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CAPITOLO 1: Devianza e organizzazioni criminali.
1.1 L’Ordine sociale.
La Rivoluzione Industriale settecentesca, che dall’Inghilterra si espanse nel
resto d’Europa, segna un punto di svolta nella storia dell’urbanizzazione
umana dal momento che si formarono complessi conglomerati urbani dove un
numero sempre maggiore di cittadini si trovò a vivere a stretto contatto. La
pressione demografica subì una crescita esponenziale e vi fu una
diversificazione di classi con esigenze e desideri a tratti convergenti e a tratti
diversificati. Si originarono inevitabili tensioni fra il neonato proletariato
urbano, la borghesia cittadina e le istituzioni, al che fu necessario istituire
norme di comportamento e di pensiero condivisibili dalla maggioranza dei
membri appartenenti. Filosofi, pensatori e sapienti di ogni epoca hanno seguito
il percorso della società ed hanno cercato di analizzarne le forme ed i problemi,
apportando ognuno una diversa interpretazione del reale. Si spaziò dagli
umanisti agli illuminati, ai romantici esaltatori della natura, per passare ai
positivisti, idolatri del progresso e del metodo scientifico; ognuno ansioso di
scovare il dato chiarificatore del mondo. Nel mezzo di questa eterna lotta nel
XIX secolo nacque la sociologia, una branca di studi che si propone di applicare
il metodo scientifico al conoscimento sistematico dell’organizzazione sociale e
dei modi in cui le persone la generarono, in risposta all’ esigenza indagatrice
dell’uomo, al fine di trovare un’interpretazione alle metamorfosi provocate
dalla modernità. Il termine fu coniato da Auguste Comte, a seguito delle sue
riflessioni sulla ciclicità del tempo, ma non si possono certamente negare le
origini di questa materia nella filosofia politica e sociale di Platone, Aristotele,
Hobbes, Macchiavelli, Rousseau, Hegel e molti altri. Furono forgiati diversi
rami della disciplina, la sociologia storica, la microsociologia, la
macrosociologia e molte altre, i cui esponenti si specializzarono nello studio
dell’uomo a 360° gradi.
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La teoria funzionalista, una branca della materia sociologica, riprendendo
uno dei principi cardine della sociologia classica secondo cui se un fenomeno
sociale persiste nel tempo ne deriva che esso ha delle conseguenze importanti
per il funzionamento delle società, deduce che la stessa si può paragonare ad un
organismo le cui parti si integrano fra loro allo scopo di mantenere in vita il
sistema stesso. Fra gli studiosi attratti da tale prospettiva, come Alfred R.
Radcliffe Brown
1
e Bronislaw Malinowski,
2
Émile Durkheim in De la division du
travail social del 1893
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tuttavia vi riscontrò un importante difetto: essa era si
utile per spiegare la reiterazione degli accadimenti sociali ma, nelle società
complesse in particolar modo, non ne accertava le cause. In risposta a questa
osservazione Robert K. Merton, professore emerito della Columbia University,
nel suo Social Theory and Social Structure del 1968,
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sosteneva che il principio
sopracitato, per cui l’esistenza di qualcosa è da imputare alla sua funzionalità,
dev’essere relativizzato, solo così tramite una fusione di analisi funzionale e
strutturale si potrà giungere alla conclusione che un fenomeno sociale non è
importante solo nella sua essenza ma è strettamente condizionato dai vincoli
sociali antecedenti alla sua creazione. Conseguentemente a queste valutazioni si
può individuare l’ordine sociale come meccanismo principale di aggregazione.
Ma che cosa si intende esattamente con questo termine? Le definizioni sono
innumerevoli, ma in questo frangente vorrei focalizzare l’attenzione sugli
assetti normativi che sono prodotti dalla dialettica dei rapporti sociali e che ne
influenzano lo svolgimento, per cui:
“Definiamo quindi l’ordine sociale come effetto socialmente e
storicamente collocato, come assetto normativo che ci consente di
gestire le nostre interazioni appoggiandoci a sostegni tanto
fondamentali quanto instabili. Nelle relazioni sociali non possiamo
1
Alfred R. Radcliffe Brown, A natural science of society, Glencoe, Free Press, 1957.
2
Bronislaw Malinowski, A Scientific Theory of culture and other essays, Chapel Hill, N. Carolina, The
University of North Carolina Press, 1944.
3
Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1971.
4
Robert K. Merton, Social Theory and Social Structure, New York, The Free Press, 1968.
6
prescindere da questi fattori regolativi che ci sentiamo di ricondurre
alla categoria di prevedibilità.”
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Seguendo dunque tale ragionamento, si evince che il nostro vivere
quotidiano si basa su una serie ben definita di convenzioni, codici ed
aspettative calcolabili comunitariamente decise, necessarie per poter codificare
le azioni di chi ci circonda e rispondere di conseguenza allo scambio
interpersonale in maniera appropriata. Il rispetto di tali norme da parte dei
soggetti aumenta il grado di probabilità di interpretare correttamente gli atti
linguistici ed extralinguistici degli interlocutori ed elimina le incertezze, in tal
modo la sensazione di sicurezza degli attori aumenta esponenzialmente, poiché
è in grado di contenere insidie e pericoli. Al contrario, se questo legame sociale
entra in crisi oppure viene violato dagli attori, si corre il rischio di essere gettati
in balia dell’aggressività e dell’imprevedibilità delle altrui condotte, ed i
trasgressori saranno etichettati come outsiders, e subitamente espulsi dalla
comunità, intesa come:
“Insieme di persone fra loro in interazione con continuità secondo
schemi relativamente stabili, le quali si definiscono membri del
gruppo e sono definiti come tali da altri.”
6
Per far si che l’ordinamento prosegua inalterato, o con il minor scarto di
variazione nel tempo, sono necessari alcuni imperativi che Talcott Parsons,
nella sua opera The Social System del 1951,
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chiama: adattamento, perseguimento
dei fini, integrazione e latenza. In altre parole, in primo luogo è indispensabile che
le istituzioni provvedano a procurare i mezzi materiali atti al raggiungimento di
specifici scopi, che tali obbiettivi generali siano fissati e realizzabili, in secondo
luogo che la coesione della società venga mantenuta sancendo diritti e doveri
applicati all’interezza dei membri con norme specifiche e che possano
5
A. Sbraccia, F. Vianello, Sociologia della devianza e della criminalità, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 4.
6
Arnaldo Bagnasco, Prima lezione di sociologia, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 24.
7
Talcott Parsons, The Social System, Glencoe, The Free Press, 1951.
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assicurare la riproduzione biologica e culturale del modello. Ovviamente non si
troverà un modello assoluto ed applicabile indifferentemente in ogni società, da
qui il concetto che ognuna sia culturalmente contraddistinta, con alterità
specifiche e connaturate. In ogni caso, genericamente è bene precisare che, come
sostiene Erving Goffman nell’opera The Interaction Ritual. Essays on Face-to-face
Behavior del 1967, è interesse delle persone dare un’impressione favorevole di se
stesse che possa produrre vantaggi nelle interazioni con il prossimo; dunque al
fine di ricevere l’approvazione generalizzata si tenderà a minimizzare gli
aspetti negativi, ed a ricorrere ad accorgimenti che offrano un’immagine
credibile, il tutto ubbidendo alle regole. Nondimeno è logico supporre che le
norme sociali possano essere infrante in misura del grado di conflittualità che
può crearsi fra la massima, le sue eccezioni, le sue percezioni e le sue
applicazioni nella vita reale. L’inadempienza o la disubbidienza alle regole
formali o informali stabilite può comportare diversi livelli di gravità e,
conseguentemente, corrispondenti livelli di sanzione, riportati secondo una
scala che discende dalla devianza alla criminalità.
1.2 Devianza e Criminalità: lati opposti di una stessa medaglia?
Quando ci si approccia per la prima volta all’argomento si ha la sensazione
che devianza e criminalità appartengano alla medesima categoria semantica, o
più radicalmente che un fenomeno complementi l’altro o ne sia l’ovvia
evoluzione. Uno studio più profondo della materia mi ha permesso di capire
che spesso questa percezione è piuttosto equivoca ed arbitraria. Innanzitutto,
con comportamento deviante si designa l’atteggiamento di un singolo, oppure
di un gruppo, che in qualche modo si distacca dalle condotte universalmente
accettate ed assume caratteristiche di ribellione, discostamento, stranezza o
anomalia rispetto al sistema in vigore. Per far si che esso sia qualificato come
tale è necessario che subisca un pubblico riconoscimento da parte della società,
che ottenga quindi un’etichetta che ne sancisca la stigmatizzazione comunitaria;
fintanto che esso permane nascosto nella sfera privata e nella segretezza non è
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perseguibile. Devono, pertanto, esistere meccanismi di definizione che
sanciscano la differenza fra comportamento deviante e rappresentativo. Questi
processi sono sensibili a variazioni culturali, temporali e spaziali, in quanto
accade che condotte ritenute riprovevoli in un determinato contesto geografico
possano, al contrario, essere tollerate o perfino considerate virtuose in un altro.
È d’uopo a questo punto precisare che nell’impostazione di questi elementi è
insita una profonda dose di relativismo e di arbitrarietà, in quanto le pratiche di
designazione e di repressione sono estremamente connesse agli assetti di potere
di ogni organizzazione sociale. In altre parole, i detentori del potere decisionale
ed economico sono in grado di influenzare a proprio piacimento gli organi di
controllo (polizia, tribunali ecc…), in modo da far slittare l’attenzione dalle
irregolarità dei colletti bianchi per concentrarle verso la fascia più svantaggiata
e reietta della popolazione. La devianza, secondo alcuni sociologi, non porta
con sé solamente un bagaglio negativo ma permette anche all’ordinamento di
rinnovare se stesso, permettendogli di svecchiarsi delle norme obsolete e non
rispecchianti la realtà vigente. Durkheim, attraverso le sue argomentazioni sulla
nozione di anomia, si schiera con la fazione fiduciosa. L’anomia, secondo una
sintetizzazione del pensiero di Durkheim operata da Melossi nel suo Stato,
controllo sociale e devianza del 2002, è:
“La mancanza o meglio l’inadeguatezza delle norme morali rispetto
al livello raggiunto dallo sviluppo della divisione sociale del
lavoro.”
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Dunque il mondo moderno, sostanzialmente, sembrerebbe essere
connotato da un generale deficit di tono morale, ovvero da un’inadeguatezza
delle rappresentazioni collettive all’evoluzione demografica e materialista della
società. Questo comporta un prevalere degli interessi individuali, privi di
riferimenti normativi, sul benessere collettivo ed una conseguente dispersione
delle relazioni e della coesione sociale. Nel caos creatosi il singolo individuo
8
A. Sbraccia, F. Vianello, op.cit., p. 11 .
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fatica a trovare riferimenti valoriali e religiosi universali che possano guidarlo,
quindi un senso di incertezza e di vulnerabilità mina la sua identità
spingendolo verso il conflitto con la collettività, la cui estrema conseguenza
porta al “suicidio anomico”. Il sociologo francese sostiene in Le suicide. Étude de
sociologie del 1897, ergo, che le rappresentazioni mitologiche, religiose, valoriali
e normative debbano necessariamente subire una ridefinizione, se non si vuole
correre il rischio di giungere ad una disgregazione e sparizione della società. La
disobbedienza civile o normativa giocherebbe allora il ruolo di regolatrice
dell’equilibrio, garantendo il rinnovamento nella sua inevitabilità. Non si tratta,
perciò, di connotare sfavorevolmente la devianza, quanto di istituire una scala
di livelli di anomia funzionali, tollerabili o distruttivi.
Paradossalmente, il deviante e gli illegalismi istituzionalmente controllati
risultano molto importanti anche in chiave conservativa, perché provocando la
generale riprovazione che la loro condizione suscita nella collettività
permettono al meccanismo della perpetrazione dell’ordine sociale di seguire il
suo corso. Si ricollega a ciò l’opposizione coniata da Robert Merton nell’opera
già citata, il quale vede nel rifiuto delle norme la cristallizzazione di due figure
divergenti, l’innovatore e il ribelle. Nel primo caso, i soggetti spinti dall’affanno
di raggiungere le mete socialmente definite, trovandosi incapacitati a
raggiungerle con i mezzi convenzionali a causa delle proprie mancanze,
decideranno di prendere dei sentieri alternativi che possono risultare costruttivi
e che finiranno con l’affermarsi come norma. Contrariamente il ribelle, partendo
dall’assunzione dell’assoluta ed inappellabile arbitrarietà dei loro mezzi di
espressione e dei costrutti valoriali, agirà condannando l’invadenza degli stessi
e si attiverà per la loro distruzione, attingendo consenso dalla massa dei
risentiti e degli scontenti. Terreno di discussioni è l’assunzione secondo cui
siano il gruppo e l’ambiente circostante gli elementi che agirebbero in maniera
preponderante nella nascita e diffusione del comportamento anomalo. In
entrambi i casi, si può sostenere che i conflitti fra le strutture normative e
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culturali dei differenti gruppi devianti e ufficiali territorialmente collocati, cui
appartiene il singolo individuo, provochino un sentimento di incertezza nello
stesso, esponendolo inevitabilmente all’influenza di insegnamenti scorretti.
Nascono così diversi tipi di sottoculture discostanti, definite secondo Cloward e
Ohlin nel testo Delinquency and Opportunity. A Theory of Delinquent Gangs del
1960
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come conflittuali, criminali e del ritiro. In questa riflessione generale mi
interessa analizzare la seconda.
Cos’è la criminalità? Cosa la caratterizza? Innanzitutto, non si può
ascrivere ad un fenomeno naturale ma è una costruzione artificiale in quanto
vengono considerati crimini o reati quelle condotte che violano la norma
prevista dal diritto penale, per cui sono di conseguenza previste delle sanzioni.
Al fine di non incorrere in provvedimenti giudiziari l’elemento segretezza è
fondamentale, soprattutto se si milita in un’organizzazione criminale, nella
quale i legami fiduciari, la visibilità o l’occultamento delle azioni saranno
determinate dal controllo delle informazioni, la cosiddetta omertà. Se esse
fuoriescono dalla cerchia delimitata saranno esposte ai processi di
stigmatizzazione e la devianza verrà acclarata; pertanto gli appartenenti
potranno essere perseguiti dalle autorità competenti. Seguendo il filo di questo
ragionamento si potrà dedurre che devianza e criminalità sono due universi
distinti e solo in parte sovrapponibili, in quanto non tutti i comportamenti
devianti vengono sanzionati dal diritto, ma si può affermare che ogni
atteggiamento criminale sia sicuramente deviante. Nasce, a cavallo fra il XVIII
ed il XIX Secolo, la criminologia, materia che si occupa di studiare gli eventi
devianti; i suoi specialisti in connubio con i sociologi hanno cercato di arrivare
all’origine del problema. Alcuni di loro, come Merton,
10
si sono concentrati
nell’osservazione delle fasce più svantaggiate della popolazione, ove
l’intervento sociale dello Stato si è indebolito oppure è quasi del tutto
9
Cloward R, Ohlin L., Delinquency and Opportunity. A Theory of Delinquent Gangs, New Yok, Free Press,
1960.
10
Merton, op.cit.