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Introduzione
Da qualche anno a questa parte si assiste ad una rinnovata attenzione delle aziende al
presidio dei punti vendita al dettaglio, sempre più curati nei minimi dettagli soprattutto
negli aspetti estetici e planimetrici; a volte al punto tale che la ricerca di impatto a
livello comunicazionale prevale sulla necessità di generare utili immediati dalle vendite.
Dietro a questa tendenza si cela un generale cambiamento della concezione del punto
vendita.
Da sempre, il negozio è stato considerato prettamente per il suo ruolo di raccordo tra
produzione e consumo (come strumento pratico); oggi è diventato un mezzo di
comunicazione da affiancare alle tradizionali campagne di advertising, nel susseguirsi
dei momenti caldi per l’impresa, sfruttato in particolare per le opportunità di
comunicare più intensamente il brand e per incontrare personalmente il cliente (è
diventato, dunque, uno strumento strategico).
Tale cambiamento di ruolo rientra nel più ampio processo strategico di evoluzione delle
attività di marketing in senso relazionale, che significa orientarle a stabilire, mantenere
e potenziare la relazione con il cliente.
Questa tesi si propone di indagare l’evoluzione del negozio da luogo di transazione
economica a luogo di relazione dalle potenzialità comunicative, alla luce di un
fenomeno allo stesso tempo rappresentativo pur tuttavia sembrando opposto: il
temporary shop, ovvero un negozio avviato appositamente per rimanere aperto poco
tempo.
Si tratta di un fenomeno complesso che può declinarsi in diverse forme. Queste
verranno descritte nel primo capitolo per poi concentrarsi sulle componenti di base
2
comuni alle diverse tipologie e sintetizzabili nella macro-categoria temporary shop. Nel
contempo si ricostruirà la genesi e la diffusione della formula.
L’analisi dei fenomeni che hanno inciso sul ruolo e, più in generale, sull’essenza del
punto vendita verrà sviluppata nel Capitolo II alla luce di alcune riflessioni sullo
scenario contemporaneo, secondo un’ottica che guarda da un lato alle implicazioni
aziendali - sulle quali incide lo stato continuamente mutevole del contesto stesso e
l’attuale momento di difficoltà economica -, e dall’altro all’evoluzione del consumatore,
delle sue abitudini di consumo e delle sue aspirazioni.
Si traccerà, poi, la fenomenologia parallela all’evoluzione del punto vendita, andando a
definire i format intermedi tra negozio in senso tradizionale e temporary shop, quali:
moving shop, flagship store, concept store; da qualche anno entrati prepotentemente a
far parte della realtà distributiva nazionale ed internazionale. L’ulteriore intento è di
dimostrare che le caratteristiche del punto vendita assumono un ruolo strategico
tutt’altro che marginale, che si ripercuote sulla creazione di nuove sinergie tra brand e
retail.
Il terzo capitolo illustra il percorso analitico e operativo che ogni retailer dovrebbe
condurre preventivamente la decisione di organizzare un temporary shop.
Nella prima parte si sono teorizzati i punti di forza e le criticità che sottostanno
l’apertura di un negozio temporaneo di modo che, nella seconda parte, si possa più
lucidamente definire una traccia delle fasi operative pratiche relative all’organizzazione.
Nel quarto capitolo, infine, verranno messe a fuoco le fasi della realizzazione richiedenti
l’impegno comunicativo. La prima parte si propone di indagare il contributo svolto dalla
3
componente fisica e spaziale del negozio (c.d. store image), intesa come veicolo di
significati e di relazioni.
La seconda parte del capitolo focalizza sui mezzi e i contenuti di comunicazione di cui
avvalersi per promuovere al pubblico la presenza dell’iniziativa, soffermandosi sulle
modalità pubblicitarie ritenute più idonee.
La store image è sostanzialmente il nucleo delle attività di allestimento che impongono
l’attenzione a ricreare un’adeguata cornice ai processi di cooperazione tra azienda e
individuo, determinandone l’effettivo raggiungimento dei risultati.
Il tema dell’organizzazione dell’iniziativa verrà trattato in ottemperanza ai limiti
imposti e a quelli prefissi, quindi analizzando i vari aspetti in modo proporzionato agli
obiettivi del testo, ovvero cercando di capire il ruolo che ciascuno di essi gioca nello
spazio. Si lascia al lettore l’approfondimento dei temi strategici e di design a testi più
specialistici.
L’intero scritto è corredato da una serie circoscritta di esempi, posti al fine di illustrare
il più esaustivamente possibile le applicazioni concrete di tale strumento.
Gli obiettivi del presente lavoro sono sostanzialmente due:
- indagare le componenti specifiche di questa innovazione di marketing,
concentrandosi sugli elementi comunicativi, allo scopo di contrastare la scarsa
conoscenza diffusa del fenomeno, ancora in fase nascente e quindi poco presente
nei testi settoriali.
- Cercare di capire se si tratta di una moda del momento o di uno strumento con
delle potenzialità, sulla base della seguente domanda: come può riuscire
4
qualcosa di effimero per natura a stabilire un legame solido e generare,
direttamente o indirettamente, degli utili?
A motivo della novità del fenomeno, l’intento è stato quello di condurre un’indagine sul
campo così da procedere alla scrittura dei capitoli III e IV sulla base della raccolta
omogenea di dati completi, da elaborare per approntare case history. Tuttavia, la
mancata collaborazione dei riferimenti ha determinato un’insufficienza di materiale per
condurre un’indagine capace di attenersi a criteri e parametri sistematici e scientifici. Di
conseguenza, l’attività di ricerca ha seguito la direzione empirica e si è articolata in due
fasi:
1. Si è proceduto personalmente alla raccolta di dati effettuando plurime visite ai
temporary shop organizzati a Milano, per indagare le implicazioni dello
strumento e in particolare per rendersi conto dello spessore della dimensione
comunicativa dello stesso. Nel perseguire tale studio ci si è avvalsi anche delle
enormi risorse del web.
2. Ci si è attenuti a dati teorici provenienti dalla letteratura di settore, sia specifica
del fenomeno [Catalano Zorzetto, 2010] che generale, relativa alla gestione del
punto vendita in chiave relazionale [Castaldo Mauri, 2010].
5
I. Che cos’è il temporary shop? Il punto di vista pratico
L’espressione inglese temporary shop significa letteralmente “negozio temporaneo,
provvisorio”.
1
Più specificamente si tratta di un negozio la cui data di chiusura è fissata a priori e la
cui permanenza è circoscritta a limitati periodi di tempo che possono variare da
qualche mese a qualche settimana, a volte addirittura esaurirsi in pochi giorni.
Le location predilette sono ubicate nei quartieri centrali delle grandi città, cui fa
riferimento un pubblico sensibile alle tendenze e allo shopping.
Esse consistono non solo in ordinari locali commerciali, ma anche in spazi non
ordinari e in qualche modo suggestivi, in ragione di una delle prerogative del
temporary shop: la non-convenzionalità volta a toccare la sfera emotiva di chi lo
visita. Può capitare, di conseguenza, che iniziative di questo tipo si insidino in
fabbriche abbandonate, loft disabitati, chiese sconsacrate, teatri, musei e gallerie
d’arte. Una variante molto adottata è il container, trasformato in spazio espositivo di
pregio, con arredi di design e super-accessoriato.
I.1. Temporary shop: un negozio-evento
Come verrà ulteriormente illustrato nel corso dell’indagine, il temporary shop va
ben oltre la logica del negozio inteso come spazio dedicato alla vendita di beni e alla
prestazione di servizi, poiché al suo interno non viene svolta solo mera attività
commerciale, ma viene realizzata una vera e propria attività di comunicazione e il
mezzo atto a veicolarla è lo spazio stesso.
1
Nell’uso italiano, gli anglicismi «temporary shop» e «temporary store» vengono usati in buona sostanza
come sinonimi, alternandoli tra loro. In realtà, è bene sottolineare, che i due termini identificano entità
che divergono per la metratura dello spazio cui si riferiscono; lo shop inglese è infatti uno spazio
commerciale di più modeste dimensioni rispetto allo store, che spesso si sviluppa su più piani. Pertanto,
nello svolgere della ricerca, si utilizzerà il solo termine temporary shop, in coerenza con la sua
predominanza nella realtà italiana.
6
Il temporary shop deve essere concepito come un evento; in questo senso vale sia la
regola che vuole la sua presenza limitata nel tempo, sia la decisione di integrare nel
progetto una serie di iniziative collaterali poste ad arricchire la sua breve vita, come:
serate con esibizioni di ospiti famosi, laboratori e consulenze tenute da professionisti
ed esperti, servizi alla persona.
Tali strategie puntano ad attrarre gli astanti suggerendo loro l’idea di esclusività,
quindi puntando su quel desiderio, più o meno latente in ognuno di noi, di prendere
parte ad un’esperienza elitaria.
I.2. Origini della formula: breve cronistoria del temporary shop
«La prima manifestazione ufficiale del fenomeno […] risale al 2000»
2
ad opera di
Russell Miller, un professionista delle relazioni pubbliche che, partendo dalla
necessità del settore distributivo di innovarsi in senso creativo, a New York diede
vita a “Vacant”.
Come suggerisce il nome si tratta di un negozio allestito in uno spazio abbandonato
e occupato abusivamente.
In netta contrapposizione con l’ambiente di vendita, Miller decise di
commercializzare all’interno solo prodotti di marche affermate o designer
emergenti, disponibili in quantità limitate e realizzati in edizione limitata, e di
estendere questa logica all’esistenza stessa del punto vendita definendo
preventivamente la data di chiusura allo scadere di un mese.
2
Cattaneo A., Il temporary shop: Nuove forme di comunicazione e vendita in sintonia con lo spirito dei
tempi, Lupetti, Milano, 2010, p. 131
7
Al termine di questo periodo, riscontrando i risultati positivi, Miller decise di
ripetere l’esperienza in altri continenti, in modo da rendere Vacant un modello di
riferimento in grado di rompere gli schemi del tradizionale punto vendita
3
.
L’originalità dell’esperienza, infatti, non mancò di attirare l’attenzione dei grandi
brand cosicché in pochi anni gli emuli di Vacant si moltiplicarono.
Nel 2003 iniziative simili comparirono timidamente in Inghilterra e da lì ebbero
rapida diffusione nelle principali capitali europee, grazie soprattutto al contributo di
Rei Kawakubo, fondatrice dell’azienda giapponese di moda Comme des Garçons,
contraddistintasi fin dal debutto per lo stile stravagante in senso avanguardistico e
l’impronta non-convenzionale.
«Anche l’architettura dei suoi negozi è sempre stata totalmente radicale, così come
il suo approccio estetico ai capi»
4
. Kawakubo nel 2004 volle esprimere per mezzo
dello spazio di vendita la fugacità intrinseca alle collezioni di moda, causata dalla
logica della stagionalità.
Aprì così il primo guerrilla store in Germania, a Berlino, che trae dal predecessore
Vacant la tecnica dell’apertura limitata nel tempo ma utilizzata come strategia di
guerrilla marketing
5
e integrata con altre attività di forte impatto; come la scelta di
lasciare gli spazi occupati così come li si trovava: all’interno improvvisando
l’esposizione degli abiti e all’esterno non cambiando neppure l’insegna.
3
Informazioni tratte dai siti:
La Repubblica.it: Ferrari A., Ecco il negozio itinerante l’ultima follia dello shopping, 20/08/2003,
http://www.repubblica.it/2003/h/sezioni/esteri/negozio/negozio/negozio.html
Chicago Tribune.com, Vacant: A very brief history, 26/09/2004
http://articles.chicagotribune.com/2004-09-26/features/0409260045_1_levi-limited-edition-vacant
4
Marenco Mores C., Da Fiorucci ai guerrilla stores: Moda, architettura, marketing e comunicazione,
Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 141
5
Guerrilla marketing: particolare approccio di comunicazione rientrante nella sfera del marketing; ha lo
scopo di massimizzare la capacità di persuasione dei consumatori, mettendo in scena nel contesto urbano
iniziative incisive perché spiazzanti e provocatorie.
Si rimanda al capitolo II, p. 40 per ulteriori approfondimenti.
8
Il primo guerrilla store fu infatti aperto in una storica libreria abbandonata, il cui
interno si presentava così: «Mobilio da mercato delle pulci e tubi dell’acqua usati
come appendiabiti, su cui sono appesi in una logica random […] collezioni
mescolate e opere di artisti e designer locali […]»
6
.
Discendono dalla filosofia guerrilla anche la scelta della zona dove collocare la
location - che ricade più spesso sulla periferia delle grandi città, e non sulle vie dello
shopping - e quella di gestire l’evento col solo ausilio del web - col sito
www.guerrillastore.com come unico organo di comunicazione, dove è segnalato
l’elenco dei guerrilla store che apriranno in successione in tutto il mondo.
A sancire le regole di questa nuova formula fu redatto un vero e proprio manifesto
programmatico. Tra queste, la prima dispone la durata tassativa di un anno per
ciascun guerrilla store
7
.
In Italia il fenomeno approda nel 2005 a Milano, punto nevralgico nazionale e
mondiale della moda e del design, quindi attitudinalmente predisposto a
sperimentare nuove potenzialità ad essi correlate.
L’antesignano fu infatti un marchio di moda, Levi’s,
8
seguito dalle aziende leader
operanti nei diversi settori del mass market: dall’elettronica alla cosmesi,
dell’editoria all’alimentare.
6
Marenco Mores C., Da Fiorucci ai guerrilla stores: Moda, architettura, marketing e comunicazione,
Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 149
7
Ivi, p. 147
Seconda regola: gli spazi interni manterranno il loro aspetto; terza regola: la location scelta sarà il più
possibile lontana dalle vie più commerciali; quarta regola: i capi in vendita non proverranno solo dalla
nuova collezione, ma anche da collezioni passate e da altri marchi che fanno capo a stilisti emergenti;
quinta regola: la partnership prevede che gli affiliati paghino l’affitto del locale, mentre Comme des
Garçons si impegna al ritiro della merce invenduta.
8
Il Levi’s Temporary Store rimase aperto dal 15 luglio al 31 dicembre 2005, in Corso Vittorio Emanuele
a Milano. La ragione dell’iniziativa fu la presentazione di nuove collezioni di jeans, e un’anticipazione
del nuovo design apportato ai punti vendita monomarca Levi’s d’Europa.
Da: Fashion Magazine.it, Levi’s inaugura sabato a Milano il primo temporary store in Italia, 14/07/2005,
http://www.fashionmagazine.it/news/pages/show.prl?&id=7568
9
Come per tutti i fenomeni di mercato, fu con l’adesione delle grandi marche del
largo consumo - come Nivea, Fiat, Barilla - che il temporary shop ricevette
definitiva istituzionalizzazione.
I.2.1. Diffusione del fenomeno
Nel nostro Paese, dunque, il temporary shop è una forma commerciale relativamente
recente, che tuttavia ha mostrato fin da subito i segni di una crescita costante.
Comincia ad assumere una certa rilevanza nel 2008, anno in cui si sono contati una
settantina di temporary shop in Italia, dei quali una cinquantina nella sola città di
Milano.
Nel 2009 la diffusione comincia ad interessare anche altre città del Nord Italia,
spostandosi gradualmente verso il Sud della penisola.
Ad oggi costituiscono piazza commerciale per l’organizzazione di temporary shop
le città di Torino, Cremona, Parma, Firenze, Roma, Napoli, Catania, nonché località
turistiche come Alassio, Rimini, Forte dei Marmi, Porto Cervo. Rimane tuttavia a
Milano lo scettro di “capitale italiana” del fenomeno, in ragione oltre della forte
vocazione commerciale della città riconosciutale internazionalmente, anche del
profilo del consumatore medio milanese: «questa porzione di pubblico è da un lato
più rapida nell’assorbimento delle mode e nell’apprendimento dell’offerta di
mercato, e dall’altro più disponibile ad adottare per prima comportamenti e scelte
differenti dal resto del mercato»
9
.
Si osserva come, in generale, la diffusione del fenomeno rifletta la localizzazione
dei suoi target di riferimento primari: tipicamente consumatori metropolitani, quindi
9
Catalano F., Zorzetto F., Temporary Store. La strategia dell’effimero: come comprendere un fenomeno
di successo e sfruttarne le potenzialità, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 16
10
naturalmente esposti agli stimoli del mercato, tanto da diventare essi stessi strumenti
di diffusione di nuove mode e tendenze.
Si stima che dal 2008 ad oggi circa cinquecento aziende abbiano organizzato un
temporary shop a Milano, per la durata media di trenta giorni. Di queste, il 70%
opera nei settori della moda e del design
10
.
Per quanto riguarda l’estero, dal Regno Unito, agli Stati Uniti, al resto d’Europa
l’ufficializzazione del fenomeno è altrettanto evidente. Tuttavia, essendo ancora alla
fase iniziale del ciclo di vita, pare ancora presto per tracciare le eventuali
similitudini o differenze tra le diverse realtà.
I.2.2. L’associazione di settore
Con la costante affermazione della tendenza si rese necessario porre in essere
un’organizzazione di natura sindacale, che regolamentasse questo nuovo settore; a
maggior ragione che, a conseguenza dello straordinario successo, si moltiplicò l’
offerta di spazi ed operatori dedicati a questo business.
Fu così che nel maggio 2008 fu fondata Assotemporary, impostasi come riferimento
istituzionale, con l’obiettivo di supportare e promuovere le tipologie commerciali
caratterizzate dalla temporaneità.
Sorta nell’ambito di Assomoda
11
, a seguito dell’adesione di un gruppo di
imprenditori attivi nel temporary, ad oggi (luglio 2011), conta ottantacinque soci ed
ha esteso il proprio ambito operativo, affiancando ai negozi temporanei altre
formule attinenti ai servizi commerciali caratterizzate dalla temporaneità, come i
10
Dichiarazione rilasciata da Massimo Costa (segretario generale Associazione di settore temporary
shop) alla sottoscritta, Milano 04/07/2011
11
Associazione nazionale degli agenti, distributori e showroom della moda, nonché organo di
Confcommercio – Confederazione Generale Italiana delle Imprese, delle Attività Professionali e del
Lavoro Autonomo.
11
cosiddetti business center, ovvero strutture che erogano servizi di ufficio alle
aziende e ai professionisti per la durata variabile da un giorno ad un anno.
12
Complice l’iniziale successo nel capoluogo lombardo, l’Associazione ha trovato la
sua prima sede a Milano in Corso Venezia, all’interno del palazzo che ospita la
Confcommercio.
Assotemporary riunisce sotto di sé i proprietari di spazi per uso commerciale ed
espositivo e i gestori delle attività che concernono i servizi connessi, come agenzie
di catering e di comunicazione, si impegna per assistere gli imprenditori che
desiderano intraprendere questa esperienza di business, fornendo strumenti tecnici e
consulenza informativa.
A lato pratico svolge un ruolo di intermediario tra i proprietari degli spazi e gli
imprenditori, ai quali offre importanti servizi, come
13
:
- consulenza tecnica gratuita per l’avvio di un temporary shop (contratto
predisposto, consulenza amministrativa e fiscale),
- consulenza legale, compresi i rapporti istituzionali con gli enti territoriali preposti,
- convenzioni per l’arredamento degli spazi e il catering,
- organizzazione eventi ( fornendo anche ufficio stampa e pubbliche relazioni),
- visibilità dell’iniziativa con inserzioni dedicate nel sito associativo, e pubblicità sul
mensile «Asso di Moda», magazine ufficiale di Assomoda.
In Italia, molti degli spazi adibiti a temporary shop sono soci di Assotemporary.
12
Un business center viene utilizzato dal professionista alla stregua di un residence, in cui trova dimora e
tutta una serie di servizi inclusi nel corrispettivo che andrà a pagare.
In particolare tali strutture mettono a disposizione in modo centralizzato, uffici completamente arredati ed
attrezzati, corredati di tutti i servizi di gestione e manutenzione ordinaria e straordianaria, dalle linee
telefoniche alle pulizie.
Fonte: Wikipedia. L’enciclopedia libera, http://it.wikipedia.org/wiki/Business_center, (pagina consultata
il 05/07/2011)
13
Fonte: sito ufficiale Assotemporary, http://www.assotemporary.it/content/chi-siamo
12
I.3 Diverse forme del fenomeno
A seguito del successo derivato dalle prime iniziative, il format originale venne
diversificato nella forma e nei contenuti.
Benché il grande pubblico associ genericamente al termine “temporary shop” anche
espressioni diverse del fenomeno, tale accezione identifica una tipologia specifica
nella quale rientrano le attività transitorie svolte all’interno di locali permanenti che
al momento si trovano ad essere vuoti.
La variabile più significativa consiste, infatti, nell’ “involucro” ovvero nello spazio
entro il quale si svolge l’attività.
Di seguito verranno illustrate alcune delle varianti in cui si declina il temporary
shop, ovvero pop-up shop, guerrilla store temporanei, temporary corner, temporary
outlet e temporary shop on-line.
- Pop up shop/store
14
: l’espressione è mutuata dal concetto che sta dietro al pop
up inteso come forma di pubblicità on line, che consiste nell’apertura automatica
di una finestra del browser contenente il messaggio pubblicitario.
Allo stesso modo, il pop-up si propone come negozio che appare repentinamente
sulla scena cittadina, ospitato all’interno di strutture mobili e transitorie, intorno
alle quali si svolgono tutta una serie di eventi paralleli.
Tali strutture sono pensate per affrontare un percorso itinerante, un tour, e
dunque per essere montate in un luogo, smontate al termine del periodo stabilito,
14
In Italia, il fenomeno nella sua complessità è ricondotto all’espressione temporary shop/store, tra cui
rientra la sottocategoria dei pop up shop/store; nei paesi anglosassoni invece, pop up shop/store
costituisce “l’espressione-bandiera” dietro la quale si celano le varie sottocategorie.
Fonte: Wikipedia. The free encyclopedia, http://en.wikipedia.org/wiki/Pop-up_retail, (pagina consultata il
14/06/2011)
Tale scelta è probabilmente da ricondurre all’estrema espressività del significato del verbo da cui deriva,
ovvero: //to pop//: to go somewhere for a short time, often without notice.
Fonte: Oxford Dictionaries Online,
http://english.oxforddictionaries.com/definition/pop#m_en_gb0648430.007
(pagina consultata il 14/06/2011)
13
per essere poi rimontate una volta trasferite in un’altra città, secondo delle tappe
predefinite.
Si tratta perlopiù di tendo-strutture rivestite di materiali tecnologici, container e
prefabbricati fatti di vetro, legno o metallo, mezzi su due o quattro ruote super-
accessoriati.
Nel 2007 l’azienda italiana di caffè Illy, in occasione della Biennale di Venezia,
commissionò la Push Button House. Il progetto consisteva nella realizzazione di
una casetta, utilizzando come elemento base un vecchio container che a seguito
della pressione di un pulsante avrebbe fatto cadere a terra le sue pareti, sulle
quali si reggevano gli interni caratteristici di un salotto, di un bagno e una
cucina. Il tutto venne realizzato con materiali riciclati o riciclabili, allo scopo di
manifestare l’attenzione dell’azienda per la sostenibilità.
Agli ospiti venivano offerte degustazioni di caffè, preparati con un nuovo
sistema e la possibilità di partecipare a seminari che avrebbero illustrato i segreti
di un buon espresso. Terminata l’esperienza in Biennale, la Push Button House
venne trasportata nel 2008 a New York, per ripetere l’esperienza nell’ambito del
New York Wine and Food Festival
15
.
15
Informazioni tratte dal sito www.illy.com:
http://www.illy.com/wps/wcm/connect/us/illy/art/project/push-button-house/
Figura 1.I - L'interno e l'esterno della Illy Push Button House