Introduzione
In base a una recente ricerca sulle strategie di marketing di 300 aziende italiane è emerso
che, nonostante la recente evoluzione dei mercati sembra mettere oggi in discussione il concetto di
marca e la tentazione di “tornare al prodotto” sia sempre più spesso esplicitata, i risultati delle
grandi marche che investono da anni sulla loro identità ci dicono chiaramente che il contributo della
brand equity alla loro capitalizzazione resta decisivo.
A livello mondiale le tendenze sembrano essere simili, come si evince dal secondo rapporto
annuale Kantar-Brandz sui principali brand mondiali. Nel rapporto Kantar-Brandz si conclude che,
anche quando i consumi diminuiscono e i consumatori modificano le loro priorità a causa di una
crisi recessiva come quella in atto, le aziende dal brand più consolidato sono quelle che reagiscono
nel modo migliore e non solo mantengono, ma anzi rafforzano, la loro leadership sui mercati di
riferimento.
Uno stereotipo radicato vuole che, in tempo di crisi, il consumatore ridefinisca i suoi
consumi sulla base di criteri razionali, rinunciando all’acquisto di beni a fronte di minor reddito
disponibile. Non si può negare che la decurtazione del reddito abbia spinto una larga parte della
popolazione a diminuire le proprie spese, ma questo non si è tradotto nella penalizzazione dei
prodotti più costosi; nella caduta dei consumi voluttuari; nella scelta del discount a tutti i costi. Per
questo marche e prodotti costosi, ma con una forte identità ed un buon rapporto qualità/prezzo, non
hanno sofferto affatto o sono stati appena sfiorati dalla crisi. Penalizzati sono stati quei prodotti
ingiustamente costosi o con scadenti performance e debole personalità.
La crisi economica degli anni Novanta ha confermato ulteriormente che le priorità
nell’allocazione del reddito sono condizionate storicamente e culturalmente, ma non sono affatto
riconducibili ai criteri di razionalità economica tanto decantati dai cultori delle scienze che
tradizionalmente hanno studiato il consumatore. “La gerarchia dei bisogni, fondata su questi criteri
di razionalità, valida forse in tempi di assoluta scarsità, non trova più alcun riscontro e non è in
grado di cogliere i nuovi bisogni di espressività e comunicazione.” (Fabris, 1995, p. 270).
A partire da queste osservazioni iniziali ci si è chiesti cosa si celi dietro al successo delle
marche in periodi di recessione economica come quello che il mondo occidentale sta vivendo a
partire dalla crisi finanziaria del 2008. Detto altrimenti, ci siamo domandati su quali basi i
consumatori fanno le proprie scelte d’acquisto. Che cosa li spinge a scegliere una marca piuttosto
che un’altra? La risposta a questo interrogativo, posto in riferimento all’arco temporale che va dal
2008 ad oggi, ci consente di indagare il significato che il consumo ha assunto in un periodo di crisi
economica.
1
Ovviamente si tratta di una questione complessa a cui tentare di trovare soluzione è tutt’altro
che semplice data la quantità di dinamiche, tanto individuali quanto sociali, che caratterizzano
l’individuo-consumatore nel suo rapporto con il mercato. Innanzi tutto va precisato che non tutti
hanno percepito la crisi allo stesso modo. Questo comporta sicuramente un diverso atteggiamento
nei confronti delle scelte di acquisto.
Al di là di quella che è la percezione della crisi e di quelle che sono le strategie messe in atto
per fronteggiarla, che sicuramente incide in maniera rilevante sul comportamento del consumatore,
la nostra ipotesi è che, al momento dell’acquisto, ciò che fa propendere il consumatore per la scelta
di una marca piuttosto che di un’altra è il fatto che essa racchiude in se un significato che va al di la
della semplice funzione di indicare la proprietà, la qualità e la tipologia di un bene.
A seguito di una prima fase di desk research siamo giunti ad individuare tre spunti che
potrebbero consentirci di analizzare come sono declinati oggi dai consumatori i comportamenti di
consumo.
I primi due presi in considerazione rimandano a quella che può essere definita come la
funzione comunicativa del consumo. Il primo riguarda il fatto che al consumo siano associate
un’infinità di valenze simboliche e che la marca sia pertanto espressione di valori e ideali che
anche il consumatore che le sceglie condivide. Il secondo è legato alla funzione e alla capacità che
la marca ha di attestare l’appartenenza dell’acquirente a certi gruppi sociali
1
o a quelle che sono
state definite nuove tribù di consumo (Maffesoli, 1988).
Questi primi due approcci - che investono tanto la sfera individuale quanto quella sociale
dell’individuo - trovano conferma in tutta un’ampia gamma di letteratura sociologica e di marketing
che evidenzia come, nonostante per molto tempo le aziende abbiano ottenuto vantaggio competitivo
attraverso la comunicazione e la promozione di un beneficio razionale
2
, un approccio di questo tipo,
in un mercato complesso come quello attuale, è riduttivo.
Se invece si considera la più recente letteratura in ambito di marketing si può facilmente
prendere atto del fatto che molti studiosi del settore hanno posto l’accento su tutta una serie di
valenze emotive ed affettive insite nella marca. Questo si è tradotto nella propensione a colpire il
cuore del consumatore prima ancora che la sua mente. Il massimo esponente di questa tendenza è
Kevin Roberts (2005), che ha fatto del suo concetto di Lovemark il vademècum delle più attuali
campagne pubblicitarie.
1
Gruppi che possono essere di appartenenza o di riferimento, in base alla definizione che ne da Merton (1949) e di cui
si avrà modo di parlare nel paragrafo 1.3.
2
Il “Più bianco non si può” di Dash può esserne un esempio.
2
Dell’attenzione riservata alle emozioni e del concetto di Lovemark avremo modo di parlare
in maniera approfondita al capitolo 3 e 3.4. Per ora basta sapere che quello su cui Roberts si
interroga è come garantire alle aziende un successo in termini di fatturato che possa essere
consolidato nel tempo – e non momentaneo – al fine di scongiurare i danni derivanti da un periodo
di crisi economica quale quella in atto. Volendo riprendere un modo di dire diffuso si potrebbe dire
che si chiede come garantire alla marca di rimanere sulla cresta dell’onda.
La risposta che dà è racchiusa nella messa in atto di tutta una serie di strategie di marketing
che dovrebbero portare all’instaurarsi di un rapporto d’amore tra la marca e l’acquirente. Questo
rapporto sentimentale, nella pratica, si traduce in un atteggiamento del consumatore che è di fedeltà
oltre la ragione
3
.
Ma quello che interessa la nostra curiosità, lo ripetiamo, non è l’azienda con le sue tecniche
pubblicitarie quanto il consumatore e il suo modo di orientarsi nel vasto mondo del mercato,
soprattutto in una fase delicata di recessione economica.
In definitiva, perciò, quello che ci domandiamo è quale di queste tre disposizioni (consumo
derivante dalle valenze simboliche associate alla marca; consumo come capacità della marca di
denotare l’appartenenza a certi gruppi sociali; consumo legato ai sentimenti che si provano per una
marca) guida il consumatore nel suo atto d’acquisto. Inoltre vorremmo riuscire a mettere in
evidenza quali categorie di prodotto e quali marche sono soggette a ciascuna delle tre.
Dopo un’iniziale fase di desk research, che ci ha consegnato un quadro ben delineato nella
forma ma alquanto sfocato nei contenuti, si è deciso di passare ad una prima fase di raccolta delle
informazioni utilizzando la tecnica del focus group.
La decisione di avvalerci di questa tecnica è motivata dal fatto di ritenerla la più indicata ad
ottenere, in questa fase iniziale di indagine esplorativa, una buona base di conoscenze contestuali
per il nostro progetto di ricerca. Tale base di conoscenze contestuali verrà poi applicata per
delineare la parte più propriamente empirica del nostro progetto. Quest’ultima sarà di tipo
qualitativo e ci si avvarrà della conduzione di una serie di interviste in profondità.
Per quanto attiene l’organizzazione ed il reclutamento dei partecipanti al focus group; la
traccia dell’intervista in profondità e la scelta dei soggetti da intervistare; nonché l’analisi dei dati
ricavati da entrambe, si rimanda al capitolo 4.
Quello a cui per il momento ci sembra opportuno accennare è che questa ricerca sarà
condotta nelle città di Roma e di Terni. Tale scelta è originata da una duplice motivazione. Da un
lato perché chi scrive è iscritto al corso di laurea magistrale in “Scienze Sociali Applicate” della
facoltà di Sociologia presso “La Sapienza” Università di Roma e residente a Terni, pertanto le due
3
Vedere par. 3.4
3
città emergono in maniera del tutto naturale sulla base di circostanze biografiche. Dall’altro lato
perché si vorrebbe anche osservare l’eventuale palesarsi di differenze tra i comportamenti di
consumo di chi risiede in una metropoli e quelli di chi vive in una città di provincia.
Prima di procedere ci terrei a ringraziare il mio tutor Sandro Savoldelli per la possibilità che
mi ha dato, attraverso l’occasione dello stage formativo presso l’Associazione Mewa di Terni, di
portare avanti questo progetto di ricerca. E la mia relatrice, professoressa Stefania Vergati, per aver
creduto che ne sarebbe potuta uscire una buona tesi di laurea.
4
Capitolo 1. Viaggio nel mondo dei consumi
1.1 Consumatore e mercato: un rapporto nuovo
Il mondo in cui viviamo è un mondo globalizzato, caratterizzato da una forte complessità,
che continua a cambiare con ritmi veloci. Un mondo che, come dice Giovanni Bechelloni nella
Prefazione al testo di Anthony Giddens Identità e società moderna: “rischia di andare in pezzi […]
sul piano sociale e culturale a causa della crescente delegittimazione e dello stesso dissolversi
degli imperi multinazionali e degli Stati nazionali; che sono stati i principali produttori dell’ordine
sociale, in alleanza più o meno stretta, con le grandi religioni tradizionali, quando non sono
riusciti a farsi portatori di religioni civili o ideologiche altrettanto potenti.” (1999, pp. 1-2).
La società contemporanea viene definita con l’attributo, coniato da Jean-Françoise Lyotard
(1989), di postmoderna; termine con cui il filosofo francese designa lo sviluppo tecnologico e
scientifico e le ricadute che questo ha sulla vita quotidiana e sulla politica.
Dopo di lui, molti altri studiosi hanno concentrato i propri interessi sull’osservazione e lo
studio della società attuale e sul tema della postmodernità. Tra i nomi più noti possiamo citare
quello di Zygmund Bauman, che ha fornito una chiave di lettura significativa per interpretare i
mutamenti intercorsi nella società postmoderna, facendo del concetto di liquidità la metafora
dell’attuale fase dell’epoca moderna. Nelle parole del nostro Autore, “I liquidi, diversamente dai
corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo
spazio e non legano il tempo. Laddove i corpi solidi hanno dimensioni spaziali ben definite ma
neutralizzano l’impatto - e dunque riducono il significato - del tempo […], i fluidi non conservano
mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla; cosicché ciò che conta
per essi è il flusso temporale più che lo spazio che si trovano a occupare e che in pratica occupano
solo per un momento.” (2002, p. VI).
È in quest’ambito che si collocano il mercato ed il consumatore che, come accade per ogni
altra realtà e per ogni altro attore sociale, non sono esenti dalle conseguenze di questo nuovo
scenario. Lo si nota già a partire dai due termini, mercato e consumatore, che appaiono sempre più
inappropriati a descrivere le complesse realtà sottostanti.
Il termine mercato, adatto per descrivere l’arena in cui si confrontavano le strategie delle
imprese, non lo è più per descrivere la globalità degli atti di consumo. Come dice il Fabris, “Il
mercato è oggi il sociale che, fra le sue manifestazioni, include anche quella del consumo.” (1995,
p. 2 ).
5
Con il termine consumatore si definisce l’individuo che, tra le sue varie aree esistenziali,
esprime anche quella del consumo. Si tratta, di un attore sociale espressione delle tante microstorie
in cui si frammenta il vivere di oggi. Esso è, per definizione, sempre diverso dal passato. Un
soggetto in costante evoluzione poiché si trova immerso nel grande flusso del cambiamento che
raggiunge ogni sfera della nostra esistenza e che riguarda la tecnologia, il sociale, l’economico.
Ma non è stato sempre così. Infatti, nonostante sia stata l’era della modernità a fregiarsi
dell’appellativo di società dei consumi, il consumo resta in quest’epoca un’area largamente
marginale. L’etichetta di società dei consumi era stata per lo più utilizzata per sottolineare alcuni
fatti oggettivi: il forte e continuo dilatarsi del mondo delle merci, totalmente opposto alla penuria
delle altre epoche; l’ingresso di vari segmenti della popolazione nella società dell’affluenza;
l’aumento del reddito discrezionale. In quest’epoca, il consumismo veniva denunciato come una
delle più inquietanti patologie della società.
In realtà, però, al consumo nella modernità non viene quasi mai riconosciuto uno statuto
epistemologico autonomo, una propria specificità, poiché esso dipende in tutto e per tutto dalla
produzione. È la produzione ad essere oggetto di attenzione, di studi, di riconoscimenti e di
legittimazione sociale.
Questo avviene anche quando il fordismo lascia il posto ad altri sistemi di produzione ed
essa si fa più computerizzata e flessibile. Nonostante l’enfasi passi, in questa fase, dalla produzione
di beni alla produzione di servizi, il primato della produzione non viene intaccato. Come sostiene il
Fabris, anche qualora venga attribuito un senso allo studio del consumo lo si fa “per concentrarsi
sui significati che la produzione gli attribuisce, e alla cui elaborazione l’utente finale non
contribuisce affatto.” (2003, p. 16).
Tale predominio resta inalterato anche quando si supera la tradizionale concezione
economicista del consumo e le si attribuiscono significati di altro genere come può essere quello
comunicativo. Il consumo, in questo momento, non viene visto che come manipolazione,
persuasione più o meno occulta, operata dall’industria.
Cessa poi di “essere una semplice appropriazione di profitti e valori d’uso per diventare
consumo di segni ed immagini.” (Featherstone, 1994, in Fabris, 2003, pp. 16-17). Solo allora si
inizia a parlare di cultura del consumo.
È nell’era della postmodernità che il consumo assume una centralità ed una crucialità fino a
quel momento inediti, scalzando il primato della produzione e divenendo linguaggio di se stesso;
apparendo come un metalinguaggio con il quale comunichiamo, attraverso le nostre scelte, a noi
stessi e agli altri. “Posso acquistare un bene all’interno del variegato sistema di codici con cui
comunico la mia identità, per affermare – come voleva la teoria vebleniana – il mio status ma
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anche per comunicare i miei stati d’animo, il mio sistema di valori o i miei stili di vita, per
segnalare l’appartenenza a un gruppo o, al contrario, unicità e distintività. E ancora per esprimere
la mia capacità di scelta, il mio buon gusto, per appagare il mio senso estetico ed il desiderio di
contornarmi di cose belle.” (Fabris, 2003, p. 19).
Il consumo diventa, in questo modo, un’area ricca a cui attingere ai fini dello studio della
struttura e della dinamica sociale.
Da tutto ciò emerge un nuovo tipo di consumatore. Mentre le scienze economiche e il
marketing hanno a lungo sostenuto che questo soggetto privilegiasse, prima di tutto, le dimensioni
economiche (reddito disponibile; costo dei beni) e poi la massimizzazione dei benefit raggiungibili,
attualmente sembrano essere la risoluzione dei problemi ed il senso attribuito alle merci le
dimensioni più appropriate a definire l’orientamento del consumatore.
Per molto tempo, la rappresentazione del consumatore nel suo agire di consumo ha oscillato
tra la figura dell’homo oeconomicus, attore razionale, attivo e sovrano nel massimizzare il
vantaggio, nel destinare le scarse risorse a disposizione per acquistare prodotti e servizi, e quella
dell’individuo passivo, one dimentional e alienato, facilmente manipolabile dalle forze di mercato
che lo costringono a consumare secondo le logiche di riproduzione delle strutture dominanti.
Questa dicotomia è rappresentata, da un lato, dalla funzione keynesiana in cui il
consumatore diviene un anello meccanico tra reddito e consumo. Con il suo approccio Keynes
sterilizza i movimenti individuali, considera come date le preferenze e le aspettative e perde di vista
le interdipendenze delle influenze reciproche tra consumatori. Dall’altro, da L’uomo a una
dimensione di cui parla Marcuse, che è conformato sin nelle istanze più profonde ai bisogni di
produzione e consumo della società capitalistica. Secondo Marcuse, le persone si riconoscono nelle
loro merci e “trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa
a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla società
è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto.” (Marcuse, 1967,
p. 16 in Minestroni, 2010, p. 16).
La conseguenza di questa polarizzazione di vedute è stata il diffondersi di un luogo comune
secondo il quale la società dei consumi è l’età del libero mercato, dello shopping e
dell’iperconsumismo. Occorrerebbe, invece, assumere la prospettiva di una centralità del consumo
così come in passato, con l’apparire della modernità industriale, si era fatto con la centralità della
produzione.
L’ampliarsi della gamma dell’offerta, delle tipologie distributive; il superamento dell’effetto
di dipendenza dalla marca e la sensibilità al prezzo, hanno portato l’individuo consumatore a godere
di un’autonomia sconosciuta in passato. Come sostiene anche il Fabris, in nuovo consumatore è
7
eclettico, pragmatico, orientato nelle sue scelte dal case by case approach, un orientamento che
genera modelli di consumo non più nella forma di quella trama lineare a cui si era abituati, ma più
simile ad un patchwork costantemente cangiante.
Le peculiarità principali del nuovo consumatore sono il suo essere:
autonomo. Si è scrollato di dosso la tradizionale subordinazione nei confronti della
produzione, è divenuto più critico (non nel senso di antagonista ma di dialettico),
rivendicando maggiore discrezionalità nelle scelta. A questo proposito sembra essere sparita
la deferenza nei confronti dell’autorità della marca;
competente. Ha acquisito molte più informazioni sulle sue scelte di consumo ed ha
sviluppato un adeguato set di conoscenze e di sensibilità merceologiche. Le conseguenze per
chi produce non sono di poco conto;
esigente. Richiede sempre più da chi produce e vende, non in termini di quantità ma di
qualità, di prestazioni, di strategia di attenzione alle sue esigenze;
selettivo. È in grado di muoversi con sufficiente disinvoltura nei confronti dell’iper-offerta
del mercato. Ha imparato che non è tutto oro quello che riluce, e questo ha comportato
l’entrata in crisi dell’aprioristica fedeltà alla marca. Ha adottato, per i settori merceologici
che più lo interessano e dopo una serie di sperimentazioni, un carnet di due o tre marche tra
cui scegliere e l’opzione avverrà di volta in volta sua base di ciò che l’alternativa ha in più
da offrire;
orientato in senso olistico. Ai fini della scelta coinvolge tutte le dimensioni in gioco: in
particolare i valori simbolici e i significati sociali visto che il consumo è ormai divenuto un
meta-linguaggio con cui si comunica e si esprime la propria identità;
disincantato. Dimostra un crescente pragmatismo e realismo nei confronti del mercato
(Fabris, 2003).
Come afferma Minestroni, parlare di consumatore oggi è divenuto riduttivo poiché, prima
ancora di un’unità economica che compie acquisti di beni e servizi sul mercato, egli agisce
socialmente rimanendo un attore sociale. Pertanto opportuno parlare di individuo-consumatore
dato che non si diventa altro da se per il semplice fatto di consumare (Minestroni, 2010).
A fronte di quanto detto fino ad ora si evince come, ad essere cambiati, non siano solo i concetti
di mercato e consumatore, ma l’intero paradigma entro cui essi si articolano, e di cui complessità e
turbolenza - due concetti che bene esprimono, in modo semplice e rapido, le caratteristiche della
società a cui le imprese rivolgono la produzione – sono i cardini. Mentre nel vecchio paradigma
l’orientamento al prezzo ma anche alla maggiore qualità possibile, l’attenzione alle performance ma
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anche alla dimensione semiotica delle merci, apparivano comportamenti contraddittori, nel nuovo
paradigma assumono significato e coerenza.
“I vecchi assiomi del consumo dipendente dalla produzione devono essere rivisti: oggi l’individuo
mostra una crescente indipendenza nelle scelte, si è trasformato in un professionista dell’acquisto
che, dimentico di antiche soggezioni e reverenze, tende a ottimizzare il rapporto prezzo/qualità in
ciò che compra.” (Fabris, 1995, p. 9 ).
1.2 Dal consumo di classe agli stili di vita
Nell’ambito delle problematiche del marketing, l’area della segmentazione del mercato
costituisce quella in cui si registra una maggiore approssimazione e indeterminatezza. È però di
importanza cruciale perché segmentare il mercato rappresenta il presupposto stesso per intervenire
con successo su di esso. Per riuscire in questo intento è necessario guardare al mercato ed al
consumatore con le lenti che ci vengono fornite dal nuovo paradigma di cui abbiamo sopra parlato.
Se si accetta il nuovo modello del rapporto tra mercato e consumatore ci si renderà presto
conto che la forma di segmentazione più utile è quella rappresentata dagli stili di vita, di cui
atteggiamenti e comportamenti di consumo rappresentano la parte più consistente.
La segmentazione per stili di vita è il frutto delle trasformazioni del sistema di divisione sociale.
Vediamo come queste si sono andate articolando nel tempo.
Per tutta l’epoca della modernità e alle soglie della postmodernità, il consumo è stato
interpretato come status symbol, indicatore di prestigio e di classe sociale, e come linguaggio della
produzione che ha ridotto la multidimensionalità del consumo a pensiero unico. Era, infatti, il tipo
di professione a fornire all’individuo un’identità sociale, affiancata in maniera marginale dal
reddito, dalla scolarità, dalla famiglia di provenienza e dalla zona di residenza. In base allo status
professionale si supponevano i consumi che ciascuno avrebbe dovuto adottare. Potevano esserci
variazioni, ma queste si presentavano in maniera limitata. Il principio della coerenza era il
paradigma più consolidato per dare spiegazione dei comportamenti e delle scelte di consumo.
In origine la società era ordinata in base alle classi sociali, e la struttura di classe si basava su
due classi espressione e portatrici di interessi contrapposti. Il passaggio dall’una all’altra classe era
difficile, se non impossibile, e i modelli di consumo erano differenziati: omogenei nelle classi
subalterne; eterogenei e privilegiati in quella egemone.
L’etica prevalente era quella puritana, che aveva come valori quelli della parsimonia e del
risparmio, conquistati duramente e tenacemente. Una volta che questi compiti erano stati portati a
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compimento, e l’accumulazione ed il risparmio si erano trasformati talora in vere e proprie fortune,
la borghesia appena arricchitasi si trova a vivere in un vuoto etico.
È in questa fase che si passa alla stratificazione sociale articolata lungo un continuum, che
va dagli upper-upper ai lower-lower. In questo tipo di sistema il passaggio da uno strato all’altro è
possibile e socialmente desiderato. Thorstein Veblen è stato il primo autore ad individuare come,
alla fine dell’Ottocento, con la comparsa sulla scena dei nuovi ceti borghesi ed industriali, la
principale caratteristica del consumo fosse diventata la sua natura vistosa ed ostentativa. Gli
individui sarebbero mossi nei loro comportamenti di consumo non più dalla necessità di soddisfare
bisogni biologici, bensì da una volontà di spreco determinata dalla necessità di ostentare
socialmente la quantità di prestigio e di onore interna al proprio status, il quale deriva dalla
ricchezza monetaria posseduta.
La massima aspirazione a cui tutti tendono è quella del successo economico che, una volta
raggiunto e nel grado in cui viene raggiunto, deve essere esibito ed ostentato con consumi che
divengono prova visibile a tutti della conseguita virtù.
La società viene immaginata da Veblen come una piramide, al cui vertice si troverebbe la
classe agiata, la quale sbandiera tutta una serie di consumi che le consentono di attestare la propria
superiorità in termini di ricchezza ed il proprio status sociale prestigioso
4
.
Successivamente, tali consumi si diffondono lungo tutta la piramide sociale, a seguito del
fenomeno di trikling down, il quale consiste nel fatto che “i membri di ogni status accettano come
loro ideale di onorabilità lo schema in auge nello strato immediatamente superiore e impiegano le
loro energie nel vivere secondo questo ideale.” (Fabris, 2003, p. 54).
Una volta che le scelte di consumo degradano ai livelli inferiori tendono ad essere
abbandonate dalla classe superiore, che le aveva adottate originariamente, perché non vengono più
ritenute qualificanti.
4
Il tutto può avvenire attraverso due distinte strategie: “l’agiatezza vistosa (conspicuous leisure), è uno spreco di
tempo, che consente di dimostrare di essere così ricchi da non avere bisogno di lavorare; il lavoro diventa pertanto
disdicevole e le occupazioni considerate onorevoli sono quelle improduttive: «il governo, la guerra, gli sport e le
pratiche devote», ma anche imparare la buona educazione, l’etichetta e le lingue morte o dimostrare di poter
mantenere delle persone (la moglie e i servitori) che sprecano anch’esse il proprio tempo, in quanto non svolgono
attività produttive;
il consumo vistoso (conspicuous consumption): è uno spreco di beni di lusso, praticato attraverso l’acquisto e
l’ostentazione di nuovi abiti e, in generale, nuovi beni di consumo di lusso; anche in questo caso è possibile dimostrare
la propria ricchezza in via indiretta, facendo godere altre persone (la moglie, la servitù, gli ospiti di un ricevimento)
del consumo di beni effettuato. (Codeluppi V., 2007, Manuale di sociologia dei consumi, Roma, Carocci editore, p. 61)
10
Occorre però fare una precisazione. Nonostante La teoria della classe agiata sia un testo
molto interessante che da anche una spiegazione del fenomeno che ormai tutti conosciamo come
moda, prende però in esame un contesto molto particolare: quello degli Stati Uniti a cavallo tra
Ottocento e Novecento. La società americana è, in questo periodo, fortemente integrata e senza
classi sociali, ma stratificata in differenti status e con una elevata mobilità individuale al suo
interno. Nonostante la dinamica appena descritta, che si può coniugare nell’uguaglianza valore =
ricchezza = consumi, sia divenuta successivamente operante nel resto dell’Occidente, c’è stato chi
ha sostenuto che il modello di Veblen non sia applicabile ai paesi europei, e soprattutto all’Italia
moderna, visto che questi sono segmentati in classi sociali rigidamente separate da valori morali
specifici ed inconciliabili tra loro. Secondo Francesco Alberoni, infatti, in Europa l’equazione tra
ricchezza e valore viene adottata soltanto dalla classe dominante, a causa della sua vicinanza alla
classe al potere, mentre operai e contadini preferirebbero restare al proprio posto non ritenendo
adatto a loro lo stile di vita borghese (Fabris, 2003; Codeluppi, 2007 ).
La posizione di Alberoni è stata invalidata dallo sviluppo in Europa, nel corso degli ultimi
decenni, di un processo di omogeneizzazione della società e delle differenti etiche di classe. È
infatti andata scomparendo quella società arcaica ed in transizione dal rurale all’urbano che il nostro
Autore si trovava davanti nel corso dei primi anni sessanta.
La successiva evoluzione sociale ha visto a poco a poco scomparire le classi e farsi largo lo
strato cuscinetto che si era creato tra borghesia e proletariato. Il mercato si connota adesso sempre
più in termini di massa, in termini di risposta ad una domanda omologata. La produzione si basa
sulla serialità, sull’uniformità, consentendo alle aziende di abbattere i costi e massimizzare i profitti.
“Il consumatore medio; il prodotto ecumenico; la serialità; la crescente omologazione dei gusti,
delle preferenze; la figura oleografica della massaia […] sono i referenti con cui hanno flirtato
intere generazioni di operatori del marketing.” (Fabris, 1995, p. 84).
In realtà, l’ipotesi dell’emergere di una società composta da un unico, gigantesco, ceto
medio indifferenziato è stata contraddetta da un’ampia serie di evidenze, tutte orientate in direzione
di una crescente frammentazione sociale, non solo data da una differente distribuzione del reddito,
ma da differenti modi di pensare e agire.
Ad un primo sguardo il comportamento del consumatore postmoderno ci sembra sempre più
imprevedibile visto che l’agire di consumo è sempre più caratterizzato da incoerenze e
contraddizioni. Questo a causa del fatto che il paniere di ogni consumatore ha al suo interno una
serie eterogenea di merci, che appaiono incoerenti tra loro e che sembrano sottendere una sorta di
“schizofrenia di fondo.” (Fabris, 2003, p. 91).
11
In verità, come sostiene il Fabris, la società postmoderna si caratterizza per una molteplicità
di identità pluricentriche che ciascuno di noi interpreta e che coesistono in maniera coerente e
armonica. Il fatto che il consumatore postmoderno sia caratterizzato da questo insieme plurimo di
identità fa apparire le sue scelte di consumo contraddittorie dal punto di vista degli altri, ma in realtà
esse trovano coerenza interna alla luce delle molteplici identità.
L’unidimensionalità delle scelte viene pertanto sostituita dall’eclettismo.
Occorre abbandonare lo status socioprofessionale come indicatore dei consumi di ciascun
individuo e concentrarci sugli stili di vita.
Il concetto di stile di vita è uno di quei concetti che, nonostante siano molto usati nelle scienze
sociali e della comunicazione, non sono mai stati definiti chiaramente. Vergati (1996) sostiene
come lo stile di vita possa essere riferito non solo a singoli individui ed inteso come ricerca ed
espressione di individualità e distinzione; ma anche alla collettività, nella misura in cui i membri
che vi appartengono siano simili tra loro, e diversi dagli altri, per quanto riguarda la loro
disponibilità di reddito e le motivazioni che accompagnano tale distribuzione. secondo una
definizione semioperativa di stile di vita è:
a. / un insieme tendenzialmente unitario di preferenze espresse da un singolo attore sociale o da
un gruppo, negli ambiti più rilevanti della vita privata e sociale,
b. / relativo alle risorse culturali e materiali di cui si dispone,
c. / riferibile ad un sistema valoriale, consapevole o inconsapevole,
d. /conforme alle attitudini proprie del gruppo di riferimento,
e. Esprimendo le quali si ottengono
e. 1 / un’identificazione individuale e sociale
e. 2 / e/o una posizione ed un prestigio sociale specifici.
Mentre lo status sociale nelle stratificazioni è rigorosamente codificato, gli stili di vita sono
sempre più permeabili; capita in diversi momenti della vita di dover/voler cambiare stile e ciò
avviene per ciascuno con relativa facilità
Alla luce di quanto detto si può concludere che gli individui-consumatori si aggregano per
tipologie di domanda non più dipendenti dai tradizionali parametri demografici, né dal reddito. È il
condividere un medesimo stile di vita l’elemento distintivo dei nuovi aggregati sociali.
La frammentazione sociale per stili di vita si caratterizza per:
1. l’adozione, spesso inconsapevole e irrazionale, di modi di pensare e comportarsi simili in
tutti i campi della vita sociale ed individuale; la condivisione di uno stesso sistema di valori;
l’espressione di opinioni e atteggiamenti omogenei. Le scelte di consumo rappresentano, a
12
questo proposito, uno dei fattori più significativi di omogeneità per chi condivide uno stesso
stile di vita. Il sistema di coerenze si rileva a livello dello standard package complessivo
dei consumi;
2. la libera scelta dell’individuo di optare per uno stile di vita piuttosto che per un altro;
3. un numero limitato di stili di vita possibili;
4. l’assenza di barriere rigide che impediscano il passaggio da uno stile di vita all’altro. Lo stile
di vita rappresenta, infatti, un sistema aperto, che può essere liberamente cambiato in
qualsiasi momento del ciclo di vita, sia sulla base di motivazioni interne, sia sulla base di
influenze esterne, ma anche da una combinazione di esse;
5. gli stili di vita non possono essere organizzati gerarchicamente. Questo non impedisce la
scomparsa del problema del potere e dei rapporti fondati su di esso, ma rende impossibile
dedurre il potere detenuto da un individuo o da un gruppo. Sulla base dello stile di vita è
invece possibile intuire cosa un individuo pensa o come si comporta in una serie di aree,
prima di tutte quella dei consumi;
6. infine, diviene un importante ordinatore e semplificatore della nostra esistenza perché rende
disponibili criteri abbastanza chiari per districarsi nel labirinto delle scelte.
1.3 Tratti dell’evoluzione del valore sociale della merce
Il passaggio dalla società moderna a quella postmoderna, dal consumo di classe agli stili di
vita, da un’identità di status ad una frammentata e pluricentrica ha comportato delle conseguenze
sul modo di considerare i beni di consumo. In questo paragrafo ci si concentrerà proprio su questo
aspetto, andando ad indagare l’evoluzione del valore sociale della merce.
Originariamente il consumatore selezionava ed acquistava un determinato bene sulla base
delle sue prestazioni funzionali, sull’utilità data in relazione alle caratteristiche oggettive del
prodotto. Oggi si è invece passati a prendere in considerazione tutta una serie di funzioni e
significati prima non valutati. Nelle società moderne, infatti, molti beni sono stati risemantizzati e
coinvolti in un processo più generale di attribuzione di senso. Si è passati dal considerare il
consumo sulla base della teoria utilitaristica ad una sua considerazione nei termini di quella che
Vergati (1996), riprendendo un’espressione di Pierre Bourdieu, definisce “cultura del consumo”,
che si è configurata negli anni Ottanta e Novanta come campo scientifico, il cui approccio allo
studio del consumo consiste nel considerarlo portatore di un significato di valore di scambio
anziché di valore d’uso.
La merce assume così una forma duplice, scomponibile in:
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a) denotato, che descrive la fisicità dell’oggetto, la sua dimensione invariante;
b) connotato, costituito dal patrimonio associativo e semantico attribuito al bene. A sua volta, il
connotato può essere sdoppiato in una componente soggettiva, idiosincratica, che riflette le
esperienze uniche di ciascun individuo con quell’oggetto; e in una componente ricorrente e costante
in tutti gli individui.
Studi recenti sul consumatore danno ormai per scontato che i prodotti abbiano un loro
contenuto simbolico e siano valutati ed acquistati sulla base soprattutto di questo. Oltre alla
funzione d’uso, perciò, i connotati rimandano a tutta un’altra serie di funzioni che i beni possono
svolgere: una funzione ludica, di relazione, psicologico-affettiva, comunicativa e semiotica.
Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, le motivazioni che spingevano gli individui
ad acquistare determinate merci erano ancora legate alla soddisfazione di bisogni fisiologici
primari. Pertanto, i prodotti acquistati con più frequenza erano i beni di prima necessità, come il
cibo e l’abbigliamento. Inoltre, essendo la società stratificata in classi sociali, e selezionando
ciascun individuo i prodotti sulla base del reddito disponibile, i consumi erano omogenei all’interno
della stessa classe ed eterogenei rispetto alle altre. L’enfasi era posta, ai tempi del passaggio dalla
società tradizionale a quella moderna, sull’importanza del ruolo sociale della merce, considerata
come uno degli indicatori fondamentali che consentono di definire l’individuo dal punto di vista
dell’appartenenza ad un determinato ceto sociale.
Le cose iniziano a cambiare quando le scelte del consumatore non sono più orientate dai
bisogni ma dai desideri, e si passa dalla società del consumo alla cultura del consumo.
L’orientamento del consumatore non è più diretto nei confronti di quelle merci che denotano un
legame con il gruppo di appartenenza, bensì con quello di riferimento (Merton, 1949).
Capita spesso che i gruppi di riferimento siano superiori, quanto a ceto, rispetto a quelli cui
l’attore sociale appartiene e ciò si traduce nell’inseguimento di uno status più alto attraverso il
consumo vistoso, al fine di dimostrare la propria appartenenza alla classe di riferimento. In questo
caso gli stili di consumo costituiscono il mezzo attraverso il quale viene dimostrato di possedere i
requisiti idonei per entrare a far parte del gruppo prescelto. Come sostiene Vergati, “l’adozione di
stili di vita e stili di consumo tipici di gruppi di riferimento appartenenti a strati superiori a quello
di appartenenza ha come destinatari principali coloro che appartengono al gruppo del quale si
vorrebbe entrare a far parte: gli stili di consumo in tal modo sono mezzi per affermare la propria
identità che agiscono trasversalmente alle classi.” (1996, p. 113).
Questa prospettiva vede la società moderna come caratterizzata dalla cultura dei consumi, in
cui il consumo rappresenta un mezzo di comunicazione sociale. Prende forma la merce-segno,
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poiché il consumo porta ad una manipolazione dei segni, sia da parte del consumatore sia da parte
dei media, rendendoli disponibili ad una utilizzazione in molteplici relazioni associative.
Per quanto riguarda i prodotti che svolgevano una maggiore funzione in termini di
connotazione di status, essi cambiano a seconda dei periodi storici. In un primo momento si
trattava di beni considerati “di lusso”, come i gioielli, l’abitazione, l’automobile, la dotazione di
certi elettrodomestici, i luoghi dove trascorrere le vacanze. Ma la simbologia di status è arrivata
anche a codificare le microscelte della nostra quotidianità; ad esempio alcuni alimenti, i capi
d’abbigliamento, la frequentazione di certi ambienti.
Con l’avvento della società di massa, i consumi subiscono una nuova trasformazione
divenendo consumi di massa. A questo proposito il riferimento d’obbligo è a David Riesman, che
mette a punto il concetto di standard package, con cui intende indicare la quantità e il tipo di spese
che gli individui vivono come obbligate per sentirsi parte del sistema sociale. Quando parla di
standard package Riesman si riferisce a “un complesso di merci e di servizi comprendente alcuni
articoli domestici come il mobilio, la radio, la televisione, il frigorifero e marche standardizzate di
cibo e vestiario.” (Riesman, 1969, p. 21, in Codeluppi, 2007, p. 68).
Negli anni Cinquanta lo standard package presentava nella società americana una notevole
uniformità e possederlo significava poter comunicare di essere parte dell’ampia classe media.
Ovviamente delle variazione che consentivano al singolo individuo di qualificarsi come possessore
di uno stile di vita specifico erano possibili, ma marginali. Lo standard package, inoltre, variava
collettivamente nel tempo in base alla continua comparsa di nuovi beni sul mercato.
In Italia il concetto di standard package è stato adattato al contesto da Francesco Alberoni,
che ha preferito parlare di beni di cittadinanza, espressione con cui indica i nuovi beni immessi sul
mercato dalle industrie, i quali consentivano a chi proveniva da una cultura rurale ed arcaica di
comunicare l’appartenenza alla società urbana e moderna. L’Italia di quegli anni viveva una forte
spaccatura tra un nord sviluppato in pieno boom economico ed un sud arretrato da cui moltissimi
emigranti partivano, e il desiderio di questi beni indicava la volontà di integrazione.
Nella società postmoderna, accanto al modo di concepire la merce come mezzo per attestare
l’appartenenza a determinati gruppi sociali, si è andato costituendo quello secondo cui il consumo
di determinati beni e servizi serva al consumatore per narrare, a sé stesso e agli altri, la propria
identità; per affermare di avere dei propri gusti; per dimostrare di esistere.
È sulla base di questo nuovo modo di concepire e costruire l’identità che si sta sviluppando
la tendenza ad una cultura che sembra mobilitare sempre più il ricorso ai sensi nella valutazione e
nella percezione del mondo che ci circonda, perché si ritiene che siano proprio i sensi a fornircene
una visione più immediata e autentica.
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