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appartenenza ideologica, fascisti contro antifascisti, oltre che come resistenza nazionale contro
l’invasore tedesco. Analogamente si è voluto ricordare anche il conflitto di classe, inevitabile e
centrale nella realtà industriale savonese, riemerso dopo la forzata ibernazione del Ventennio
fascista ed esploso con violenza appena trattenuta subito dopo la Liberazione.
Stefano d’Adamo
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CAPITOLO PRIMO
IL TEMPO DELLE SCELTE
I. 1. L’occupazione tedesca della provincia di Savona
Erano le 19,45 dell’8 settembre 1943 quando il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio lesse alla radio
il proclama con cui annunciava la conclusione di un armistizio con gli Alleati. Fu il caos: la festa
più sfrenata, il dolore, la lucida cognizione di un grave rischio incombente si mischiarono in modo
inestricabile nelle ore successive. Alla gioia dei più corrispondeva la mestizia di chi aveva perso i
cari e gli amici, quando non la casa, nel corso del conflitto; i più raziocinanti, giunti pronti a questo
appuntamento della storia, sapevano con dolente certezza che il peggio doveva ancora venire.
Mentre il proclama di Badoglio veniva ripetuto ogni quarto d’ora, a scandire la rovina d’Italia, le
campane di città e paesi della costa come dell’entroterra suonavano a festa1. I soldati, in particolare,
si scatenarono: ad Albenga ”sembra[va]no impazziti” e “vola[va]no le brande alle [sic] finestre”2.
Molti civili approfittarono della confusione e del cedimento della disciplina militare per
saccheggiare i depositi dell’Esercito sparsi nella provincia: ingenti quantità di derrate alimentari
vennero sottratte all’amministrazione delle Forze Armate. I più decisi e previdenti imboscarono
armi da utilizzare eventualmente in seguito, come per esempio fecero i fratelli Botta
impadronendosi del deposito della Milizia a Bricco Ridotta, presso Dego3. Mentre pattuglie militari
in servizio di ordine pubblico tentavano vanamente di far rispettare il coprifuoco alle folle esultanti,
i nostri comandi chiedevano affannosamente lumi circa il comportamento da tenere verso gli ex
alleati tedeschi. I pochi ordini giunsero in ritardo ed erano di una ambiguità imbarazzante.
Bisognava lasciar passare i tedeschi, non considerarli nemici…4 Indicazioni più precise (reagire
vigorosamente a qualsiasi tentativo di disarmo da parte tedesca) giunsero dal Ministero della Guerra
solo nella mattinata del 95, quando le unità italiane nel Savonese erano quasi tutte in balia dei
tedeschi. Questi, sole tre ore dopo la proclamazione dell’armistizio, avevano già ordini chiarissimi:
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“nelle posizioni disarmare con le parole: la guerra per i soldati italiani è finita; essi verranno
trasferiti nella vita civile. Occupare le line telefoniche. Ogni comunicazione interurbana deve essere
vietata. Mettere al sicuro le armi e il materiale bellico. Riferire sull’avvenuta preparazione”6. In
base a queste poche parole le unità germaniche bloccarono durante la notte tutti i punti strategici
della provincia di Savona. La mattina successiva il capoluogo era saldamente in mano agli
aggressori, che non ebbero quasi bisogno di sparare perché la massa dei nostri reparti si squagliò
come neve al sole. Ad alleggerire la posizione dei militari italiani va detto che le unità tedesche, pur
inferiori di numero, erano molto meglio armate e obbedivano a precise disposizioni. Quasi tutti i
reparti del Regio Esercito di stanza a Savona riuscirono, prima di sbandarsi, a distruggere, occultare
o consegnare a civili buona parte dei loro armamenti. In particolare il col. Vittorio Onori,
comandante dell’11o Raggruppamento di Artiglieria G. A. F., non lasciò nulla in mano ai tedeschi,
facendo distruggere tutte le munizioni. Nella città scossa da sporadici spari e scoppi isolati la
popolazione reagì con paura. I più si chiudevano in casa, altri approfittavano del caos per
impadronirsi di fucili, bombe a mano, munizioni, coperte, scarponi, teli da tenda da nascondere poi
in case e cantine. Alla caserma degli avieri, alla Villetta, furono recuperati un centinaio di
moschetti; al grattacielo operai dell’Ilva ottennero la consegna delle armi individuali e di una
mitragliatrice Skoda da un gruppo di sbandati7. Al Porto la situazione era drammatica. Alle sette del
mattino del 9 il comandante della Capitaneria di Porto, Enrico Roni8, aveva ricevuto da Genova
l’ordine di non lasciare una sola nave ai tedeschi: doveva farle salpare o affondarle9. I savonesi e i
tedeschi che raggiunsero il porto non poterono che assistere al mesto spettacolo di dieci navi
autoaffondate nell’acqua annerita dalla loro nafta, mentre altre sei navi riuscivano a salpare appena
in tempo (ma due cacciatorpediniere saranno comunque catturati)10. Il comandante Roni temeva
reazioni spropositate da parte dei militari germanici, cosa che fortunatamente non avvenne. Egli
riuscì in qualche modo a tenere a bada i tedeschi e nello stesso tempo a smobilitare il personale,
salvando capra e cavoli con il suo sangue freddo.Nelle sue memorie Roni ricorda il contributo dei
lavoratori portuali al salvataggio delle navi dalla cattura per mano nemica; ciononostante, la sua
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solitudine nel prendere certe decisioni era evidente, così come l’isolamento del porto dalla città.
Mentre per le vie cittadine semideserte i tedeschi transitavano sparacchiando e gruppi di giovani
passavano furtivamente di strada in strada alla ricerca di armi, quella del porto era una vicenda
militare che sembrava appartenere ad un altro mondo. Al futuro comandante sapista Nanni
Rebagliati, operaio portuale, le dieci navi autoaffondate parevano simboleggiare la paralisi stessa in
cui Savona si era progressivamente venuta a trovare. Su tutto gravava una sensazione diffusa di
impotenza e timore. A Finale Marina un reparto comandato da un maggiore e schierato nella piazza
principale in assetto di guerra si diede alla fuga alla notizia del prossimo arrivo dei tedeschi. “Si
vede - commentarono i finalmarinesi - che erano armati tutti contro di noi, e non contro i
tedeschi”11.
Gli episodi di resistenza da parte italiana si contarono sulla punta delle dita, ma vanno ugualmente
ricordati. A Vado Ligure un reparto di alpini e una colonna tedesca si fronteggiarono armi in pugno
dalle 11 alle 16 del 9 settembre presso il ponte sul torrente Segno. I nostri erano decisi a sparare se
necessario, pur di impedire il transito al nemico; giovani operai armati con fucili e una
mitragliatrice erano pronti a dare loro man forte per quanto possibile. Ma le notizie disastrose
comunicate da alcuni ufficiali indussero gli alpini a desistere, mentre gli operai si accorgevano di
aver recuperato armi preventivamente rese inservibili12. A Ferrania, in Val Bormida, con i tedeschi
già appostati sulla strada statale Savona – Torino, un reparto italiano di fanteria si trincerò con armi
pesanti nelle Distillerie Sice e vi rimase per giorni, appoggiato dalla gente del posto che riforniva i
soldati di viveri. Alla fine la mancanza di ordini e di una qualunque prospettiva spinse anche questi
coraggiosi a sbandarsi, chi verso casa, chi in montagna13. Esito tragico ebbe l’unico serio scontro tra
tedeschi e italiani nel capoluogo. Gli Autieri del 15° Reggimento, spalleggiati da una batteria
contraerea, combatterono per giorni fino all’esaurimento delle munizioni, poi dovettero arrendersi. I
tedeschi, inferociti, ne uccisero alcuni e deportarono gli altri14. Meno drammatica ma assai amara fu
la vicenda che si consumò al Colle di San Bernardo, tra Albenga e Garessio. Il colonnello Gerolamo
Pittaluga decise di trasferire verso i monti del Cuneese le forze schierate tra Ventimiglia ed
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Albenga15. Partita il pomeriggio del 9, la lunga colonna si sfilacciò tra sbandamenti e diserzioni per
poi attestarsi sul Colle di San Bernardo; ma la mattina dopo Garessio era già occupata da ingenti
forze germaniche. Vista la mala parata, non restava che trattare la resa. I tedeschi promisero la
libertà in cambio del disarmo; poi, con tipico senso dell’onore militare, deportarono tutti ad Acqui
Terme16, e da lì in Polonia nei tristemente noti stalag. Pochi furbi riuscirono a dileguarsi fra le
montagne: a Garessio si contarono 3000 prigionieri e un ingente bottino di armi leggere e pesanti17.
Non vi furono altri episodi di resistenza militare degni di nota. Nel volgere di due – tre giorni
l’Esercito italiano di stanza nel Savonese venne frantumato e disperso come polvere nel vento. I
tedeschi erano i nuovi padroni e lo fecero capire subito. Quando a Savona, la mattina del 9, il
portuale Mannorino Mannori lanciò contro un’autovettura tedesca una bomba a mano che non
esplose, i militari gli corsero dietro e lo catturarono. Il suo cadavere crivellato di proiettili fu
ritrovato giorni dopo a Montemoro, sulla strada per Cadibona18. Mannori e il soldato Boemio
Bertoletti ucciso da una fucilata in Corso Mazzini19 sono da considerarsi i primi caduti della
Resistenza savonese.
Frattanto già nella mattinata del 9 si riuniva febbrilmente nella sede dell’Associazione Combattenti
di Savona (da poco presieduta dall’avv. Cristoforo Astengo) il Comitato d’Azione Antifascista. Vi
presero parte una ventina di rappresentanti di tutti i partiti e quattro ufficiali (tre colonnelli e un
capitano dei Carabinieri). Questi erano latori di una singolare proposta del comando germanico, che
sarebbe stato disposto ad affidare la tutela dell’ordine pubblico in Savona a 100 cittadini scelti dal
Comitato stesso e armati dai tedeschi. Si trattava evidentemente di un’abile manovra volta a
compromettere le forze politiche democratiche con gli occupanti e al tempo stesso a tenere sotto
controllo cento antifascisti della città che certo sarebbero stati scelti fra i più noti ed influenti.
Inizialmente, per quanto possa sembrare incredibile, il Comitato parve ben disposto verso la
proposta tedesca, tanto da affidare al PCI, in quanto forza meglio organizzata (o più sacrificabile?),
il compito di scegliere i 100 nominativi. Grosse perplessità vennero comunque espresse da più di un
membro del Comitato. I comunisti si consultarono allora riunendo il proprio Comitato Federale; in
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tale sede Giancarlo Pajetta, in quei giorni a Savona, dichiarò tutta la sua contrarietà all’accordo con
i nazisti e lanciò la parola d’ordine della lotta armata e della ribellione. Confortati dalle parole
dell’esponente comunista, i membri del Comitato d’Azione Antifascista respinsero l’ambigua
offerta tedesca20.
Il clima si era fatto pesante. Con il passare dei giorni la Wehrmacht consolidò il suo potere sulla
regione con la consueta serie di manifesti bilingui e di volantini aerodiffusi che minacciavano la
pena di morte per qualunque minima violazione. In città la vita era blindata: il coprifuoco era
rigoroso, i cinema chiusi, le banche non potevano versare più di mille lire ai clienti21. Il mese di
settembre 1943 vide i tedeschi impegnati nelle seguenti attività: 1) caccia agli sbandati del disciolto
Regio Esercito e agli ex prigionieri di guerra fuggiti; 2) battaglia propagandistica con gli Alleati; 3)
rigenerazione delle autorità fasciste e coordinamento con le medesime. Procediamo con ordine.
L’aiuto dato dalle popolazioni dell’entroterra e della Riviera ai soldati fuggiti dai loro reparti per
non farsi catturare dai tedeschi fu qualcosa di commovente. Migliaia di uomini riuscirono a sfuggire
alle strette maglie della sorveglianza nazista con gli espedienti più vari. Il più semplice consisteva
nel procurarsi abiti civili presso qualche famiglia generosa e saltare sul primo treno per casa,
sperando di non incappare nei minuziosi controlli dei tedeschi, che fermavano chiunque mostrasse
giovane età, sana costituzione e si trovasse lontano dal proprio domicilio. In più, i fuggitivi erano
spesso traditi dagli scarponi militari22. Accadeva anche, durante queste ispezioni, che giovani donne
prendessero a braccetto i militari in abiti civili per distogliere da essi l’attenzione dei soldati
tedeschi. Alcuni, più furbi o più fortunati, si organizzavano con criterio. Rocambolesco fu, per
esempio, il ritorno a casa di Enrico De Vincenzi (poi l’ufficiale alle operazioni “Kid” nel
distaccamento “Torcello”) dalla Slovenia a Mestre e da lì a Milano con un falso tesserino da
ferroviere23. C’erano poi coloro che, lontani da casa, preferivano cercarsi un rifugio sicuro per far
passare la buriana e tornare poi dai propri cari alla chetichella. Riuniti in piccoli gruppi, quasi
sempre poco o punto armati, potevano contare sulla solidarietà di contadini e montanari che, in zone
isolate, si prestavano ad ospitarli temporaneamente a proprio rischio e pericolo. Lo stesso discorso
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vale a proposito dei prigionieri di guerra fuggiti l’8 settembre dai campi di concentramento (a Cairo
ne esisteva uno da cui riuscirono ad evadere alcuni jugoslavi). Si ritiravano in zone impervie dove
sopravvivevano con l’aiuto dei contadini locali. Alcuni fortunati – ufficiali britannici, di solito –
riuscivano a farsi condurre fino in Svizzera o in Corsica per il tramite di organizzazioni legate ai
servizi segreti alleati, come la OTTO24. La maggior parte si aggregò invece con gli sbandati italiani
e i “ribelli” politicizzati per formare le prime bande partigiane, anche se tale dinamica nel Savonese
propriamente detto fu scarsa e tardiva. In ogni caso, dato il numero complessivo degli sbandati, la
loro cattura fu un fenomeno che si protrasse per mesi, e se il grosso degli arresti avvenne nelle
prime settimane dopo l’8 settembre la condizione dei superstiti alla macchia si aggravò con il bando
Graziani, che ne fece dei disertori e quindi dei “banditi”. Si può dire che nei primi mesi
dell’occupazione tedesca in Liguria, dopo gli ebrei, i militari sbandati, italiani e non, siano stati
oggetto della caccia più metodica e affannosa.
Quanto alla battaglia propagandistica con gli Alleati, essa fu combattuta per lo più a base di
manifesti e volantini aerodiffusi che invitavano gli sbandati a presentarsi, i fascisti a rialzare la testa
e i sovversivi a non osare nulla contro il potere nazista se volevano salva la vita. “Il Duce è con
noi!” titolavano i volantini lanciati il 15 settembre sulla costa ligure e sull’entroterra25. Ancora il 17
e 18 settembre la Luftwaffe inondò Varazze, Finale, Alassio e Savona di volantini con minacce agli
sbandati, a chi aiutava i soldati alleati evasi, a chi osasse sabotare la macchina bellica tedesca26.
Dopo il bastone, la carota: i volantini lanciati il 21 settembre invitavano ufficiali e soldati italiani ad
entrare nella Wehrmacht27. Il giorno seguente i volantini nazisti deprecavano il “biasimevole
comportamento della Flotta italiana”28. In sostanza i testi avevano il duplice scopo di blandire e
intimidire una popolazione ancora oscillante e “recuperabile”. Gli obiettivi fondamentali restavano
quelli di tener buoni con le minacce i civili e di rintracciare e neutralizzare gli sbandati, possibili
nuclei di germinazione di unità “ribelli”29. Quanto alla propaganda alleata, fino alla fine del mese
essa fu molto intensa. Migliaia di volantini furono lanciati dagli aerei britannici e statunitensi. I più
interessanti invitavano civili e militari ad unirsi per cacciare i tedeschi “eterno nemico” degli
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italiani, riportavano incoraggiamenti del Presidente F. D. Roosevelt ai democratici italiani,
chiedevano alla popolazione di aiutare i militari alleati fuggiti dai campi di prigionia arrivando
addirittura a promettere ricompense in denaro30. Se nella propaganda tedesca prevale la
componente… “pedagogica” (richiami, bacchettate, ammonizioni, blandizie) in quella alleata si
nota un superficiale ottimismo che lo scrivente ritiene legato alla gran fretta di sfruttare l’emozione
del momento e le “leggende” diffuse tra la popolazione (imminente crollo della Germania, e altre
che citerò in seguito).
Infine, il reinsediamento delle autorità fasciste, voluto da Hitler per opportunità politica ma anche
per amicizia personale verso Mussolini, fu messo in pratica dai tedeschi con molta calma, perché
ormai essi diffidavano di qualsiasi italiano che non fosse alle loro dirette dipendenze. Il 15
settembre Mussolini aveva annunciato la nascita del Partito Fascista Repubblicano, con Alessandro
Pavolini per segretario. I compiti del nuovo partito consistevano essenzialmente nell’appoggiare i
tedeschi e nel dare la caccia “ai vili e ai traditori” del 25 luglio. E’ sottinteso che per gli antifascisti i
giorni “felici” del carcere e del confino erano finiti; ora, con le SS e la Gestapo in casa, c’erano il
lager e la fucilazione. Mentre i fascisti si riorganizzavano in squadre punitive per far rimangiare a
qualcuno l’esultanza del 25 luglio, approfittando delle identificazioni operate in tale circostanza
dalla Questura31, i tedeschi concessero alle Forze Armate italiane di tornare ad esistere, se non altro
almeno per neutralizzare tutti quei militari che non erano riusciti a catturare. Gli ufficiali e i soldati
che l’8 settembre si erano trovati in servizio nel Savonese dovevano presentarsi entro il 27 dello
stesso mese alla caserma dell’11° G. A. F. a Savona o alla caserma – deposito del 29° Artiglieria ad
Albenga32.
Prima che la macchina dell’oppressione nazifascista si chiudesse come una morsa sulla società
savonese si ebbe un ultimo episodio di democrazia “badogliana”. Con la città già in mani tedesche
il Prefetto di Savona Defendente Meda, che aveva sostituito Enrico Avalle il 6 settembre, invitò i
rappresentanti degli operai dell’ILVA e di altre fabbriche ad un colloquio con il nuovo
Commissario ai sindacati, Berio. Parteciparono alla riunione anche il direttore dell’ILVA, Grosso, il
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suo vice, Gigli, e il Presidente dell’Unione degli Industriali33. A nome delle maestranze Giuseppe
Ghiso e Agostino Siccardi dichiararono che i lavoratori non intendevano accettare supinamente
l’occupazione nazista ed erano contrari a qualunque intromissione tedesca nella vita delle aziende;
essi inoltre avrebbero lottato per la pace e la libertà con ogni mezzo. Il Prefetto espresse il suo
apprezzamento, ma di lì a poco perse a sua volta il posto. A metà settembre il lavoro, rimasto a
lungo sospeso, riprese regolarmente in tutte le fabbriche. Gli operai sciolsero le Commissioni
interne e serrarono i ranghi. La lunga notte era appena all’inizio.
I. 2. Fascisti repubblicani e ribelli
Se il nuovo Stato fascista repubblicano non nacque prima del 27 settembre, si può dire che la
Milizia, braccio armato del fascismo del Ventennio, non morì neppure durante i “45 giorni” di
Badoglio. Molti suoi appartenenti, infatti, si erano limitati in quelle settimane a smettere la camicia
nera per indossare la divisa grigioverde dell’Esercito con la compiacente copertura dei comandi
militari. Già il 9 settembre essi poterono proporre ai tedeschi la loro collaborazione. Il 27,
rispondendo al bando di presentazione alle caserme per i militari, la MVSN si ricostituì anche de
iure. Il Comandante della II Zona Legionaria, Ferraudi, poté così nuovamente organizzare ed
inquadrare la Milizia in tutte le quattro province liguri, con la piena collaborazione tanto degli ex
militi passati nell’esercito quanto di coloro che erano stati momentaneamente congedati da
Badoglio. Questi reparti eserciteranno funzioni di ordine pubblico e vigilanza sui servizi civili, ma
saranno altresì addetti, come in precedenza, all’artiglieria contraerea. Contemporaneamente si
completava l’insediamento in ogni città ligure degli organismi amministrativi tedeschi destinati a
sovrintendere lo sfruttamento delle risorse locali, dalla Militaerverwaltung alla Todt34.
Gli inizi del mese di ottobre videro una febbrile attività delle neonate autorità repubblicane, in
particolare sul versante del reclutamento di uomini per le Forze Armate della RSI. Grande risalto fu
dato dalla stampa all’adunata tenuta dal Maresciallo Graziani il 2 ottobre al Teatro Adriano in
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Roma per perorare la rinascita di un esercito nazionale35. Aerei tedeschi sorvolarono ancora una
volta le coste liguri spargendo volantini che invitavano gli italiani a lavare l’onta del tradimento del
Re e di Badoglio arruolandosi “per l’onore della Patria”36. Largamente pubblicizzati erano anche gli
arruolamenti nella Decima Mas del comandante Borghese, nella costituenda Marina fascista, nelle
stesse Forze Armate germaniche37. I successivi bandi richiamarono man mano alle armi tutti coloro
che vi si erano trovati fino a poco tempo prima, e quello con scadenza 15 novembre chiamò
all’arruolamento l’ultima aliquota della classe ’24 e l’intera classe ’2538. Altri bandi invitavano gli
operai a mettersi a disposizione delle aziende che lavoravano per l’Organizzazione Todt39.
Fu solo alla metà di ottobre del 1943 che i tedeschi optarono definitivamente per lasciare la Liguria
all’amministrazione italiana anziché annetterla di fatto in qualità di “zona d’operazioni”, come
avevano fatto nelle Alpi centrorientali40. Ebbe così via libera l’insediamento in tutte le
amministrazioni locali dei funzionari del nuovo Stato repubblicano. A Savona il prefetto di nomina
badogliana Defendente Meda fu collocato a riposo e sostituito dal Capo della Provincia41 Filippo
Mirabelli, uomo destinato a pessima fama. Inizialmente questi tentò di riannodare il discorso con le
masse operaie invitando in Prefettura gli ex componenti delle disciolte Commissioni interne e
facendo intravedere loro buone possibilità di collaborazione42. Si palesava in tal modo il timore
delle autorità fasciste circa gli orientamenti dei lavoratori delle industrie, sempre più riottosi con il
passare delle settimane. Fallito il tentativo di Mirabelli, fu il Commissario della Federazione del
PFR di Savona, Bruno Bianchi (insediatosi il 7 ottobre43), a tentare di trovare un modus vivendi con
la classe operaia savonese. Bianchi sfruttò a fondo le tesi sociali agitate in quei giorni dai fascisti di
sinistra, i quali avevano aderito con sincero entusiasmo alla Repubblica Sociale sperando di potervi
finalmente realizzare i loro disegni rivoluzionari e anticapitalistici. Già nel manifesto affisso
all’inizio di ottobre per rendere nota la costituzione della Federazione savonese del PFR, Bianchi
invitava fascisti e antifascisti a “riporre ogni rancore e desiderio di vendetta”, a “bandire ogni
violenza” perché “il partito fascista repubblicano (…) si propone di costituire finalmente44 un
autentico regime proletario45 in cui lavoro e popolo siano i fattori essenziali”. Seguono avvertimenti
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contro “disonesti”, “profittatori”, “cacciatori di cariche” e “violenti”46. Tanta buona volontà non
bastò tuttavia a far recedere gli antifascisti savonesi dal loro fermo proposito di opporsi al fascismo
risorto sulle punte delle baionette tedesche. Con grande impegno il Federale prese contatti personali
con i dirigenti del movimento operaio savonese, giungendo persino, dopo reiterate richieste, ad
incontrarsi con l’operaio comunista ed ex amministratore della Cassa Mutua dell’ILVA Giuseppe
Ghiso e con altri tre rappresentanti operai. Bianchi li invitò a collaborare promettendo loro
l’immunità e asserendo di rispettare le loro idee che “in fondo condivideva”. Niente da fare.
Ancora, il tenace funzionario fascista repubblicano andò a parlare in fabbrica con venti operai
“scelti fra i più influenti”, ma anche questa volta restò vox clamans in deserto47. Inutili si
dimostrarono anche le promesse di una svolta sociale del fascismo, finalmente permessa dalla
caduta della monarchia e del suo entourage reazionario, contenute nel primo numero della
“Gazzetta di Savona”, organo della Federazione Fascista savonese, uscito ai primi di novembre48.
Mi si consenta ora qualche riflessione sulla scelta compiuta da molti di servire o comunque
accettare lo Stato fascista repubblicano. Dopo vent’anni di propaganda e indottrinamento, è
innegabile che per un giovane non ancora passato per l’esperienza della guerra fosse più facile
essere fascista piuttosto che antifascista, a meno di tradizioni familiari di segno contrario. A parte i
figli degli squadristi della prima ora, le Forze Armate repubblicane poterono dunque contare anche
su una “zona grigia “ discretamente ampia di giovani sedicenti apolitici, o addirittura di ideali
politici poco affini al fascismo, che, spinti in parte dal desiderio di avventura, in parte da un sincero
patriottismo accuratamente inculcato negli anni del regime, risposero al richiamo della Repubblica
Sociale, la quale tra l’altro, non va dimenticato, rappresentava, per chi era da sempre incline al
rispetto verso l’autorità costituita, l’unica Italia possibile sotto il tallone nazista. Su scelte siffatte si
baseranno nel dopoguerra gli epigoni neofascisti della RSI nel tentativo di dare retrospettivamente
ad essa una coloritura apolitica e nazionale49, anziché schiettamente fascista. A grandi linee, le
persone che aderirono più o meno scopertamente alla RSI appartenevano ad alcune ampie categorie.
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Una, come accennato sopra, era composta di giovani e giovanissimi cresciuti nel culto del Duce e
della Patria durante il regime. Un’altra categoria, affine alla prima, era quella dei giovani fascisti di
sinistra ansiosi di realizzare, ora che la monarchia era stata abbattuta, la rivoluzione antiborghese e
anticapitalistica, e quindi di combattere gli invasori anglosassoni. C’erano poi molti borghesi e un
certo padronato, fautori di un governo d’ordine rappresentato più dalle baionette tedesche che dai
politici di Salò. Ovviamente numerosissimi affluirono nelle file repubblicane gli ex esponenti del
regime, in particolare gli scontenti e coloro che non erano riusciti a ritagliarsi un proprio spazio di
potere nelle gerarchie del Ventennio. I burocrati si adeguarono in gran parte alla RSI, se non altro
per non perdere i loro piccoli privilegi. Infine, nota dolente, gli avventurieri, spesso autentici
delinquenti amnistiati perché entrassero nei vari corpi armati fascisti; e, fatto da non sottovalutare,
molti ex appartenenti a corpi d’élite delle Forze Armate (Decima Mas, paracadutisti, ecc.) ed
ufficiali che avevano fatto carriera durante il Ventennio. Questo composito blocco sociale, a Savona
come altrove, fu il sostegno principale della RSI. A tutti i soggetti citati va aggiunta un’ulteriore
categoria formata da coloro che si legarono direttamente ai tedeschi scavalcando l’autorità fascista:
un manipolo di militari, spie, poliziotti, capitani d’industria, doppiogiochisti senza scrupoli, spinti
più spesso da incentivi materiali contingenti che da un’intima adesione alla Weltanschauung
nazista.
Chiusa la pagina dedicata alla formazione del potere saloino, passiamo ad esaminare l’azione
antifascista dopo l’8 settembre e le sue conseguenze. Come abbiamo visto, le incertezze iniziali del
Comitato d’Azione Antifascista furono spazzate via dalla ferma posizione assunta dai comunisti
savonesi, ormai decisi ad affrontare la lotta clandestina. Il PCI, dotato di un’organizzazione
ramificata in tutti i principali centri della Provincia, era indubbiamente la forza politica più pronta a
suscitare e sostenere un movimento guerrigliero antifascista. Tra l’altro, due suoi esponenti,
Amedeo Isolica e Libero Bianchi, avevano combattuto nella guerra di Spagna50.Così, già in
settembre, nuclei di militanti comunisti furono inviati in alcune località montane della provincia a
formare le prime unità “ribelli”. Destinati alla montagna furono in particolare coloro che per noti
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precedenti politici non avrebbero potuto proseguire l’attività in città; tanto più che i fascisti avevano
compilato un elenco di 200 “sovversivi pericolosi per l’ordine e la sicurezza dello Stato”, ed
attendevano solo l’assenso del Comando tedesco per “impacchettarli”51. Incaricato di avviare alle
basi di montagna i militanti comunisti era Giovanni Gilardi: egli impartiva loro le prime istruzioni,
indicava le località “sicure” dove insediarsi, spiegava come mantenere i contatti. In tal modo una
trentina di ex operai, ciascuno con 200 lire fornitegli dal PCI, salirono da soli o a piccoli gruppi
verso i monti dell’entroterra52. Furono quattro i nuclei partigiani a totale o prevalente orientamento
comunista che si formarono in settembre nel Savonese53.
1. A Santa Giulia, sulla “langa” che divide la Bormida di Spigno dal torrente Uzzone, si
riunirono Angelo Bevilacqua, Pietro Toscano, Mario Sambolino, G. Recagno, Nino Bori,
Aldo Tambuscio e pochi altri54 cui, entro il 25 settembre, si unirono dei soldati sbandati del
Regio Esercito. Il gruppo difettava gravemente di armi e munizioni e vi erano molte
discussioni circa la linea d’azione da seguire.
2. Alla cascina Smoglie dell’Amore, non lontano dal paese di Montenotte, salirono Giovanni
Carai, A. Sibaldi, Giovanni Aglietto, Francesco Bazzino, Libero Bianchi, Angelo
Tambuscio e Augusto Bazzino.
3. Alla cascina Bergamotti, sopra l’abitato di Bormida, si ritrovarono Angelo Carai, Ugo Piero,
Renzo Guazzotti, Piero Molinari, Valentino Moresco, Giuseppe Regonelli e Attilio Folco
appena liberato dal confino di polizia di Ventotene.
4. Sopra i paesini di Montagna e Roviasca, al Teccio del Tersè, si stabilirono Gino De Marco,
Pietro Morachioli, Guido Caruzzo, Francesco Calcagno, Giuseppe Lagorio.
Con il passare dei giorni altri uomini, tra cui Miniati, Tamagnone e Rebella, raggiunsero l’uno o
l’altro gruppo55. Sempre nelle sue “Cronache militari della Resistenza in Liguria”, Gimelli riferisce
infine che sul finire del mese di settembre una ventina di giovani vadesi salirono alle Tagliate, sopra
Mallare, per poi disperdersi parte verso Bormida, parte verso il Monregalese56. Non mancavano altri
nuclei dispersi, non inquadrati politicamente.
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Non furono tuttavia queste le prime bande partigiane nate in provincia di Savona. I primi a
muoversi erano stati gli azionisti. Il 9 settembre i fratelli Emilio e Leandro Botta, insieme a
Giovanni Mantero, Giuseppe Francia, Carlo e Giuseppe Trombetta, si impadronirono delle armi
della Milizia di Dego lasciate incustodite al Bricco Ridotta. Il nucleo era comandato dall’avv.
Emilio Botta, classe 1885, che prese il nome cospirativo di “Bormida”. Pochi giorni dopo raggiunse
i ribelli azionisti il notaio Calogero Costa “Accursio”, che ne divenne il commissario politico. La
zona dove si aggirava la banda era quella di Dego – Santa Giulia – Brovida
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La terza componente della Resistenza savonese, quella “autonoma”, nacque anch’essa verso la metà
di settembre, quando attorno a Giuseppe Dotta “Bacchetta” e al dottor Angelo Salomone “Katia” si
formò a Ravagni, presso Rocchetta di Cairo, un nucleo partigiano
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La Resistenza savonese esordì dunque subito divisa in tre anime politiche: quella comunista, poi
garibaldina, destinata ad attrarre anche molti socialisti e cattolici, quella azionista, capeggiata da
noti professionisti, e quella autonoma, sempre più un’enclave “maurina” in terra ligure. Va detto
che autonomi ed azionisti operarono spesso in tale completa sinergia da risultare quasi
indistinguibili, posto che l’azionismo ligure aveva connotazioni meno progressiste rispetto ad altre
regioni. Inizialmente i gruppi di resistenti badarono essenzialmente a non attirare l’attenzione.
Mancando di armi, munizioni, viveri, denaro ma soprattutto di esperienza militare specificamente
orientata alla guerriglia, i “ribelli” si limitarono per parecchie settimane a rinsaldare le basi e i
collegamenti con il capoluogo, dove si andavano lentamente formando gli organismi direttivi della
guerra partigiana. Un flusso sottile ma continuo di piccole quantità di armi e denaro affluiva ai
nuclei imboscati sempre in attesa di raggiungere una consistenza numerica e una capacità di fuoco
tali da poter entrare in azione. In tali condizioni, le uniche attività possibili erano l’addestramento
alla conoscenza del territorio e piccoli sabotaggi di poco conto (taglio di fili telefonici ecc.). Il
recupero di armi era un’attività rischiosa e poco praticata.