praticare la filosofia coincide quindi con un
modo ben determinato di porre domande e di elaborare risposte. Da
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questo punto di vista, il dialogo platonico disegna e definisce il
genere: la filosofia guadagna un suo statuto specifico e perciò
differisce da tutto ciò che i greci denominavano complessivamente
technai.
La filosofia si determina in senso stretto come un discorso e
precisamente come quel discorso che ha a che fare con la verità, che la
mette a tema come la sua questione dominante.
Ogni uomo dal momento che è titolare di parola è obbligato al
discorso e quand‟anche non lo volesse è chiamato in causa dalle
parole degli altri. Nessuno può sottrarsi al compito di decidere del
vero e del falso: anche l‟astenersi equivale di fatto a un prender
posizione. La filosofia è una decisione, un atteggiamento, un
comportamento, un modo di vedere il mondo.”
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“La filosofia fin dalle sue origini sa – questo è il suo proprio sapere –
che non potrà mai attingere quel a cui aspira: la pienezza della
sapienza. Per cui philo-sophoi: non sapienti, ma amici della sapienza,
sapienti perché consapevoli dell‟umana indigenza.
La filosofia ha così il compito di mettere a nudo e di drammatizzare la
povertà costitutiva della condizione umana: la sua inevitabile e
incolmabile ignoranza e insieme la necessità di dover conferire al
mondo un senso per rendere sensata l‟esistenza.
Sapienza è sapere padroneggiare il molteplice, non disperdersi in esso
o rinchiudersi, a difesa, nel proprio particolare. Per dirla con Eraclito:
<<Avere logos non coincide con il saper molte cose, ma col riuscire
ad avere una visione d’insieme che renda coerente il tempo della
propria vita con il tempo del mondo.>>
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Chi conosce l‟universale non ha la conoscenza positiva di alcunché,
ma cerca di cogliere in ogni cosa la sua destinazione al bene.
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Sapere l‟universale non comporta di per sé l‟ignoranza del particolare,
ma ciò in cui precisamente consiste è nel considerare ogni particolare
sotto il profilo del bene, nel guardare alle cose secondo la loro natura,
qualunque essa sia. E se ogni cosa si realizza secondo la propria
natura, la natura tutta si realizza come bene.
Se mai c‟è stato un tempo in cui l‟uniformità dell‟ordine naturale
lasciava emergere in tutta chiarezza l‟oggettività del bene, oggi non è
più così semplice delinearne il profilo.
Se un tempo era ovvio cosa volesse dire fare il bene – bonum est
faciendum – oggi si deve decidere di volta in volta cos‟è il bene.
L‟emersione della soggettività ha relativizzato il bene, ma per quanto
la sua definizione resti problematica, esso rimane ugualmente
destinale. Il mondo ha senso solo in ragione del bene, senza di esso
risulta impraticabile: è possibile tutto e il contrario di tutto e quindi
nulla.
Per cui sapere di non sapere come all‟inizio: ma ciò non vuol dire
disperare, ma sapere che anche se non si dispone di verità esaustive si
possono a ogni modo trovare buone ragioni in favore della vita e
perciò viverla bene. La sapienza è inattingibile, le scienze imperfette,
l‟inadeguatezza umana alla verità e le verità incomplete di ogni
scienza riconsegnano gli uomini per intero alla loro finitezza. Né
sapienti dunque, né ignoranti, ma semplicemente amici della sapienza.
I concetti che la filosofia ha elaborato nel tempo, lungi dall‟essere
luoghi incondizionati di verità sono da intendere come espedienti
tramite cui l‟umanità ha cercato di trovare scenari di senso in una fuga
senza fine. E tuttavia non è affatto detto che chi cerca sempre trovi.
D‟abitudine siamo spinti a connettere il cercare con il trovare, ma
sarebbe meglio sostituire a questa relazione la coppia cercare/perdere.
In questo caso il termine positivo è cercare, quello negativo il non
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cercare: qui c‟è perdita. Bisogna andare al reperimento del senso al di
là e oltre ogni delusione, è necessario ambire a formarlo. Chi ama la
sapienza vive assennatamente e mantiene un atteggiamento scettico
perché aspira alla totalità del senso, ma si trova in mano sempre
frammenti di verità. Questo gli impedisce d‟essere superbo, di non
idolatrare soluzioni temporanee e lo tiene sempre in cammino.
L‟intelligenza, d‟altra parte, è nata dall‟espediente e la ragione teorica
da quella astuta. Questo lo si può dire della filosofia.”
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“Perché limitarsi alla filosofia antica, così lontana da noi? Come
diceva Aristotele, per capire le cose bisogna vederle nel corso del loro
sviluppo, bisogna coglierle sul nascere. Se ancora oggi parliamo di
filosofia è perché i Greci hanno inventato la parola philosophia e
perché la tradizione della filosofia greca si è trasmessa al Medioevo e
quindi ai tempi moderni.
Da Socrate in poi la scelta di un modo di vivere non si colloca alla
fine del processo di attività filosofica, come una sorta di appendice
accessoria, ma, al contrario, si colloca proprio all‟origine di tale
processo, all‟interno di una complessa interazione tra la reazione
critica ad altri atteggiamenti esistenziali, la visione globale di un certo
modo di vivere e di vedere il mondo, e la decisione volontaria di per
sé; e questa opzione determina così, entro certi limiti, la dottrina stessa
e la modalità del suo insegnamento.
Il discorso filosofico ha quindi origine da una scelta di vita e da
un‟opzione esistenziale, e non viceversa. Non si tratta di separare e
contrapporre da un lato la filosofia come modo di vivere, e dall‟altro
un discorso filosofico esterno alla filosofia. Al contrario, il discorso
filosofico fa parte del modo di vivere.
Il pensiero antico non si risolve soltanto in una successione dialettica
di dottrine scientifiche, ma anche in un altissimo esercizio spirituale e
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in un'idea complessiva dell'universo derivante dalla decisione di
vivere la filosofia in comunità.
La filosofia antica ammette, senz‟altro a partire dal Simposio di
Platone, che il filosofo non è saggio, ma non considera se stessa come
un mero discorso che s‟interromperebbe nel momento in cui apparisse
la saggezza. La filosofia è indissolubilmente e contemporaneamente
discorso e modo di vivere che tendono alla saggezza, senza mai
raggiungerla.
Gli interpreti moderni esitano tra il concetto di sapere e saggezza. E‟
saggio chi sa tante cose o chi sa comportarsi bene nella vita e si trova
in una condizione di soddisfazione, di felicità?
I due concetti sono lungi dall‟escludersi l‟un l‟altro; il vero sapere è in
realtà un saper fare, e il vero saper fare è il saper fare il bene. La
saggezza evocata e ricercata spesso è rappresentata da un‟immagine di
inerzia un po‟ egoistica: in realtà è movimento attivo verso l‟altro,
verso la pace e la libertà interiore. E così che la ricerca della saggezza
non finisce mai; bisogna sempre esercitarsi, perché la saggezza esige
che si vada sempre al di là, che si continui incessantemente a
rinnovare le pratiche e la vita filosofica. Lo sforzo in direzione della
saggezza, cioè per realizzare una vita filosofica, è sempre incompiuto,
fatto di imperfezioni e tentativi. La filosofia è così, sempre, in uno
stato di incompiutezza. La meditazione come esercizio spirituale è
qualcosa di ammirevole, ma bisogna rendersi conto anche di ciò che
avviene nella realtà. Il nostro discorso interiore è sempre interrotto,
caotico, disperso e per giungere ad una riunificazione tra sé e il mondo
è necessaria una battaglia senza fine, che in fondo non può per
l‟appunto non essere perpetua. Si può dire che è la trascendenza
dell‟ideale di saggezza a spiegare questa incompiutezza della
filosofia.”
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E che cos'è filosofare? La filosofia è un'esperienza vissuta. I discorsi
filosofici degli antichi sono esercizi spirituali che non mirano a
informare, ma a formare e a trasformare noi stessi. L‟esercizio
spirituale è una pratica volontaria, personale, destinata ad operare una
trasformazione dell‟individuo, una trasformazione di sé.
“E se Platone ci illumina dicendo che filosofare vuol dire esercitarsi a
morire, esercitarsi a morire vuol dire esercitarsi a vivere con piena
lucidità, staccarsi dal proprio io per aprirsi a una prospettiva
universale - l'itinerario della saggezza. Non si tratta perciò di mimare
la morte, ma di un esercizio della vita spirituale, intellettuale, della
vita del pensiero; si tratta di trovare un modo di conoscenza diverso
dalla conoscenza sensibile. Bisogna passare dall‟io empirico e
inferiore, destinato a morire, all‟io trascendentale. Socrate, nel dialogo
del Fedone, distingue nettamente tra l‟io che ben presto diventerà
cadavere dopo aver bevuto la cicuta, e l‟io che dialoga e agisce
spiritualmente. Anche gli stoici hanno parlato molto dell‟esercizio di
morte, nella prospettiva di un esercizio di preparazione alle difficoltà
della vita, la praemeditatio malorum. Gli stoici dicevano sempre di
pensare alla morte come un fatto imminente, ma era più per scoprire
l‟importanza della vita che per prepararsi alla morte. Si tratta di
rendersi conto che il momento che si sta vivendo ha un valore infinito,
che, poiché sarà forse tra breve interrotto dalla morte, bisogna viverlo
in un modo estremamente intenso finché la morte non sopraggiunga.
E‟ il famoso carpe diem di Orazio: cogli l’oggi, senza pensare al
domani. Si tratta sempre di una presa di coscienza del valore
dell‟esistenza. In definitiva, sia Platone sia gli stoici sia gli epicurei
hanno sempre considerato l‟esercizio di morte come un esercizio di
vita. E‟ possibile pensare che gli esercizi spirituali, in quanto cercano
di raggiungere l‟atarassia, cioè la pace dell‟anima siano una pratica di
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egocentrismo. Ma non è così. Se si pensa bene sono, all‟opposto,
esercizi per liberarsi dall‟egoismo provocato dall‟attrattiva dei piaceri
o dalla cura del corpo, per liberarsi dall‟io parziale e particolare ed
elevarsi ad un livello superiore dell‟io. A proposito, il dialogo è
riconoscere i diritti dell‟altro nella discussione e soprattutto
riconoscere una norma superiore al cui livello l‟io deve innalzarsi per
poter semplicemente dialogare, quella norma superiore che è la
Ragione. E‟ poi evidente come i filosofi antichi hanno sentito molto
intensamente la preoccupazione degli altri.
Socrate si presentava come colui che ha ricevuto la missione di
occuparsi degli altri, di far prendere loro la decisione di occuparsi di
se stessi. La preoccupazione di sé non è affatto una preoccupazione
per il proprio benessere, nel senso moderno del termine, ma la
preoccupazione di sé consiste nel prendere coscienza di ciò che si è
realmente, cioè in definitiva della nostra identità con la ragione.
Seneca diceva in una sua lettera di vivere per gli altri, se si vuole
vivere per sé, volendo intendere con ciò che non si può essere felici,
se si pensa solo a se stessi e che occuparsi degli altri implica una
trasformazione di sé intesa come un essere attenti agli altri, un
rendersi conto di essere membri di uno stesso corpo. E così che la
felicità si trova facendo del bene agli altri, perché facendo il bene
altrui si fa il bene a se stessi. Una bontà che presuppone un
disinteresse totale, che sia spontanea e irriflessa, senza il minimo
calcolo, senza il minimo compiacimento verso se stessi.”
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“La filosofia è elemento primo, trascendentale, che non ammette
niente che proceda dal suo esterno, la filosofia è la dialettica stessa, la
relazione essenziale tra il nostro essere e il mondo.
La filosofia è storicamente ed essenzialmente il riferimento dell‟uomo
con se stesso e con il mondo. Ogni dire, qualsiasi dire, è filosofico. La