INTRODUZIONE
La volontà di elaborare una tesi sulla Sindrome di Asperger nasce da
un mio profondo interesse ad approfondire questa patologia. Il punto di
vista adottato per affrontare questo argomento è stato quello
cinematografico, che mi ha permesso di ricostruire, passo dopo passo, i
molteplici aspetti che l’essere una persona considerata diversa comporta e
di mostrare come è necessario privilegiare il senso della persona, come
singolarità di problemi che possono e devono essere affrontati
costruttivamente.
L’idea di raccontare queste sindromi attraverso il cinema nasce, quindi,
dalla convinzione che questa particolare forma di arte permetta a ciascuno
di noi di mettere in discussione la nostra visione del mondo: il cinema è in
grado, in altre parole, di allargare il nostro sguardo, di farci comprendere
come esistano altri possibili orizzonti di senso. La visione di un film è una
straordinaria occasione di apertura al mondo e un grande stimolo
all’autoriflessione, al riconoscimento di sogni ed emozioni che
accompagnano la vita.
Gli obiettivi che intendo perseguire sono molteplici: in primo luogo
intendo mostrare come tra disabilità ed ambiente sociale vi sia una stretta
relazione: più la società è in grado di accogliere ciascun individuo, con
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tutta la sua diversità, più quest’ultimo è messo nelle condizioni di poter
superare i propri handicap; in secondo luogo ho sottolineato la necessità di
non considerare la Sindrome di Asperger come un elemento predominante,
a cui tutta l’esistenza deve essere ricondotta, ma che è necessario ribadire
che la persona disabile è una persona a pieno titolo; infine, pilastro su cui
intendo basare l’intera riflessione è come sia necessario considerare la
diversità come un aspetto insito all’essere umano, solo così, a mio avviso, è
possibile diffondere la conoscenza che l’essere disabile non significa essere
figli di un dio minore.
La chiave di lettura per poter giungere a questa considerazione sarà
l’analisi di tre film: Mary and Max, Ben X e Il mio nome è Khan. Nel fare
ciò ho cercato di trattare sia l’aspetto scientifico della patologia, sia
l’aspetto umano: le storie di vita di Max, Ben e Rizvan sono ricche di
spunti che consentono di allargare la visione che, generalmente, si ha sullo
spettro autistico.
Nel primo capitolo si prenderanno in esame i Disturbi Pervasivi dello
Sviluppo, con particolare riferimento alla Sindrome Autistica e alla
Sindrome di Asperger. Particolare attenzione verrà data al difetto di
socializzazione che queste patologie determinano: ciò è importante per
comprendere appieno il mondo affettivo ed emotivo di Max, Ben e Rizvan.
Nel secondo capitolo verranno analizzati singolarmente i tre film sopra
citati facendo emergere somiglianze e differenze tra le storie che ci
vengono raccontate.
Da un punto di vista metodologico l’analisi avverrà focalizzando la nostra
attenzione sulla sceneggiatura, sulla storia, sulla struttura narrativa e,
soprattutto, sulle caratteristiche personali, affettive ed emozionali sia dei
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protagonisti, sia dei vari personaggi che assumono un ruolo cruciale per
comprendere pienamente il significato che i film vogliono trasmettere.
In particolare, in Mary and Max dopo una breve introduzione volta a
illustrare la rappresentazione dei disabili nei cartoni animati e nei mass-
media in generale, si analizzeranno le caratteristiche personali dei due
protagonisti; ci si soffermerà sulle caratteristiche della sindrome di
Asperger in Max e su come la diversità del protagonista venga presentata
dal regista, sul rapporto esistente tra disabilità ed autobiografia e, infine,
sul significato educativo che possiede questo film animato.
Per quanto concerne l’analisi di Ben X, essa avverrà seguendo lo stesso
stile già usato in Mary and Max. I motivi che mi hanno spinta a scegliere di
analizzare questo film sono molteplici: esso permette di analizzare non solo
la sindrome di Asperger, ma anche il rapporto esistente tra handicap e
società: nell’approfondire questa tematica, si terrà conto di come il
concetto di disabilità sia legato ai processi rappresentazionali che si
formano all’interno dell’immaginario collettivo in un determinato
momento storico. In virtù di ciò si farà riferimento a come, nel corso del
tempo, queste rappresentazioni collettive si sono sviluppate, dando poi
forma agli atteggiamenti umani e alle risposte istituzionali verso i disabili.
Infine, verranno analizzati due aspetti: l’adolescenza e la costruzione
dell’identità e il fenomeno del bullismo di cui è vittima il protagonista.
Con Il mio nome è Khan la riflessione verrà estesa non soltanto alla
sindrome di Asperger ma anche alla diversità in senso lato. L’analisi di
questo film mi permetterà, infatti, di dimostrare come l’esperienza negativa
vissuta dal protagonista non può essere ricondotta alla sindrome di
Asperger, ma al credo religioso del protagonista. In particolare, questo film
11
mi ha permesso di analizzare una categoria concettuale che si pone alla
base della concezione che spesso si ha nei confronti della diversità: il
pregiudizio. In merito a ciò ho fatto riferimento sia all’evoluzione del
termine sia ai vari approcci che hanno tentato di spiegarlo e di consideralo
come frutto di un processo di apprendimento, che in quanto tale può essere
modificato o annullato. Nel trattare questa tematica, infine, si seguiranno i
recenti approcci che, oggi, tendono a porre al centro di ogni riflessione non
più i problemi della persona disabile, ma i suoi “bisogni di normalità”,
prendendo in considerazione, dunque, non tanto le parti malate o deficitarie
del soggetto disabile, quanto piuttosto le parti sane o potenzialmente tali.
Ciò perché ritengo che questa rappresentazione della persona disabile
richiami una prospettiva antropologica, nella quale l’essere umano è
riconosciuto come portatore di bisogni, di desideri, di idee, ma anche di
paure, di fragilità e di limiti.
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CAPITOLO I
BREVE INTRODUZIONE SUI DISTURBI PERV ASIVI
DELLO SVILUPPO
Il termine Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (DPS) viene utilizzato dai
due principali sistemi di nosografia codificata, il Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders-IV-TR (DSM) e dall' International
Classification of Diseases (ICD), per indicare diversi quadri clinici
caratterizzati da disturbi dell’interazione sociale, dalla compromissione
della comunicazione verbale e non verbale e da un insieme di attività ed
interessi bizzarri, limitati e stereotipati; ne deriva uno sviluppo atipico, che
investe tutte le linee evolutive. La categoria nosografica dei DPS si è
venuta progressivamente a definire partendo dall’Autismo Infantile e dai
problemi di inquadramento nosografico ad esso connessi
1
. I principali
quadri clinici che rientrano nell’ambito dei DPS sono: il disturbo autistico;
la sindrome di Asperger; la sindrome di Rett; il disturbo disintegrativo della
fanciullezza.
Al disturbo autistico e alla sindrome di Asperger sono dedicati i paragrafi
successivi. Per quanto riguarda, invece, la sindrome di Rett, essa sembra
essere tipica del sesso femminile e presenta degli aspetti clinici ed evolutivi
1 R. Militerni, Neuropsichiatria infantile, Napoli, Idelson-Gnocchi, 2004.
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ben definiti. Ciò che caratterizza il quadro clinico di questa sindrome è un
iniziale sviluppo normale, con comparsa ad un’età variabile (generalmente
dai 6 ai 18 mesi) di un arresto dello sviluppo psicomotorio, cui
progressivamente segue un peggioramento. Fra i 12-18 mesi ed i 4 anni,
infatti, compaiono: comportamenti di tipo autistico (regressione del
linguaggio e perdita di interesse nell’interazione sociale); difficoltà nella
coordinazione dinamica generale e particolari stereotipie delle mani
(tamburellare con le dita; battere le mani; imprimere alle mani posture
bizzarre)
2
.
In genere, a partire dai 4 anni si ha un parziale recupero dell’interazione
sociale, mentre il ritardo mentale diventa manifesto e la sintomatologia
neurologica si accentua. In un’ultima fase, infine, il peggioramento del
quadro neuro-motorio comporta la perdita delle autonomie motorie
determinando una grave disabilità.
Con il termine disturbo disintegrativo della fanciullezza si indica un
quadro clinico del tutto sovrapponibile a quello del disturbo autistico, da
cui si differenzia soltanto per l’età e le modalità di esordio. In questo
disturbo, infatti, le prime fasi dello sviluppo sono normali, generalmente tra
i 3-4 anni il bambino inizia a presentare disturbi comportamentali che
colpiscono l’interazione sociale, a manifestare le prime stereotipie,
associati ad una regressione delle funzioni linguistiche precedentemente
acquisite.
2 G. Fava Vizziello, Psicopatologia dello sviluppo, Bologna, Il Mulino, 2003.
14
1. La sindrome autistica
Il disturbo autistico (DA), denominato anche con i termini di autismo
infantile, autismo di Kanner o sindrome autistica, è uno dei più gravi di-
sturbi psichiatrici dell’età evolutiva ed è, inoltre, il disturbo maggiormente
rappresentativo nell’ambito dei DPS.
Sul piano comportamentale i disturbi che caratterizzano il quadro clinico,
come vedremo più avanti, sono riconducibili alla compromissione di tre
aree: l’interazione sociale, la comunicazione verbale e non verbale, il re-
pertorio di attività ed interessi
3
.
A questa sintomatologia, che rappresenta l’elemento specifico del DA, si
associano frequentemente altri due sintomi: il ritardo mentale e l’epilessia.
Infatti, circa il 75% dei pazienti autistici presenta un ritardo mentale. An-
che se la co-morbilità tra i due disturbi è un problema ancora aperto, sul
piano clinico e descrittivo il riferimento ad alcuni aspetti, quali ad esempio
la socievolezza e la disponibilità allo scambio relazionale (assenti nell’au-
tismo, presenti nel ritardo mentale, indipendentemente dal grado di com-
promissione intellettiva) permettono di differenziare le due condizioni e,
allo stesso tempo, di stabilirne l’eventuale associazione.
L’epilessia, invece, è presente nel 30-40% dei casi e, alcune forme, quali
gli spasmi infantili, sembrano determinare, di per se stesse, le condizioni
per lo sviluppo di una sintomatologia autistica.
Il DA esordisce nei primi tre anni di vita; nella maggior parte dei casi è nel
periodo compreso fra i 10 ed i 20 mesi che iniziano a diventare evidenti i
sintomi riconducibili ad un disturbo dell’interazione e della comunicazione
3 Cfr. R. Militerni, Neuropsichiatria infantile, cit.
15
sociale.
La diagnosi è basata su criteri esclusivamente comportamentali. Pertanto,
risulta indispensabile operare una precisa ricostruzione anamnestica, facen-
do riferimento allo sviluppo delle competenze comunicative e sociali e alle
modalità abituali di agire e interagire con gli altri e con la realtà circostan-
te. Ciò deve essere compiuto non solo in ambito familiare ma anche
nell’ambiente extra-familiare (scuola, attività del tempo libero etc.,). Os-
servare il bambino permette, infatti, di verificare l’atipicità dei suoi com-
portamenti sul piano quantitativo, ma soprattutto su quello qualitativo
4
.
L’osservazione va associata ad una serie di indagini strumentali e di labora-
torio (ad esempio l’Elettroencefalogramma), che non hanno un significato
diagnostico, ma permettono, da un lato, di orientarsi verso l’etiologia del
caso in esame e, dall’altra parte, di collocare il disturbo all’interno di uno
specifico sottogruppo dello spettro autistico.
Infine, considerando la complessità dei quadri clinici che vengono annove-
rati all’interno dei DPS, emerge come non esiste la terapia dell’Autismo:
esistono, al contrario, una serie di interventi terapeutici che, di volta in vol-
ta, vengono presi in considerazione in modo da rispondere nel modo
migliore possibile ai bisogni specifici di un dato bambino in un determinato
stadio di sviluppo.
Le terapie attualmente disponibili sono di diverso tipo: terapie farmacologi-
che (i farmaci maggiormente usati sono i neurolettici); interventi abilitativi
che favoriscono lo sviluppo ed il consolidamento di abilità che, secondo i
vari tipi di intervento, possono essere centrate sugli aspetti motori, cogniti-
vi o sulla comunicazione; interventi psicopedagogici finalizzati a sviluppa-
4 Cfr. R. Militerni, Neuropsichiatria infantile, cit.
16
re determinate competenze quali, ad esempio, le autonomie personali e so-
ciali; interventi psicoterapeutici che possono essere ad orientamento psico-
dinamico o cognitivo-comportamentale). Infine, è indispensabile sottoli-
neare che proprio in virtù della natura complessa del disturbo, il progetto
terapeutico deve essere periodicamente valutato e riformulato sulla base
delle esigenze che, di volta in volta, emergono
5
.
L’ultimo aspetto a cui far riferimento è la prognosi: l’evoluzione del DA
dipende da alcuni fattori, quali il livello cognitivo (la prognosi è indubbia-
mente migliore nei casi in cui il QI è più elevato); la presenza di co-morbi-
dità con altre patologie; l’espressività della sintomatologia autistica (i sog-
getti che fin dalle prime fasi di sviluppo presentano una chiusura alla rela-
zione più accentuata hanno un’evoluzione peggiore); lo sviluppo linguisti-
co (diverse indagini hanno dimostrato che l’assenza di un linguaggio co-
municativo all’età di 6 anni deve essere considerato un elemento prognosti-
co sfavorevole).
1.1. Cenni storici
Il termine “autismo” è stato impiegato da Eugen Bleuler, nel 1911,
nell’ambito della schizofrenia, per indicare un comportamento rappresenta-
to da chiusura, evitamento dell’altro e isolamento.
Successivamente, Leo Kanner, nel 1943, ha utilizzato questo termine non
più con il significato di un “sintomo”, ma come un’etichetta descrittiva di
5 Psichiatria clinica, Genova, ECIG, 1995.
17
un’entità nosografica, l’Autismo Infantile, i cui elementi caratterizzanti
sono: etiologia sconosciuta; insorgenza precoce; tendenza all’isolamento;
bisogno di immutabilità; «una facies che colpisce per la sua intelligenza»;
assenza di segni neurologici; genitori “freddi”
6
.
Kanner enuclea undici casi con insorgenza nel primo anno di vita e colloca
la patogenesi nella coppia genitoriale; egli descrive i genitori di questi
bambini come persone intelligenti, con una buona estrazione sociale e cul-
turale, ma emotivamente freddi, cioè incapaci di instaurare un rapporto
profondo con il figlio. Egli, nell’enfatizzare l’assenza di un’organicità di
fondo e la particolare tipologia parentale («genitori frigorifero»), ha aperto
la strada ad un’interpretazione psicogenetica del disturbo.
Mentre Kanner considera l’autismo una patologia innata, Bettelheim ritie-
ne, invece, che esso dipende da un inadeguato rapporto materno: a suo av-
viso, nell’autismo infantile precoce esistono dei quadri patologici legati ad
un rapporto disturbato con l’ambiente, che, a sua volta, determina una pro-
fonda alterazione sia delle funzioni mentali, sia della struttura affettiva, non
ascrivibile né a danni cerebrali, né a deficit di tipo sensoriale. Bettelheim
offre, dunque, una spiegazione prevalentemente psicogena, secondo la qua-
le un’incapacità iniziale del bambino a relazionarsi in modo adeguato con
la madre (che può essere provocata anche da cause organiche o da fattori
interni: «Non tutti i bambini nascono con la stessa sensibilità, e ciascuno di
loro reagisce all’ambiente in modo differente»
7
) provoca in lei una delusio-
ne narcisistica e, quindi, un atteggiamento di ritiro nei confronti del bambi-
no il quale, a sua volta, risponde con una chiusura ancora più grave. Si in-
6 L. Trisciuzzi, C. Fratini, M. A. Galanti, Introduzione alla pedagogia speciale, Roma-Bari, Laterza,
2003.
7 B. Bettelheim, La fortezza vuota, Milano, Garzanti, 1990, p. 131.
18
nesca così un circolo vizioso che contribuisce a far nascere nel bambino la
sensazione di essere intrappolato in una situazione senza via d’uscita. In
questo modo il disagio iniziale si trasforma in comportamento autistico: af-
finché l’autismo da temporaneo diventi cronico è necessario che le angos-
cianti sensazioni vissute dal bambino trovino almeno una parziale confer-
ma nella realtà
8
.
Nel corso degli anni questo tipo di approccio è stato oggetto di numerose
valutazioni critiche. Ciò, in relazione a tre ordini di fattori: in primo luogo,
il riscontro di alterazioni “organiche” in un numero sempre maggiore di
bambini autistici apparentemente “primari”; in secondo luogo, la definizio-
ne di modelli neuropsicologici sempre più convincenti per la compromis-
sione del funzionamento mentale in generale, quali il modello dell’elabora-
zione dell’informazione (Human Information Processing), la teoria della
mente o il sistema delle Funzioni Esecutive; infine, i progressi della neuro-
biologia, resi possibili dalle più recenti tecniche di indagine, che comincia-
no ad individuare le strutture neuro anatomiche ed i sistemi neurotrasmetti-
tori ali implicati in svariati comportamenti, fra cui quelli sociali.
I risultati di queste aree di ricerca hanno permesso di ricercare le cause del
disturbo autistico non più all’esterno, ma all’interno del bambino. Attual-
mente, infatti, è sempre più accettata l’ipotesi che il disturbo autistico sia
legato ad un funzionamento mentale atipico; una disfunzione, ancora mal
definita in termini neurobiologici e/o neuropsicologici, ma comunque lega-
ta all’equipaggiamento morfo-funzionale del Sistema Nervoso Centrale. Il
dibattito sugli aspetti etiopatogenetici ha, dunque, favorito il consolidarsi di
un approccio descrittivo che, prescindendo dalle cause, si è rivolto esclusi-
8 C. Fratini, Bruno Bettelheim. Tra psicoanalisi e pedagogia, Napoli, Liguori, 1999.
19
vamente a stabilire i comportamenti caratteristici dell’autismo, in rapporto
ai quali formulare la diagnosi.
Va, inoltre, tenuto in considerazione il fatto che è molto difficile mantenere
un concetto unitario di Autismo: considerando gli aspetti clinico-descrittivi
emerge come il nucleo fondamentale del comportamento autistico presenta,
nei diversi pazienti, numerose differenze in relazione all’espressività. Ciò
ha indotto ad individuare una sorta di continuum: la gravità dell’autismo,
cioè, si distribuisce lungo una linea continua, estesa dalle situazioni lievi, o
meno gravi, a quelle gravissime, in cui il bambino è completamente fuori
dall’azione, dall’interazione e dalla relazione
9
.
Inoltre, è necessario considerare che il nucleo comportamentale tipico
dell’autismo spesso è associato a caratteristiche particolari, in termini di
prevalenza di sesso, modalità di esordio e/o di decorso, associazione con
definiti disturbi neurologici. Tali caratteristiche assumono il significato di
sintomi “accessori”, in quanto presenti in alcuni bambini ed assenti in altri.
Esse, tuttavia, conferiscono al quadro clinico aspetti particolari, ed hanno
indotto ad introdurre il concetto di spettro autistico: esso sta ad indicare che
insieme ad un disturbo di “base” si distribuiscono forme che con esso con-
dividono alcune caratteristiche, ma che se ne differenziano per altre. All’in-
terno dello spettro autistico si vengono a definire diversi sottogruppi, che si
differenziano dall’autismo classico per alcune specificità. Questa suddiviso-
ne, che al momento risponde solo ad un’esigenza descrittiva, sottende la
possibilità che in futuro possano essere definiti per ciascun sottogruppo
cause e meccanismi specifici
10
.
9 L. Trisciuzzi, C. Fratini, M. A. Galanti, Introduzione alla pedagogia speciale, cit.
10 Cfr. R. Militerni, Neuropsichiatria infantile, cit.
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