Capitolo primo Movimenti migratori: un profilo storico-sociologico
Lo studio del fenomeno migratorio rende consapevoli dell'eterogeneità che lo caratterizza, pertanto
il presente lavoro si propone di mettere in luce le caratteristiche e le dinamiche di un solo aspetto:
verranno analizzate le migrazioni interne in Italia nel periodo che va dagli anni '50 agli anni '70 del
Novecento. Per poter affrontare al meglio questa tematica, tuttavia, c'è bisogno di guardare ai
meccanismi che sottendono il fenomeno migratorio in generale: un'attenta “lettura” delle
migrazioni, dalla loro valenza sociologica, all'evoluzione storica del fenomeno, fino a una loro
classificazione, può permettere di rintracciare un filo rosso da seguire, una sorta di “mappa
concettuale” che funga da guida nello studio delle migrazioni interne in Italia, che difficilmente
potrebbero essere comprese se non inserite all'interno di un più vasto quadro generale. Una
disamina del fenomeno migratorio in generale ci fornirà, quindi, un “glossario” alla luce del quale
poter leggere le migrazioni interne in Italia.
1. Il fenomeno delle migrazioni in sociologia Il primo passo da fare per “avvicinarsi” al fenomeno migratorio, per poter meglio comprenderlo, è
cercare di capire di cosa si occupa la sociologia delle migrazioni, qual è il suo oggetto di studio
specifico e cosa contraddistingue il suo approccio in rapporto a quello di altre discipline.
Scidà scrive che la sociologia delle migrazioni si occupa: «della mobilità umana nello spazio e del
mutamento generato da questa nelle relazioni sociali, nei modelli socioculturali di vita e
4
nell'ambiente umano, cioè nella società globale in quanto rete di relazioni 1
». La mobilità umana,
ovvero gli spostamenti geografici, sono, però, sempre stati una costante nella storia dell'umanità e
ciò rende problematico tanto “governare” il fenomeno quanto una sua concettualizzazione teorica,
nel senso che risulta vano qualunque tentativo di addivenire a una teoria che sia valida in ogni
tempo e in ogni luogo. Dobbiamo accontentarci, quindi, di concetti e prospettive teoriche che, più
che darci risposte certe rispetto alla “leggi” che causano le migrazioni, siano in grado di orientare la
ricerca empirica
2
.
Gli approcci teorici La caratteristica fondamentale del fenomeno migratorio risulta essere, dunque, la sua storicità.
Questa proprietà, tuttavia, rappresenta anche uno degli ostacoli principali alla formulazione di una
teoria generale delle migrazioni, in quanto non permette di definire con precisione il fenomeno in
questione. Dalla produzione scientifica e intellettuale di alcuni autori “classici” si possono trarre,
tuttavia, delle linee guida, degli approcci concernenti l'area specifica in questione, che possono
costituire dei punti di riferimento dai quali partire per inquadrare le tematiche e le dinamiche
proprie della sociologia delle migrazioni. Si ritiene che ciascuno degli approcci di seguito indicati,
che non sono tutti quelli esistenti, possano offrire un contributo positivo e rilevante, secondo una
prospettiva di carattere scientifico-sociale, allo studio del fenomeno migratorio. Va sottolineato che
gli approcci non sono da considerarsi in ordine gerarchico: seguono l'ordine che ricalca il tempo
storico della loro formulazione ed elaborazione ed il cui arco temporale si situa a cavallo tra la metà
dell'Ottocento e la prima metà del Novecento ed ha come riferimento geografico sia alcune nazioni
dell'Europa sia gli Stati Uniti 3
.
Sebbene le migrazioni abbiano una storia coeva alla stessa presenza degli esseri umani sulla terra,
tali movimenti cominciano ad essere oggetto di osservazioni di carattere scientifico solo dalla metà
dell'Ottocento. Le riflessioni di Karl Marx 4
(1818 – 1883), che pure non si è occupato
specificamente del fenomeno migratorio, hanno dato comunque, un apporto significativo alla storia
della sociologia delle migrazioni.
Marx si muove da un approccio socio-economico e non analizza il fenomeno migratorio nel suo
1 G. Scidà, L'Italia e la sociologia delle migrazioni , in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della
società multietnica , Milano, FrancoAngeli, 2002, p. 15
2 L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni , Roma-Bari, Laterza, 2004, p . XI
3 G. Pollini, Gli approcci tipici , in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 42
4 K. Marx, 1853, “New York Daily Tribune”, 3722, 22 Marzo, rist. in Opere complete , trad. it. , Roma, Ed. Riuniti,
1982, vol. XI, pp. 548-554, in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 43
5
complesso, egli si concentra piuttosto sul carattere espulsivo e forzato dell'emigrazione,
distinguendo tra un'emigrazione forzata tipica delle società antiche e una tipica delle società
moderne (si riferisce in modo particolare alla Gran Bretagna). Nel primo caso l'emigrazione forzata
rappresentava l'unico rimedio alla forte pressione della popolazione sulle forze produttive, la
popolazione eccedente, infatti , era costretta ad emigrare altrove; nel secondo, invece, erano le forze
produttive a premere sulla popolazione, richiedendo una diminuzione di quest'ultima che veniva
“espulsa” «con la fame o con l'emigrazione 5
». Questo processo porterebbe, secondo l'autore, allo
spopolamento delle campagne e alla concentrazione della popolazione nei centri industriali,
rappresentando non solo un tipico esempio di emigrazione forzata, ma anche di migrazione interna
dalle località rurali a quelle urbano-industriali, causata dall'organizzazione sociale ed economica
capitalistica che provocherebbe impoverimento e disoccupazione della forza lavoro.
Il giudizio di Marx sulle migrazioni resta ambivalente: da un lato ritiene che possano essere
«sorgente fondamentale di ricchezza
6
», ma dall'altro non può non tenere conto degli effetti negativi,
umani e sociali, che producono sugli emigranti.
Con il tempo si sente la necessità di analizzare il fenomeno in modo più scientifico e Ernst George
Ravenstein 7
(1834 – 1913), uno statistico sociale inglese, ci prova attraverso l'enunciazione delle
“leggi dell'emigrazione”, raccolte nei suoi studi, pubblicati con il titolo Laws of Migration 8
.
L'obiettivo di questi studi è di confutare la teoria, allora molto diffusa, secondo la quale non vi fosse
nessuna regolarità nei movimenti migratori. L'autore, tuttavia, comparando l'andamento dei flussi
migratori negli anni 1871 e 1881 nel Regno Unito, osserva una serie di uniformità tendenziali
incentrate sulla variabile distanza, che saranno determinanti nell'enunciazione delle leggi da lui
individuate. Le generalizzazioni di Ravenstein, riferite tutte alla migrazione interna o intra-
societaria, poggiano su sette asserzioni fondamentali:
1. le correnti migratorie, solitamente di breve raggio, vanno nella direzione dei grandi centri
del commercio e dell'industria;
2.è il naturale risultato del movimento migratorio a far sì che i processi di assorbimento
procedano nella seguente maniera: a) gli abitanti di un paese immediatamente vicino a una
town in rapida crescita si affollano in essa; b) i vuoti così lasciati dalla popolazione rurale
sono colmati a loro volta da migranti provenienti da più remote aree. In tal modo i migranti
presenti in un determinato centro crescono in maniera inversamente proporzionale alla
distanza del loro luogo di provenienza;
5 Ibidem, p. 43
6 Ibidem, p. 44
7 E. G. Ravenstein, The Laws of Migration , in “Journal of the Royal Statistical Society”, 2 (June), 1885, pp. 241-305,
in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 45
8 Vengono pubblicati due studi entrambi con il titolo di Laws of Migration , il primo risalente al 1885 e l'altro al 1889.
6
3. il processo di dispersione è l'inverso del processo di assorbimento e mostra lineamenti
simili;
4. ogni corrente migratoria produce una controcorrente che compensa la prima;
5. i migranti che provengono da lunghe distanze propendono generalmente per i grandi centri
del commercio e dell'industria;
6. la popolazione nativa delle towns è meno propensa alla migrazione della popolazione rurale;
7. le femmine sono più propense alla migrazione dei maschi.
Queste asserzioni, pur riferendosi alle sole migrazioni interne alla società europea della seconda
metà dell'Ottocento, rappresentano un tentativo di spiegare, mediante leggi scientifiche, il fenomeno
migratorio lungo l'asse rurale-urbano. Con il successivo lavoro tenterà, allargando la sua analisi
all'intera Europa e all'America Settentrionale, di giungere a considerazioni sociologiche più
generali, secondo le quali è prevista un'ulteriore e continua mobilità dalla campagna alla città in
ogni parte del mondo. L'orizzonte su cui si è mosso l'autore, secondo un approccio definibile
geografico-sociale, è quello delle rural-urban migrations e questo probabilmente l'ha portato a
credere, erroneamente, che le migrazioni internazionali potessero essere governate dalle stesse
“leggi” delle migrazioni all'interno dei singoli paesi, sottovalutando il ruolo che già allora avevano i
confini nazionali e le restrizioni amministrative.
Émile Durkheim 9
(1858 – 1917), ritenuto il fondatore della sociologia come disciplina autonoma,
considera i movimenti migratori fenomeni propri dell'ambito della morfologia sociale, che studia il
sostrato sul quale è basata la vita sociale. I movimenti migratori, pur non venendo considerati fatti
sociali in se stessi, sono ritenuti importanti in quanto provocano effetti su tutti i fenomeni sociali
collettivi e sui fenomeni psichici individuali. L'autore è, quindi, spinto a individuare una “legge”
relativa alle migrazioni definita come “legge meccanica dell'equilibrio sociale”, secondo la quale « è
impossibile che i popoli più forti non tendano a incorporarsi i più deboli, come i più densi si
riversano in quelli meno densi» di modo che «vi saranno sempre movimenti di popolazione da un
paese all'altro, sia in seguito a conquiste violente, sia in seguito a infiltrazioni lente e silenziose »,
così come è «inevitabile che i centri più grandi nei quali la vita è più intensa, esercitino sugli altri
un'attrazione proporzionale alla loro importanza
10
». L'autore prosegue, inoltre, sostenendo che «la
maggiore mobilità delle unità sociali, che i fenomeni di migrazione presuppongono, determina
l'indebolimento di tutte le tradizioni 11
», producendo il mescolamento delle popolazioni e il
consecutivo venir meno delle differenze di origine.
9 E. Durkheim, Sociologie et sciences sociales in De la méthode dans le sciences , Paris, Alcan, pp. 259-285 in G.
Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 47
10 E. Durkheim, 1893, La divisione del lavoro sociale , trad. it. Milano, Ed. di Comunità, 1971, in G. Pollini, G. Scidà,
Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 48
11 Ibidem, p. 48
7
Nel saggio Escursus sullo straniero 12
, Georg Simmel (1858 – 1918), filosofo e sociologo tedesco,
pone le premesse di una sociologia della migrazione tutta centrata sulla forma sociologica di un solo
tipo di migrante, lo “straniero”, colta nella sua relazione ambivalente con la comunità sociale. La
caratteristica dello “straniero”, infatti, è quella di non essere appartenete fin dall'inizio ad una
determinata cerchia sociale e quindi di immettere in quest'ultima qualità e caratteri che non le sono
proprie, venendo a configurare così una forma sociologica segnata dalla duplicità dell'appartenenza
sociale: da un lato quella alla propria cerchia originaria, dall'altro quella alla cerchia sociale
d'arrivo. L'approccio relazionale-formale, quindi, mette in luce la contemporaneità e la duplicità
degli elementi della lontananza e della vicinanza che sono propri dello straniero, il quale per questo
è costretto ad un particolare rapporto di tensione con coloro che stranieri non sono.
Il sociologo Max Weber (1864 – 1920), si occupa del tema delle migrazioni, con un approccio
politico-sociale, in due scritti. Nel primo, La condizione dei lavoratori agricoli nella Germania ad
oriente delll'Elba 13
, la questione della migrazione in quanto immigrazione è collocata nel contesto
delle trasformazioni che attengono alla struttura sociale e all'organizzazione del lavoro delle grandi
proprietà terriere della Germania orientale, in cui si ha un incremento dei lavoratori stagionali,
soprattutto polacchi, accompagnato da una diminuzione di forza lavoro permanente. Le ragioni
vanno ricercate nel fatto che i proprietari terrieri tedeschi hanno interessi economici nel favorire il
lavoro stagionale e assumere lavoratori polacchi, in quanto questi hanno esigenze e bisogni meno
onerosi rispetto ai lavoratori tedeschi; i motivi che spingono, invece, gli agricoltori polacchi ad
emigrare dalla loro terra sono sia di ordine economico, cioè una differenza nel livello dei salari, sia
di ordine psicologico, un emigrante, infatti, non accetterebbe nel proprio paese il tipo di condizioni
di vita che gli vengono offerte in un luogo di lavoro distante. Nel secondo scritto, dedicato a Lo
stato nazionale e la politica economica tedesca 14
, l'autore concentra la sua attenzione sui due
processi concomitanti dell'emigrazione dei salariati agricoli tedeschi dalle zone culturalmente
elevate e dell'immigrazione dei contadini polacchi nelle zone a basso livello culturale che si stanno
verificando nei territori di frontiera della Prussia occidentale. A questo proposito, le misure
suggerite da Weber per ridurre e contrastare il fenomeno dell'immigrazione dei contadini polacchi
sono, da una parte, la chiusura della frontiera orientale, dall'altra l'acquisto da parte dello Stato dei
12G. Simmel, 1908, Exkurs über den Fremden, in Soziologie. Untersuchungen ueber die Formen der
Vergesellschaftung , trad. it., Sociologia , Milano, Ed. di Comunità, 1989, pp. 580-584, in G. Pollini, G. Scidà,
Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 49
13 M. Weber, 1892, Die Verhaeltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland , in “Schriften des Vereins f ür
Sozialpolitik”, Leipzig, trad. it., (a cura di) R. Rovelli, Tendenze di sviluppo nella situazione dei lavoratori agricoli
ad Est dell'Elba , Catania, Edizioni Coneditor, [senza data], in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e
della società multietnica , p. 50
14 M. Weber, 1895, Der Nationalstat und die Volkswirtschaftspolitik , in Economia e Società , Catania, Giannotta Ed.,
1970, pp. 71-110, in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p.53
8
terreni e la loro colonizzazione forzata in quanto terreni demaniali.
Il primo a porre la questione dell'immigrato che si inserisce con ogni mezzo nella vita economica
del Paese ospitante, arrivando persino a conquistare la posizione strategica di imprenditore è
Werner Sombart 15
(1863 – 1941), economista e sociologo tedesco. Secondo l'autore, infatti, lo
straniero può contare su una mentalità e atteggiamenti che lo predispongono a partecipare in prima
persona ai mutamenti economici, al fine di sovvertire le vecchie regole del mondo tradizionale degli
affari per poterne imporre di nuove, che finiranno per plasmare la nascente società industriale.
L'approccio umanistico adottato in The Polish Peasant in Europa and America 16
, di Thomas (1863 –
1947) e Znaniecki (1882 – 1958), fa di questo lavoro non solo un “classico” della sociologia, per la
metodologia investigativa adottata, ma anche un “classico” della sociologia delle migrazioni. In
quest'opera, infatti, gli autori, attraverso l'impiego di documenti personali, quali lettere, diari,
resoconti di parrocchie e associazioni di emigranti polacchi negli Stati Uniti, analizzano la
condizione dei contadini polacchi, sia nel loro contesto d'origine, sia nel contesto di arrivo.
L'accento è posto sul trauma del trapasso da un ambiente rurale in lenta evoluzione, caratterizzato
dalle tradizioni e dalle consuetudini, ad un ambiente urbano contraddistinto da una continua
mobilità, territoriale, sociale e culturale, e da un marcato individualismo. L'indagine degli autori
porta all'individuazione di tre tipologie di atteggiamento verso i valori (il tipo “filisteo”, il tipo
“bohémien” e il tipo “creativo”) che rappresenta una novità, introducendo in questo campo una
prospettiva di analisi di genere tipologico.
L'approccio dell'ecologia umana di Park (1864 – 1944) al tema delle migrazioni e delle relazioni tra
razza e cultura è desumibile da diversi scritti. Nel saggio Human Migration and the Marginal
Man
17
, per esempio, si concentra sia sulla relazione tra migrazione e mutamento sociale, nel senso
che la prima può essere una delle condizioni che danno origine alla seconda, favorendo, quindi, lo
sviluppo della civiltà di popoli e culture attraverso il contatto e la fusione, ma anche il conflitto e la
tensione; sia sulla relazione fra migrazione e struttura della personalità: la prima, infatti, può
originare una determinata configurazione o posizione sociale e un determinato carattere psichico
della seconda; e anche sugli effetti mutativi della migrazione sulla comunità territoriale,
sottolineando, a questo proposito, l'allentamento e l'abbandono dei legami della comunità locale da
un lato, e lo stabilimento e il rafforzamento dei legami alla comunità cittadina, comportando il
passaggio a relazioni sociali basate sugli interessi razionali dall'altro. Una delle questioni, inoltre, su
cui l'autore si sofferma maggiormente è quella dell'integrazione che, in base al tipo di processo
15 Ibidem, p. 55
16 W. I. Thomas, F. Znaniecki, 1918-1920, The Polish Peasant in Europa and America , Chicago, University of
Chicago Press, in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p.59
17 R. E. Park, 1928, Human Migration and Marginal Man , in “American Journal of Sociology”, May, pp. 881-893, in
G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , p. 60
9
relazionale che si instaura tra culture e gruppi diversi, può dare luogo a quattro differenti processi:
il processo biologico dell' amalgama , che riguarda l'incrocio e la fusione delle diverse razze
mediante matrimoni misti; il processo sociale di accomodamento , volto a prevenire o a ridurre il
conflitto, a mantenere una certa base di sicurezza nell'ordine sociale per individui e gruppi
caratterizzati da interessi divergenti; il processo sociale di assimilazione , in cui la cultura di una
comunità o di una nazione è trasmessa ad un cittadino “adottivo” che, acquisendo le memorie, i
sentimenti e gli atteggiamenti di altri gruppi e individui, viene incorporato in una comune vita
sociale e culturale; il processo culturale di acculturazione , in cui viene posto l'accento sul
linguaggio, inteso come medium di trasmissione culturale 18
.
Questi approcci, alcuni dei quali profondamente diversi tra loro, mostrano la complessità del
fenomeno che si va ad indagare e costituiscono un utile punto di partenza per poter approfondire e
seguire, da una parte l'evoluzione del fenomeno migratorio nella storia, dall'altro le dinamiche
sociali che i movimenti migratori innescano soprattutto nei contesti d'arrivo.
2. Le migrazioni nel contesto storico e globale: l'evoluzione storica del fenomeno migratorio Il primo aspetto da ricordare nello studio delle migrazioni riguarda il nesso cruciale che ha da
sempre legato le mobilità umane e la formazione della vita associata degli esseri umani. Le
migrazioni sono, infatti, un fenomeno antico come l'umanità, tanto che si può affermare, così come
diceva Massey, che gli «umani sono una specie migratoria
19
».
Palidda, uno studioso di migrazioni, afferma che: «la mobilità umana ha un'importanza
fondamentale sin dai primordi della storia della vita associata », egli sostiene che si tratta: «di un
fatto direttamente connesso all'appartenenza di tutti gli esseri umani alla stessa specie animale,
constatando che sia le differenziazioni sia i meccanismi e le dinamiche della società discendono
dalla mobilità degli eredi dei due antenati che vivevano in Africa. […] Le differenze tra gli umani
(colore della pelle, degli occhi, dei capelli e altre caratteristiche fisiche) deriverebbero dal loro
18 R. E. Park, 1939, Symbiosis and Socialization: a Frame of Reference for the Study of Society , in “America Journal of
Sociology”, XLV, 1, pp. 1-25, in G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica , pp. 60-
63
19 M. Ambrosini, Un'altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali , Bologna, Il Mulino, 2008, p. 12
10
adattamento a climi e contesti diversi: è l'interazione fisica e simbolica a influenzare il divenire
degli umani e, quindi, i loro comportamenti. Senza la mobilità umana è assai probabile che
l'umanità si sarebbe estinta
20
».
In tutte le epoche storiche, infatti, uomini e donne hanno manifestato la loro propensione alla
mobilità territoriale che, pur interessando contesti storici diversi e condizioni economiche e sociali
assai disparate, è sempre stata non solo una strategia di sopravvivenza, dettata da ineluttabili
necessità, ma anche e soprattutto una costante risorsa, uno strumento indispensabile per poter
esercitare mestieri e attività. Basti pensare ai vari esempi che ci fornisce la storia europea
dell' ancien régime o quella delle Cina imperiale, che mostrano come i costumi migratori si
legassero all'esercizio o all'apprendimento di raffinate tecniche artigiane o alla pratica di attività e
commerci di grande valore economico 21
. Ciò mostra come il fenomeno migratorio non rappresenti
esclusivamente la risposta a condizioni di eccezionale povertà economica o il prodotto di spinte
malthusiane provocate dall'eccedenza demografica, dal sovrappopolamento e dai meccanismi
impersonali del push-pull dei mercati internazionali: per una variegata gamma di individui, ispirati
anche a strategie economiche socialmente differenziate, l'emigrazione diventa una vera e propria
scelta, un deliberato atto volto a migliorare il proprio status economico e sociale 22
.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che accanto a questi spostamenti volontari e liberamente
alimentati da una diversificata stratificazione sociale dei protagonisti, la storia mostra altrettanti
esempi di migrazioni forzate sia di massa, sia di singoli individui. Anche questi movimenti sono
stati una costante, così come dimostrano le innumerevoli testimonianze di deportazioni di razze
considerate inferiori, dalla prima tratta degli schiavi neri fino alle più recenti deportazioni di interi
gruppi etnici; come anche le persecuzioni, che sia in epoca moderna che in quella contemporanea,
hanno continuato a disperdere nel mondo militanti politici, dissidenti di vari regimi autoritari e
appartenenti a differenti fedi religiose; una parte importante, inoltre, di questi movimenti coatti è
dovuta al colonialismo, che si è “nutrito” proprio di questi spostamenti forzati di intere popolazioni
schiavizzate o di quelle poste in assoluta dipendenza economica dai colonizzatori.
L'abbandono dei propri paesi per sfuggire a terribili condizioni politiche, economiche e ambientali
ha rappresentato, dunque, una “modalità” migratoria imponente, nel senso che ha alimentato una
parte consistente dei movimenti migratori, ma, come già detto, è solo una faccia della medaglia, in
quanto le migrazioni possono anche essere il frutto di una scelta individuale o di una strategia
familiare, un atto volontario che porta con sé il bisogno di un riscatto economico e il miglioramento
di uno status sociale.
20 S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni , Milano, Cortina, 2008, pp. 7-8
21P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali , Roma-Bari, Laterza, 2003, p. VII
22Ibidem, p. IX
11
Le fasi delle migrazioni Le migrazioni, quindi, ricoprono un ruolo centrale tanto per il peso che hanno esercitato nelle varie
epoche della storia, quanto per le espansioni e gli sviluppi che se ne possono prevedere in
prospettiva: tracciare, sia pure per sommi capi, un'evoluzione storica del fenomeno migratorio, dalle
principali fasi delle migrazioni nell'età moderna alle caratteristiche del fenomeno in epoca
contemporanea, può risultare utile alla comprensione di un fenomeno che da sempre accompagna la
storia dell'uomo e che sempre più, soprattutto negli ultimi anni, desta l'attenzione delle società
contemporanee.
Con il XV secolo, ovvero l'epoca delle grandi esplorazioni geografiche, quando gli europei
iniziarono ad avventurarsi in terre fino ad allora sconosciute, per espandere le proprie attività
commerciali sottomettendo i popoli nativi, si sono aperte le migrazioni internazionali dell'età
moderna. Questa prima fase, cronologicamente collocabile tra il 1500 e il 1800, è definita
mercantilista, in virtù dell'ideologia allora dominante che vedeva nella crescita di capitali e di
popolazione una fonte di potere e prosperità. Il mercantilismo si espresse in una serie di misure
pratiche adottate da molti paesi, finalizzate allo sviluppo delle esportazioni, alla restrizione delle
importazioni, all'incremento di metalli preziosi, ritenuto un segno della ricchezza di una nazione. La
politica mercantilistica si sviluppò contemporaneamente agli stati nazionali (che erano ancora in
una fase embrionale), i quali, con il loro intervento, non soltanto furono determinanti per
l'espansione e lo sviluppo del mercantilismo, ma furono il risultato proprio delle migrazioni che,
essendo sostanzialmente un fenomeno nazionale, sono state forgiate dalle stesse costruzioni
ideologiche che hanno consentito la nascita dello Stato-nazione 23
, il quale a sua volta ha
rappresentato una sorta di specchio attraverso il quale poter guardare l'evoluzione del fenomeno
migratorio stesso. Durante il mercantilismo, dunque, l'immigrazione non solo fu libera, ma anche
incoraggiata, a dispetto dell'emigrazione che, invece, venne ostacolata attraverso specifici
provvedimenti adottati da vari paesi. Le esplorazioni geografiche del XV secolo, tuttavia, diedero
un forte impulso alle migrazioni transoceaniche che contribuirono a dare il via a due imponenti
movimenti di popolazione: il primo fu quello degli europei che si riversarono nelle terre di
conquista (Americhe, Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa) spinti da diverse motivazioni:
dall'esercizio di attività commerciali, alla predicazione missionaria, al controllo politico e militare
delle terre conquistate; il secondo movimento fu quello degli schiavi, trasportati coattivamente
dall'Africa alle Americhe 24
.
L'entità dei flussi in questa prima fase non è facile da stimare, ma certamente è possibile affermare
23L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni , cit., p. XI
24Ibidem, p. 41
12
che hanno decretato la dominazione dell'Europa sul resto del pianeta.
La fine del XVIII secolo portò una serie di trasformazioni: la rivoluzione industriale innescò
mutamenti nell'economia e nelle comunicazioni; la rivoluzione francese e americana, la formazione
degli Stati-nazione e le rivoluzioni liberali misero in moto profondi cambiamenti politici che
influirono profondamente sui valori culturali e ideologici. L'affermazione del modello di produzione
capitalistico, caratterizzato dall'idea di libertà individuale e segnato dall'avvento dei mercati liberi in
cui gli attori economici decidono senza vincoli come allocare le proprie risorse, in cui gli Stati,
eliminando i divieti precedentemente in vigore e inaugurando un regime di libera circolazione,
segna il definitivo passaggio all'ideologia liberista.
E' in quest'epoca che si registrano i massimi livelli nell'emigrazione diretta verso gli Stati Uniti e in
generale verso le Americhe e l'Australia, incoraggiate dallo sviluppo tecnologico e dalle sue
applicazioni ai sistemi di comunicazione che resero più agevole la navigazione, con una riduzione
della durata e del costo del viaggio, rendendo così l'emigrazione un' opzione possibile e accessibile
per tutti coloro che erano in cerca di migliori prospettive di vita. Ad alimentare le fila
dell'emigrazione transoceanica furono all'inizio, cioè nella prima metà dell'Ottocento, sopratutto gli
inglesi e i tedeschi; nella seconda metà del secolo e fino alla vigilia della prima guerra mondiale, le
migrazioni provennero in maggioranza da quei paesi che ancora non riuscivano a decollare,
registrando un forte ritardo industriale: è il caso dell'Italia, dell'Irlanda, della Spagna e dei paesi
dell'Est Europa, ma anche paesi come la Norvegia, il Portogallo e la Svezia diedero il loro
contributo di uomini e donne all'emigrazione. Col tempo accanto alla classica meta statunitense si
andarono consolidando anche il ruolo del Canada e dell'Australia come mete di flussi migratori 25
.
Nei vari paesi di destinazione, tuttavia, la popolazione iniziava già a mostrare i primi segnali
d'ostilità verso gli immigrati stranieri, accusati del peggioramento delle condizioni di lavoro e
salariali, quindi destinati a divenire vittime di movimenti di stampo razzista. Lo scoppio della
Grande Guerra prima e la successiva crisi del '29 poi, decretarono il sostanziale arresto dei flussi
migratori, che segnerà l'avvio di una stagione in cui l'immigrazione non sarà più libera, ma
vincolata al rispetto di quote annuali assegnate a ciascun paese d'origine e a una selezione basata
sulle qualifiche professionali possedute dai candidati 26
.
In questa fase, insieme alle grandi migrazioni transoceaniche, si registrarono anche copiosi flussi
migratori all'interno del continente europeo, in cui le mete di destinazione erano sopratutto:
l'Inghilterra, principale nazione industriale, che cominciò a importare forza lavoro dall'estero,
soprattutto dalla vicina Irlanda e dalla Russia, per sopperire alle carenze dell'offerta locale oppressa
25Ibidem, p. 43
26 Ibidem, p. 44
13
dalle dure condizioni di vita imposte alla classe proletaria; la Germania, che assorbiva forza lavoro
polacca da riversare nella regione della Ruhr, e lavoratori italiani, belgi e olandesi da inserire nel
mercato del lavoro della parte meridionale della nazione, senza però permettere alla forza lavoro
straniera di insediarsi definitivamente sul territorio tedesco attraverso la negazione dei
ricongiungimenti familiari (precorrendo così i sistemi che saranno messi a punto negli anni
successivi per limitare e scoraggiare i flussi migratori); la Francia, pronta ad accogliere flussi
provenienti da Italia, Belgio, Germania, Svizzera e successivamente da Spagna e Portogallo, per far
fronte ad una modesta crescita demografica. La “geografia” di questi movimenti sarà sconvolta
dall'inizio della Prima Guerra Mondiale, in seguito alla quale i paesi belligeranti, per far fronte alla
necessità di rimpiazzare gli uomini impegnati nelle operazioni militari, si troveranno a dover
spostare il loro bacino di utenza: l'Inghilterra, anche se pure in modo contenuto, farà ricorso alla
forza lavoro delle proprie colonie; la Francia importerà anch'essa manodopera dalle proprie colonie,
ma attingerà anche dai paesi dell'Europa mediterranea; mentre la Germania ricorrerà a misure di
reclutamento coatto nelle aree occupate.
Questo grande flusso migratorio, in considerazione degli imponenti movimenti di popolazione che
generò - e per questo noto come il periodo della “Grande Emigrazione” - ha rappresentato,
comunque, un'eccezionale svolta: ha avuto, infatti, un fortissimo impatto demografico, economico e
culturale, che oltre ad aver mutato la popolazione dei grandi paesi d'immigrazione, ha lasciato segni
evidenti sui paesi d'origine.
Il secondo dopoguerra sconvolse nuovamente la “geografia” degli spostamenti: una delle
conseguenze più importanti della seconda guerra mondiale fu, infatti, il progressivo deteriorarsi dei
grandi imperi coloniali, che innescò una serie di spostamenti di popolazione soprattutto verso
l'Europa. I primi movimenti furono stimolati dal rientro in patria di quanti vivevano nelle colonie e
dalla scelta di stabilirsi in Europa da parte delle popolazioni native; gli altri, invece, furono il
prodotto degli spostamenti che interi gruppi etnici avevano dovuto subire in seguito alla
ridefinizione post-coloniale dei confini, con il conseguente incalzare di rivoluzioni e guerre civili
che seguirono il processo di decolonizzazione 27
. Come è noto, la ridefinizione delle frontiere delle
ex colonie furono tracciate senza tener conto delle entità storiche, della variegata composizione
etnica e religiosa degli abitanti e delle situazioni economiche precoloniali, innescando una serie di
conflitti, alcuni dei quali ancori oggi attivi, e grandi ondate migratorie che da allora non si sono mai
arrestate. D'ora in poi, dunque, la mobilità umana non sarà più dipendente esclusivamente e
prevalentemente dagli andamenti economici, ma verrà soprattutto alimentata dai movimenti di
rifugiati, che affondano le loro radici proprio in queste scelte del passato.
27 P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali , cit., p. 79
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Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale non solo vedrà “esplodere” le migrazioni
postcoloniali, ma sarà anche segnato dalla compiuta trasformazione del continente europeo in area
d'immigrazione, divenendo così una delle principali regioni d'attrazione dei flussi internazionali.
Naturalmente questi flussi non raggiungeranno la portata della “Grande Emigrazione”, tuttavia il
loro peso non può essere trascurato, poiché testimonia, come afferma Zanfrini, il repentino sviluppo
delle economie europee e il diffuso innalzamento degli standard di vita
28
. Nei paesi di vecchia
immigrazione si registreranno nuovi ingressi provenienti soprattutto dall'Asia e dall'America Latina,
che diventeranno sempre più consistenti e rimpiazzeranno quelli provenienti dall'Europa. Il modello
prevalente resterà quello degli insediamenti permanenti, accompagnato di solito dalla
naturalizzazione, che trasformerà gli stranieri in cittadini destinatari, almeno teoricamente, degli
stessi benefici e diritti di cui godono i nativi; il vecchio continente, invece, trovandosi a
sperimentare un eccedenza di domanda di lavoro sull'offerta e dovendo importare manodopera,
solitamente reclutata per ricoprire i posti di lavoro peggio remunerati e più insicuri, adotterà
specifici dispositivi di reclutamento di lavoratori «a tempo e scopi definiti » 29
che, prevedendo solo
una permanenza temporanea e il consecutivo rilascio del permesso di soggiorno collegato al lavoro
e un accesso limitato ai diritti civili e sociali, darà corso a una nuova “era” nella storia delle
migrazioni, contraddistinta da una mera concezione funzionalistica dell'immigrazione, legata
esclusivamente ai fabbisogni di manodopera.
Questa fase, definibile fordista, che va dalla fine del secondo conflitto mondiale fino alla recessione
degli anni '70, ha coinciso con il periodo di massima crescita economica dell'Europa che, sostenuta
dalla generale convinzione che la crescita economica non potesse essere arrestata per carenza di
forza lavoro, ha fatto del modello di produzione fordista, basato sulla grande impresa e sul ricorso
massiccio a manodopera a basso livello di qualificazione (costituita soprattutto da immigrati), il
centro nevralgico dell'intera economia.
La recessione dell'economia mondiale negli anni '70, seguita al grave shock petrolifero del 1973,
ebbe l'effetto di arrestare le politiche di reclutamento attivo, dando il via ad una stagione in cui le
migrazioni verranno sempre più viste come un fenomeno intollerabile, sempre meno legittimate da
considerazioni economiche e raffigurate come un'emergenza dalla quale difendersi.
In questa fase post-industriale si ebbe una profonda trasformazione dei mercati del lavoro, che si
tradusse in una prepotente riemersione della pratica del lavoro sommerso; si attuarono politiche
migratorie restrittive che, però, stimolarono la clandestinizzazione dei flussi e il ricorso a dispositivi
diversi da quelli delle migrazioni di lavoro 30
e, soprattutto, i paesi dell'Europa meridionale
28 L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit., p. 47
29Ibidem, p. 48
30 Ibidem, p. 51
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conobbero la loro definitiva transizione in aree di destinazione di flussi sempre più eterogenei.
Le varie “tappe” dei movimenti migratori mostrano come il fenomeno si sia evoluto a tal punto da
divenire non solo globale, arrivando a coinvolgere tutti i paesi del mondo, ma anche inarrestabile,
tanto da alimentare le paure e le ansie di chi non è più in grado di gestire le continue trasformazioni
tipiche delle società in rapida trasformazione. Queste “nuove” mobilità umane che, agli occhi dei
paesi di destinazione, sembrano fuori da ogni controllo, per essere comprese vanno inquadrate
all'interno di quei complessi processi e trasformazioni messi in moto dalla globalizzazione, di cui le
attuali migrazioni internazionali sono figlie.
La globalizzazione della mobilità: controllo delle migrazioni e libertà di movimento L'attuale fase delle migrazioni, resa più dirompente dalle dinamiche della globalizzazione, si
configura come un processo transnazionale contraddistinto da una maggiore eterogeneità rispetto
alla grande migrazione dei secoli XIX e XX, sia per quanto riguarda le diverse provenienze etniche
e nazionali, sia per le figure sociali coinvolte, sia per i modelli d'insediamento e d'incorporazione
cui dà luogo. Questo processo, tuttavia, si sta sviluppando all'insegna di una profonda
contraddizione: come sostiene Zanfrini, infatti «da un lato, un complesso intreccio di fattori
d'attrazione e d'espulsione concorre a tenere alto il volume delle migrazioni internazionali,
imprimendovi anzi un'ulteriore accelerazione. Dall'altro, la preoccupazione prevalente nei paesi di
destinazione è di contenere la pressione migratoria [...]
31
».
E' importante, dunque, mettere in luce i risvolti che il processo di globalizzazione ha sulle
migrazioni e, in particolare, sulla regolazione dei processi migratori, che delineano, soprattutto in
riferimento all'area europea, l'emersione di un regime migratorio che si manifesta attraverso una
serie di strategie di controllo delle migrazioni che, inevitabilmente, si traducono in strategie di
controllo dei confini, innescando, così, meccanismi che da una parte rischiano di mettere in
discussione il concetto stesso di confine e, dall'altra, di creare un legame sempre più stretto tra
migrazioni e confini. A questo proposito risulta rivelatrice una frase di Cuttitta, il quale sostiene
che: «interrogarsi sulle politiche di controllo dell'immigrazione significa interrogarsi sui confini
come strumenti del potere, ma anche sugli strumenti che il potere utilizza per creare, gestire e
consolidare i confini stessi 32
».
31 Ibidem, p. 53
32 P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell'immigrazione nel mondo-frontiera , Milano, Mimesis, 2007, p. 3
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