II
consistente nella inossidabile funzione di parametro di valori
nelle economie mondiali.
Ma questa funzione riguarda il lingotto, l’ oro comprato ad oncia
o valutato in grammi come mezzo di scambio, per gli oggetti
ricavati da una sapiente lavorazione bisogna impostare altre
considerazioni.
Le carature diminuiscono (si producono oggetti da 9 a 18 Karati;
i 24 Karati sono un lusso che si possono permettere solo i
rinomati maestri artigiani-artisti), la standardizzazione della
produzione aumenta e il mercato, di conseguenza, si unifica su
livelli di gusto e aspettative notevolmente più bassi.
Per i romantici, i sognatori, il vento del progresso non ha ancora
dissolto gli oggetti in oro nella banalizzazione merceologica della
moderna società dei consumi, ma gli anelli, le colliers, i bracciali,
comprati con grandi sacrifici o con un semplice addebito sulla
carta di credito, rappresentano ancora quei sentimenti e quelle
passioni che ne hanno accompagnato l’ acquisto.
Per questi eroi dalla lacrima facile, non c’ è stato fidanzamento,
matrimonio, anniversario, che non sia stato suggellato dal
“pensiero” delicato e “caro” di un regalo “d’ oro”.
Quanti sogni e quante promesse sono state accompagnate dalle
III
scatoline nere o verdi (ultimamente multicolori) contenenti i
preziosi “giuramenti”, quante emozioni hanno fatto sentire il loro
peso a distanza di anni nel riverbero lucente di oggetti preziosi.
Per questi e per altri acquirenti degli oggetti in oro il significato
affettivo legato ai gioielli non verrà mai a cadere e se pur oggi un
bracciale viene prodotto in dieci o ventimila esemplari, a
decretarne l’ unicità si leveranno sempre i valori affettivi che
esso incarna.
A difendere l’ impostazione ideologico-affettiva di un oggetto
che notoriamente “è per sempre” contribuisce, negli ultimi anni,
una riscoperta delle lavorazioni artigianali nella impostazione di
rapporti produttivi diversi da quelli della grande fabbrica
accentrata.
Questo si traduce nella organizzazione industriale che
salvaguarda in modo più accurato la flessibilità: il distretto
industriale.
In particolare la ricerca sviluppata riguarda lo studio di una realtà
che ha fatto della produzione di oggetti in oro l’ asse portante
della propria economia: la zona di Sansepolcro, inserita nel
distretto industriale di Arezzo.
Nella produzione di questa zona l’ oggetto in oro cerca di
IV
riacquistare la prerogativa di prodotto artigianale, svincolandosi
dalla serialità della catena di montaggio, nella costante rincorsa
alla flessibilità produttiva.
Di conseguenza la ricerca a preso gradualmente corpo partendo
dalla definizione di distretto industriale, passando per la
descrizione delle caratteristiche del settore orafo in Italia e del
distretto industriale di Arezzo, fino ad arrivare alla presentazione
dell’ impostazione economico-produttiva della zona di
Sansepolcro ed alla seguente ricerca sul campo con il censimento
statistico delle 26 aziende della realtà zonale.
Il primo capitolo si dispiega appunto fra la definizione di
distretto industriale, nella sua dimensione storica, economica e
sociale, e la descrizione dell’ importante ruolo svolto nell’
economia italiana del dopoguerra.
Adottando la terminologia di Alfred Marshall, primo studioso a
parlare di distretti industriali, si è cercato di impostare un
discorso logico fondato sulla chiarificazione del ruolo innovativo
del modello distrettuale nella salvaguardia di un’ impostazione
produttiva capace di operare con criteri flessibili.
Questa è apparsa subito importante come risposta alla crisi della
produzione di massa con criteri seriali (la catena di montaggio
V
nell’ impostazione Ford-Tayloristica dell’ industria moderna),
infatti rompe definitivamente con una impostazione che vede,
come ultima prospettiva, il consumatore costretto ad adattarsi al
prodotto.
Con l’ analisi del distretto industriale nella situazione economica
italiana, poi, si è evidenziata anche la funzione innovativa sul
piano tecnologico ed il ruolo fondamentale nella dinamica di
sviluppo economico del paese.
Dopo i richiami teorici del primo capitolo la ricerca è scesa sul
particolare iniziando il discorso con la descrizione sommaria del
settore orafo in Italia (II capitolo prima parte).
Nella seconda parte del capitolo è cominciata la descrizione della
realtà socio economica del distretto orafo di Arezzo, con le
relative indagini conoscitive sull’ assetto produttivo di uno dei tre
maggiori poli di produzione orafa del nostro paese.
Con il dispiegarsi della ricerca, nella ricostruzione storica del
distretto e nella chiarificazione dell’ impostazione economica
odierna, ha cominciato a palesarsi la domanda sulla quale si è
retto il resto della ricerca.
Può la zona produttiva di Sansepolcro, figlia della ramificazione
del distretto industriale di Arezzo, proporsi come nuovo distretto,
VI
indipendente ed autonomo?
Con il terzo capitolo il quesito di fondo si è strutturato fino a
divenire una domanda chiara e precisa.
Il particolare si è fatto ancora più acuto con la descrizione della
zona di Sansepolcro e la ricostruzione storica della vita del locale
Istituto Statale d’ Arte, istituzione che ha contribuito fortemente
alla strutturazione della zona di produzione.
La differenziazione più grande con il distretto orafo di Arezzo è
apparsa quella fondata sulla diversificazione produttiva.
Ad Arezzo si produce soprattutto catename con criteri industriali,
a Sansepolcro si salvaguarda una certa tendenza alle lavorazioni
artigianali fondate sulla produzione per piccole serie e sulla cura
dei particolari.
In pratica la dinamica produttiva della zona di Sansepolcro
ricalca l’ impostazione artistico-artigianale che l’ Istituto Statale
d’ Arte ha contribuito a fornire.
A questo punto è sembrata inevitabile la costruzione di una
ricerca sul campo attraverso l’ indagine diretta sulla realtà.
Il capitolo quattro (l’ effettiva ricerca sul campo) è stato
strutturato con l’ ausilio di interviste dirette con i protagonisti
VII
della realtà produttiva e grazie all’ importante aiuto fornito da un
questionario ad hoc, evolutosi nel corso della ricerca. La
funzione del questionario è stata soprattutto quella di proporsi
come valido strumento censitorio della zona di Sansepolcro nella
sua caratterizzazione come centro di produzione orafa.
Raccogliendo tutte le informazioni (è stato possibile rilevare tutto
l’ universo statistico in quanto le aziende del settore sono 26) si è
acclarata la conoscenza di un settore in forte espansione
produttiva ed in continuo sviluppo occupazionale, dove la
possibilità di autonomizzarsi definitivamente da Arezzo appare
oggi probabile o perlomeno non impossibile.
La domanda sollevata nel secondo capitolo ha così ricevuto una
risposta soddisfacente che è stata espressa non prima della fine
del lavoro:
“Si, le risorse produttive ed umane” della zona di Sansepolcro
“permettono una evoluzione” in senso autonomistico rispetto al
distretto orafo di Arezzo, “ma la strada da compiere è ancora
lunga, anche se non appare tutta in salita”.
Capitolo I
Distretti Industriali.
2
1.1. La crisi della produzione di massa.
La dinamica dell’industria nella cultura occidentale è
storicamente centrata su due fondamentali modalità di
organizzazione e produzione dei beni, da una parte la produzione
di massa, che vede la grande impresa utilizzare macchine e
tecnologie standardizzate per una produzione seriale, dall’altra la
specializzazione flessibile, articolata su piccole unità
organizzative in grado di fabbricare beni in piccoli lotti con
caratteristiche quasi artigianali.
Lo sviluppo di queste modalità ha, nel corso del tempo e
nell’adattabilità dei luoghi, favorito ora l’una ora l’altra, tuttavia
negli ultimi anni il dibattito teorico si è fatto più acceso e si è
articolato sulla maggiore adeguatezza alla attuale situazione
economica della seconda rispetto alla prima.
Facendo riferimento a Piore e Sabel [1987], la produzione di
massa, così come l’abbiamo conosciuta per gran parte del XX°
secolo, appare oggi irrimediabilmente in crisi.
3
Una crisi profonda, radicata nei modelli di sviluppo di tutti i
paesi più industrializzati, crisi che è emersa pienamente
nell’ultimo decennio, ma che era già percettibile fin dagli anni
‘60-’70.
I caratteri distintivi della cosiddetta “turbolenza”
1
hanno
contribuito a rendere visibile un fenomeno che da allora in poi
apparirà sempre più insidioso.
I cinque fattori del turbolent environment sono di seguito
sintetizzati:
I movimenti sociali e sindacali degli anni ‘60, il passaggio dai
cambi fissi ai cambi flessibili per opera della politica economica
di Nixon nel 1971, la prima crisi del petrolio legata alla guerra
arabo-israeliana del Kippur e quella del grano sovietico del 1973,
la seconda crisi del petrolio scatenata dall’Iran nel 1979,
l’aumento dei tassi di interesse negli anni ‘80, prospettarono la
fine di un tipo di produzione incentrato sulla serialità, nella
costante riaffermazione del ruolo fondamentale della catena di
montaggio.
4
L’economia occidentale, fondata, sulla modalità della produzione
di massa e conseguente convinzione che lo sviluppo tecnologico
dovesse essere vincolato alle dinamiche delle grandi industrie,
prese atto che l’impostazione della produzione in questi termini
non era più adeguata ad una realtà che cominciava a richiedere
produzioni più articolate e differenziate.
Sulla base di queste considerazioni Piore e Sabel [cit.] hanno
visto nella specializzazione flessibile uno dei due possibili modi
per superare la crisi della produzione di massa
2
.
La specializzazione flessibile emerge quindi a seguito delle
richieste del mercato di produzioni differenziate con elevata
qualità di base. In realtà si tratta della riscoperta di una modalità
produttiva tipicamente artigianale, organizzata in specifiche zone
geografiche contraddistinte da produzioni complementari
sviluppate in piccoli laboratori, operanti in un’ottica di
cooperazione-competizione.
La stessa tecnologia si sviluppa in questi ambiti ristretti proprio
in seguito alla costante dialettica cooperativo-competitiva,
5
mettendo definitivamente da parte il paradigma tecnologico che
vede l’innovazione appannaggio della sola industria accentrata.
D’altra parte già alla fine dell’ottocento si pensava che
l’innovazione tecnologica potesse essere attuata in ambienti
lavorativi ridotti, in quanto le particolari strutture organizzative
della produzione permettevano l’applicazione e lo sviluppo di
tecnologie nuove, all’avanguardia dei tempi, sulla base della già
ricordata dinamica di cooperazione e concorrenza.
Le piccole aziende erano spinte a competere non attraverso un
abbassamento dei salari, con la conseguente riduzione del costo
del lavoro, ma attraverso la possibilità di sviluppare “trovate”
tecnologiche capaci di incrementare la produzione e abbassare i
costi.
Lione per la lavorazione della seta, Solingen per quella dei
metalli, Lancanshire e Sheffield per i tessuti, erano gli esempi di
un tipo di organizzazione industriale centrata sulle produzioni
artigianali in strutture specifiche, e fornivano la prova pratica
della tendenza orientata ad una ricerca costante di innovazione,
6
già nel secolo scorso.
“Un esempio spettacolare di tecnologia che riduceva i costi
dovuti al cambiamento di produzione fu il telaio di Jacquard, il
precursore delle macchine a controllo numerico. Esso fu
perfezionato per l’uso industriale tra il 1800 e il 1820 dai setaioli
di Lione, che volevano riconquistare il loro tradizionale dominio
nei mercati dei tessuti alla moda contro la crescente concorrenza
inglese, tedesca e italiana. Il telaio creava complicati façonnèes e
broccati in base alle istruzioni su schede perforate, che
sollevavano e abbassavano automaticamente e nella giusta
sequenza i fili nell’ordito.
L’uso delle schede perforate come meccanismo di controllo
ridusse sensibilmente il tempo per adattare il telaio ad un nuovo
disegno, perché, come nel programma di un moderno computer,
era possibile modificare rapidamente le schede [.......]
I fabbricanti di nastri di Saint’ Etienne adattarono il sistema di
programmazione Jacquard al telaio per nastri di tipo Zurigo,
creando in questo modo un dispositivo capace di produrre
7
simultaneamente più di venticinque nastri fantasia; i loro tentativi
di ricamare i nastri a macchina ottennero un dispositivo simile
alla macchina da cucire, che non doveva apparire in forma
compiuta se non vent’anni più tardi” [M.J. Piore e C.F. Sabel,
1987, 62].
Lo sviluppo del capitalismo impose però un cambio di
prospettiva in quanto le dinamiche di sviluppo economico di fine
‘800 e inizio ‘900, in tutte o quasi tutte le parti del mondo,
esigevano che la produzione si spostasse nell’ottica di massa con
le necessarie conseguenze sul piano organizzativo.
Sul piano teorico si andava delineando la teoria marxista dello
sviluppo incontrastato dell’economia capitalista attraverso la
concentrazione produttiva presso grandi stabilimenti, al servizio
della continua crescita e riproduzione del capitale.
“Come la forza d’attacco di uno squadrone di cavalleria o la forza
di resistenza d’un reggimento di fanteria differiscono
essenzialmente dalla somma delle forze individuali spiegate
isolatamente da ciascun cavaliere o fantaccino, nella stessa guisa
8
che la somma delle forze meccaniche di operai isolati differisce
dalla forza meccanica che si sviluppa tosto che essi funzionino
congiuntamente e simultaneamente in una medesima operazione
indivisa [.......] la cooperazione è il modo fondamentale della
produzione capitalistica” [Marx, 1996, 842].
Sulla base di questa impostazione Marx critica serratamente le
concezioni mutualistiche di Proudhon
3
, considerando
inconcludente il discorso del filosofo francese, nella prospettiva
dell’emancipazione del proletariato.
Le tesi di Proudhon verranno accantonate in conseguenza dello
sviluppo incontrastato del modo di produzione di massa, che sarà
“il paradigma produttivo” [C.F. Sabel, 1989] del XX° secolo, per
poi essere riscoperte nel momento in cui emergerà la crisi di
questo paradigma industriale.