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1. La famiglia.
In genere la famiglia è un sistema “problem solving”, caratterizzata da una certa
tendenza all’autoreferenzialità, alla ricerca, al proprio interno, delle risorse e delle
risposte ai problemi che di volta in volta si propongono durante la vita. Tale tendenza
può essere peraltro ambivalente: da un lato, in positivo, evidenzia un fondamentale
atteggiamento di responsabilità e responsività che determinano, a loro volta, una facile e
immediata chiusura verso l’esterno, il rifiuto di chi sta fuori, la difficoltà stessa di
chiedere aiuto. Sempre più spesso, nella società contemporanea, le famiglie si trovano
di fronte a sfide che superano le stesse capacità di risposta autonoma e subito sorge
spontaneo l’interrogativo: quali sensazioni prova la famiglia nel momento in cui apre la
propria porta di casa per pronunciare quella richiesta di aiuto? Molto spesso l’esperienza
sperimentata è quella dell’aumento dei problemi, dell’incertezza del viaggio in un paese
ignoto, di una turbolenza esterna che spesso si aggiunge alle innumerevoli difficoltà
interne, anziché mitigarle.
Così ci si interroga sull’organizzazione dei servizi, sul ruolo del terzo settore,
sulle risorse sempre più scarse, sulla complessità delle leggi, sull’assenza di strumenti
specifici … tutti aspetti essenziali, tutte risorse decisive per il benessere della famiglia,
ma la cui problematicità rischia a volte di coprire la voce di chi, in prima persona,
quotidianamente, con-vive con la disabilità, e rimane un insostituibile ambito di vita per
il disabile. Sono dunque le famiglie gli esploratori del mondo esterno, alla ricerca di
risorse, strumenti, aiuti , soluzioni per il proprio familiare disabile; ma ogni esploratore
vede quello che riesce a vedere, e se c’è tempesta, il suo sguardo riuscirà a cogliere solo
pochi elementi, solo pochi punti,e magari, presto o tardi, non riuscirà ad arrivare nel
posto in cui ci sarebbe davvero una risposta adeguata, la risposta auspicata.
Fuor di metafora, è certamente necessario costruire una rete adeguata di
interventi, ma se questi non sono accessibili, visibili, comprensibili alle famiglie, essi
rimarranno inutilizzati; ci sono ovunque imprecisioni normative, giudizi unilaterali,
evidenti debolezze teoriche, assenza di informazioni «ovvie» per un operatore del
settore … ma questa è la realtà, questo è il dato con cui occorre primariamente
confrontarsi. Il paradosso sta proprio in questa “ineluttabilità” del compito di cura della
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famiglia, che si trova a doversi comunque misurare con un incarico che la supera, ma da
cui non può esimersi.
La dimensione familiare, per la grande maggioranza dei portatori di handicap,
rappresenta l’“ecosistema fondamentale di riferimento” (R.Cavagnola), pertanto le
proposte educative degli operatori devono avere accoglienza all’interno della famiglia
stessa, altrimenti qualsiasi intervento non può avere successo, né avrebbe gran senso
costruire un intervento avulso dal contesto familiare.
La conoscenza del nucleo familiare è indispensabile per esplorare l’ambiente di
vita dell’utente per le seguenti ragioni: ottenere dati anamnestici (sanitari e
psicosociali); esplorare i fattori frustranti dei comportamenti problematici; intervenire
sui singoli membri al fine di realizzare il benessere del membro disabile nell’ottica
inclusiva.
Dalla letteratura e dall’analisi di dati qualitativi e quantitativi, si possono
individuare le seguenti difficoltà ricorrenti della famiglia di soggetti in situazione di
disabilità, spesso manifestate nel delicato rapporto tra famiglia/ struttura educativa e
riabilitativa. Gli atteggiamenti assunti possono essere di delega, latitanza e polemica;
intendendo con la prima l’atteggiamento della famiglia che demanda in toto alla
struttura la gestione e la cura del figlio, disinteressata alla sua formazione educativa e
della sua crescita personale. La seconda modalità, la latitanza, è proprio di uno dei due
genitori, che delega al partner, oltre che alla struttura, la gestione e la cura del figlio. Il
terzo approccio familiare, di carattere polemico, lo si riscontra laddove i genitori
criticano più o meno incondizionamente le iniziative della struttura, senza concedere
spazi al cambiamento, chiedendo servizi efficienti, ma rispondendo alle proposte di
coinvolgimento mediante l’assunzione degli atteggiamenti sopra citati. L’atteggiamento
polemico interrompe ogni iniziativa, le proposte che provengono dai servizi vengono
rifiutate con tonalità volutamente provocatorie, con unico scopo quello di condurre
battaglie aggressive delle proprie idee ignorando i contenuti delle proposte
effettivamente fatte.
Questi atteggiamenti possono coesistere, essere cristallizzati, oppure comparire
sporadicamente anche in forma variamente sfumata. Ci può essere una latitanza dietro la
quale si nasconde la polemica, oppure una o più aspettative poco realistiche, o una netta
confusione di ruoli e atteggiamenti illusori di cambiamento.
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Tutto ciò trova comunque la sua motivazione nelle più tipiche dinamiche
familiari che si intessono laddove uno dei membri è in una situazione di disabilità.
La famiglia può dunque reagire adottando i seguenti comportamenti che vanno
ad aggiungersi ai precedenti tre: iperprotezione, assunzione di aspettative irrealistiche,
confusione di ruoli, depressione, ansia e paura e infine il generarsi del senso di colpa
(Fig. 1 ).
Le reazioni familiari
Fig.1 Le reazioni familiari. (Singer e Irvin, 1991)
L’iperprotezione si ingenera laddove il disabile è unicamente considerato
soggetto bisognoso di aiuto costante e ogni proposta orientata a sviluppare l’autonomia
trova resistenze e rifiuti. Lo sviluppo di aspettative irrealistiche prevede che la famiglia
si aspetti dalla struttura e dalla sua azione educativa/riabilitativa, un ritorno alla
“normalità” del figlio, esprimendo più o meno chiaramente l’attesa di una piena
guarigione. Data la gravità delle situazioni cliniche, tali aspettative irrealistiche si
accompagnano ad un profondo e costante senso di fallimento e di depressione. La
cosiddetta confusione di ruoli prevede che i genitori ritengano di sapere cosa serva
realisticamente al figlio e negano che tali capacità possano essere possedute da altri, per
esempio dagli educatori. Possono allora rifiutare le proposte, o svalutarle fino al
sabotaggio. La famiglia cristallizza i problemi ignorando qualunque forma di
SENSO DI COLPA
DEPRESSIONE
ANSIA
PAURA
MANTENIMENTO
DEL PROBLEMA
RIFIUTO
DEGLI INTERVENTI
ASPETTATIVE
IRREALISTICHE
IPERPROTEZIONE
FAMIGLIA
DEL DISABILE
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cambiamento, gli operatori incontrano così difficoltà di azione e intervento, rischiando
di infrangere l’omeostasi familiare. La depressione consiste in un grave stato emotivo,
al quale si accompagna il non riconoscimento dei progressi o delle potenzialità del
figlio. Il senso di fallimento per la dolorosissima esperienza della nascita di un figlio
con gravi problemi è comune, merita rispetto e grande attenzione nello smuovere
problemi profondi, ma è compito degli educatori essere pronti e accorti ad aprire spazi
d’intervento non appena se ne realizzi la possibilità. Ansia e paura sono stati d’animo
strettamente collegati al cosiddetto mantenimento del problema, poiché, la paura dei
cambiamenti, del futuro e dell’autonomia del figlio, generano la progressiva
cristallizzazione delle difficoltà. Il senso di colpa si genera inizialmente soprattutto nella
madre pervasa da sentimenti di impotenza nei confronti di un figlio che si dimostra fin
da subito più fragile di tutto e di tutti.
Con le dinamiche descritte devono fare i conti gli operatori dei Servizi che si
occupano quotidianamente di situazioni di disabilità.
Un primo fenomeno innegabile è il forte aspetto iniziale dell’evento, sia esso
evidente alla nascita o si scopra/ si manifesti in momenti successivi. Proprio per la forza
di tale impatto, molta letteratura sull’argomento, ne ha considerato l’effetto dirompente
sugli equilibri personali e familiari, le caratteristiche che lo assimilerebbero alla perdita
del bambino sognato e atteso e alla conseguente condizione di lutto. Si è molto parlato a
questo proposito di come la nascita di un figlio disabile renda difficoltoso per i genitori
immaginarsi un futuro, anche per la minor definizione di regole di sviluppo e di
aspettative cui fare riferimento nell’anticipare ciò che potrà accadere (Farber, 1986).
Quest’ipotesi perde tuttavia parte del suo fascino di fronte all’evidenza
esperienziale che ci sono pochi momenti nella vita delle persone in cui si è ancorati al
presente come in prossimità della nascita di un figlio. A quanti genitori succede davvero
di pensare il proprio figlio in fasce con il grembiule da scolaro o nelle vesti di un
affermato professionista? Il successo delle cure genitoriali risiede proprio nel fatto che
soddisfare i bisogni impellenti del nuovo nato e goderselo nei momenti di quiete sono
attività che occupano gran parte del proprio spazio fisico e mentale. Un bambino
disabile obbliga, in modo un po’ innaturale, a pensare al futuro, nella maggior parte dei
casi senza avere lo stato d’animo e gli strumenti per poterselo immaginare.