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INTRODUZIONE
L’uguaglianza tra donne e uomini è un diritto fondamentale e un valore per
l’Unione europea. Negli ultimi decenni sono stati fatti molti progressi in
termini di parità tra i generi, basti notare il numero crescente di laureate,
l’incremento dell’occupazione femminile e non ultimi gli sforzi per una
maggior presenza di donne nelle sedi politiche decisionali.
Questa tesi vuole illustrare proprio quali sono le principali differenze tra
donne e uomini nella nostra società, ponendo l’attenzione nello specifico al
versante femminile della questione. Si prenderà inizialmente in
considerazione il panorama europeo e in un secondo momento si valuterà la
situazione italiana. L’obiettivo è quello di definire un quadro descrittivo che
prende in esame alcuni ambiti considerati particolarmente rilevanti. Una
volta illustrato il fenomeno, si cercherà di presentare le politiche che sono
state adottate dalla Comunità e dall’Unione europea e dall’Italia per
garantire la parità tra i generi.
Il lavoro si articola in tre capitoli. Il primo capitolo descrive le
disuguaglianze tra donne e uomini in tre ambiti principali: nell’istruzione
secondaria e superiore, nel mondo del lavoro e infine nei parlamenti
nazionali. La fonte principale per questa parte del lavoro è stata l’Eurostat
che ha raccolto una serie di indicatori statistici sulla disparità tra i generi in
diversi ambiti, lungo tutto il percorso di vita di uomini e donne. Qui
vengono considerati prima gli anni che corrispondo a quelli di frequenza
agli studi secondari e terziari e poi gli anni di partecipazione al lavoro.
La prima forte differenza tra i generi si registra nelle scelte degli studi: le
giovani donne scelgono per le scuole secondarie prevalentemente corsi di
tipo generale che possono essere considerati preparatori alla carriera
universitaria; al contempo i ragazzi scelgono scuole tecniche e professionali.
Anche in ragione di queste scelte si è verificato il cosiddetto “sorpasso delle
laureate”: i numeri piø alti di laureate si concentrano nelle scienze sociali,
umanistiche e nella formazione all’insegnamento. Gli studenti invece
costituiscono la maggioranza nei corsi scientifici e di ingegneria. BenchØ sia
molto cresciuto il numero delle laureate, tanto da superare quello dei
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laureati, l’occupazione femminile è ferma a poco piø del 60% contro un
tasso di occupazione maschile che sfiora il 75%. Anche in funzione delle
scelte scolastiche e universitarie può essere spiegata la segregazione
occupazionale femminile che si registra in Europa: piø della metà delle
donne occupate, infatti, lavora in una gamma ristretta di settori di impiego
quali i servizi sociali e alla persona, la sanità e l’istruzione. Queste
occupazioni sono tipicamente femminili: rispecchiano i tradizionali ruoli di
genere anche nel mondo del lavoro. Un altro aspetto negativo relativo
all’occupazione femminile riguarda la loro concentrazione nei ranghi
medio-bassi delle gerarchie aziendali. Non solo le donne si concentrano in
poche occupazioni, spesso mal retribuite, con scarse opportunità di carriera,
ma guadagnano sensibilmente meno degli uomini. Per quanto concerne la
rappresentanza femminile nelle assemblee parlamentari europee, le
statistiche mostrano una presenza media del 20%. Si rileva come il sistema
di scrutinio proporzionale incrementi i numeri delle donne in politica; si
pone poi l’accento sull’efficacia delle quote riservate alle donne stabilite
nelle leggi elettorali o discrezionalmente dai partiti.
Si evidenzia, infine, come le politiche di conciliazione tra vita privata e vita
lavorativa rappresentino un fattore essenziale per permettere alle donne
l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, soprattutto in presenza di
figli piccoli o anziani non autosufficienti. Laddove il regime di welfare offre
ricchi programmi di aiuto alle famiglie, la percentuale di donne occupate è
piø alta: il problema, infatti, è che le donne sono tuttora considerate le
principali responsabili del lavoro di cura, nonostante il modello sociale del
“maschio procacciatore di reddito” sia stato scardinato - in alcuni paesi piø
che in altri - in favore del modello del “doppio percettore di reddito”.
Il secondo capitolo passa invece in rassegna le politiche che sono state
attuate dalla Commissione/Unione europea per giungere a garantire
l’uguaglianza tra i generi. Seguendo lo sviluppo cronologico si possono
individuare tre fasi che corrispondono ai tre paragrafi del capitolo. Si
sottolinea come - in un primo momento - la Comunità si sia preoccupata di
stabilire il principio fondamentale della parità di salario tra uomini e donne
per lavori uguali. L’articolo 119 del trattato istitutivo ha una finalità
prettamente economica giacchØ contrastava la sleale concorrenza sul
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mercato del lavoro posta in essere attraverso salari bassi alle lavoratrici.
Quasi due decenni piø tardi il principio fu esteso ai lavori con uguale valore
di mercato. Nel periodo intercorso tra la firma del trattato di Roma e la fine
degli anni ’70 la Comunità ha elaborato alcune direttive diventate la base
della politica di parità tra i lavoratori sotto il profilo economico: hanno
infatti sancito la parità di retribuzione e la parità di trattamento nell’accesso
al lavoro e in materia di assistenza sociale tra uomini e donne, facendo
espressamente divieto di ogni forma di discriminazione - diretta e indiretta -
sulla base del sesso. La prima fase si conclude con un importante traguardo
ottenuto dalla Corte di Giustizia della Comunità europea che annovera il
principio della parità di retribuzione fra i diritti fondamentali grazie alla sua
valenza non solo economica, ma anche sociale.
Dalla parità formale garantita dalle numerose direttive, si passa nella
seconda fase, alla parità sostanziale tra i generi. Tra gli anni ’80 e ’90 la
Comunità prosegue il suo impegno contro le disuguali condizioni in cui si
trovano a operare uomini e donne, innanzitutto nel mercato del lavoro. Si
riconosce la necessità di favorire la categoria piø svantaggiata attraverso
azioni specifiche di discriminazione positiva tali da garantire uguali
condizioni di partenza per donne e uomini. A tale scopo la Commissione
europea elabora concreti Programmi di azione per la parità tra i generi.
Dopo anni di paralisi sociale, si riconosce l’importanza di una solida base
sociale per la crescita economica, soprattutto grazie al presidente della
Commissione Jacques Delors. In linea con questo rilancio vanno anche le
nuove direttive: gli obiettivi sono la garanzia di una maggiore sicurezza per
i lavoratori, soprattutto per le lavoratrici gestanti, e l’introduzione di
politiche di conciliazione tra vita professionale e impegni familiari con la
possibilità di congedi parentali neutri. Sono interventi legislativi volti a
tutelare i lavoratori e a offrire politiche che concretamente riducano gli
svantaggi sistemici tra uomini e donne nella società e sul lavoro. Questo
secondo periodo si conclude con la discussione - in seno alla Corte di
Giustizia della Comunità europea - sulle azioni positive: si evidenzia, in due
distinte sentenze, che la preferenza attribuita dall’azione positiva al sesso
sottorappresentato in un determinato settore debba considerarsi un
meccanismo elastico; perchØ una misura di discriminazione positiva non
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contrasti con il principio della parità di trattamento sancito dalla direttiva del
1976, non deve avere un carattere incondizionato e assoluto. L’importanza
acquisita dalle misure positive è sancita dalla loro inclusione nel Trattato
che istituisce la Comunità europea all’articolo 141 che modifica il citato
articolo 119.
L’ultima strategia adottata dalla Comunità in materia di pari opportunità tra
donne e uomini è il gender mainstreaming: consiste nel porre la questione di
genere al centro di ogni politica, in tutte le fasi di attuazione. Questo nuovo
approccio parte dal presupposto che la parità tra donne e uomini sia un
principio fondamentale della democrazia e come tale costituisca un fine
irrinunciabile per i decisori politici. Istituzionalizzato prima dalla
Conferenza mondiale sulla donna promossa a Pechino nel 1995 dalle
Nazioni unite, viene presto recepito dalla Comunità che lo affianca alle
azioni positive: le due strategie, infatti, si integrano a vicenda; mentre il
gender mainstreaming si rivolge ai due generi, non si escludono azioni
specifiche volte a rimuovere particolari ostacoli all’uguaglianza. La parità
viene poi promossa nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea:
è infatti assicurata in tutti i campi, a partire dall’occupazione, anche
mediante l’adozione di misure di discriminazione positiva in favore del
sesso sottorappresentato. La Commissione, infine, stabilisce una serie di
obiettivi finalizzati alla parità tra uomini e donne prima nella “Strategia
quadro” e poi nella “Tabella di marcia”: tra gli scopi da perseguire sono
indicati la pari indipendenza economica tra i generi, l’equilibrio fra lavoro e
famiglia e un’equilibrata partecipazione di donne e uomini nei processi
decisionali. L’obiettivo piø lontano in quanto piø difficile da raggiungere è
proprio la parità economica, nonostante il tasso di occupazione femminile
nel 2010 abbia superato il 60%, oltre le aspettative di Lisbona. Il problema
principale è legato al persistente divario tra i salari maschili e femminili.
Il terzo capitolo, infine, fa riferimento al caso dell’Italia e riprende la
struttura dei due precedenti: nella prima parte vengono infatti illustrate le
differenze tra i generi che sussistono nei tre ambiti considerati nel primo
capitolo, ossia nell’istruzione, nel mercato del lavoro e al Parlamento. La
seconda parte ha lo scopo di approfondire lo sviluppo cronologico delle
politiche di pari opportunità, fortemente influenzate dall’azione della
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Comunità europea. Grazie agli indicatori statistici forniti dall’Istat e
dall’Eurostat, sappiamo che in Italia, come in Europa, le principali
differenze tra studenti e studentesse riguardano la scelta degli studi, con le
ragazze che preferiscono studi secondari che preparano in molti casi
all’università, mentre i ragazzi sono piø orientati verso corsi che precedono
l’ingresso nel mondo del lavoro. A dimostrazione di ciò, si registra il
numero di laureate superiore a quello di laureati. In contrasto con questi
dati, tuttavia, va sottolineato che il tasso di occupazione femminile è tra i
piø bassi d’Europa e molto distante da quello maschile - ben 24 punti
percentuali. Sono confermate le forme di segregazione occupazionale, sia
orizzontale sia verticale; il divario salariale “grezzo” è leggermente piø
ristretto rispetto alla media europea, ma si allarga nelle fasce piø alte di
stipendio, tra i dirigenti, tanto che le donne percepiscono un salario quasi
dimezzato rispetto ai colleghi. La carenza di servizi alle famiglie, tipica del
regime di welfare mediterraneo, costringe inoltre molte donne a ridurre
l’orario di lavoro in presenza di figli piccoli: dimostra come persista tuttora
la tradizionale divisione dei ruoli all’interno della struttura familiare sulla
base del genere, con la donna responsabile principale del lavoro di cura.
Per quanto concerne il terzo ambito di indagine, si rileva che le donne sono
sempre piø interessate alla politica; ciononostante la loro presenza alla
Camera non ha mai superato il 21% mentre al Senato si attesta a poco piø
del 18%.
Nell’ultima parte del capitolo si illustrano le politiche adottate in Italia al
fine di ampliare progressivamente la portata del principio di parità.
Inizialmente viene sancita l’uguaglianza tra donne e uomini e la parità
formale di salario e trattamento tra i lavoratori dei due sessi, sia nella
Costituzione che nella legge n.903 del 1977 che recepisce le direttive della
Commissione del 1975 e 1976. Sono inoltre vietate tutte le forme di
discriminazione, sia diretta sia indiretta, sulla base del sesso nell’accesso al
lavoro. PerchØ in Italia siano formalmente adottate le azioni positive come
strategia volta a garantire l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra i
generi si deve aspettare il 1991. L’adozione del gender mainstreaming è
stata invece piø veloce, tanto che il ministro Finocchiaro, titolare del
dicastero per le pari opportunità, già nel 1996 ha rivolto ai colleghi una
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comunicazione che invitava ad adottare la prospettiva di genere in ogni
politica attuata.
Si sottolinea infine che per poter parlare di cittadinanza completa per le
donne, in Italia molto si deve ancora fare sia in termini occupazionali sia
nell’ambito della partecipazione nelle istituzioni politiche rappresentative.
La legislazione sul lavoro, soprattutto in favore del lavoro femminile,
dell’imprenditorialità femminile non manca. Ciò che manca o non è
sufficiente per colmare il profondo divario di genere nell’occupazione è una
politica di sostegno alle famiglie tale da consentire alle madri di lavorare
senza dover ridurre gli orari di impiego in presenza di figli piccoli o
addirittura dover rinunciare al lavoro. Il sistema di welfare italiano è ancora
contrassegnato da un basso grado di defamilizzazione. Per quanto concerne
invece i numeri delle donne in politica, era stata introdotta nel 1993 una
riserva di quote per le donne nelle elezioni politiche. Il risultato fu quello
sperato, con un aumento nel numero di deputate. Tuttavia la legge fu
dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 1995, in quanto violava il
principio di uguaglianza formale. Si trattava di una decisione del tutto
contraria all’introduzione di quote di genere in materia elettorale. Intervenne
il legislatore con la riforma costituzionale del 2001 e 2003: il nuovo articolo
51 della legge fondamentale promuove le pari opportunità anche con
provvedimenti specifici; in altri termini sono ammesse azioni positive in
favore del sesso sottorappresentato anche nelle leggi elettorali. In questa
direzione va anche la sentenza della Corte costituzionale del 2010 che
ribalta la pronuncia del 1995.
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CAPITOLO 1: LE DIFFERENZE DI GENERE IN
EUROPA
1.1 Il quadro descrittivo del fenomeno
Negli ultimi decenni gli Stati si sono fatti carico di rispondere alle richieste
di parità tra le donne e gli uomini attraverso diversi regimi di welfare. I
quattro principali regimi di welfare individuati da Esping-Andersen in
Europa - liberale, socialdemocratico, conservatore e dell’Europa
meridionale - fanno riferimento a differenti forme di interazione tra Stato,
mercato e famiglia. Questi sistemi di welfare sono entrati in crisi e hanno
lasciato spazio ad assetti di welfare misto in cui il “terzo settore” gioca un
ruolo fondamentale: le varie organizzazioni non profit che erogano servizi
di pubblica utilità, sono nate come soggetti complementari rispetto al
welfare state, ma hanno trovato uno spazio sempre piø ampio e sussidiario
grazie alla loro capacità di rispondere in modo piø snello ed efficace alle
variegate necessità sociali della comunità (Campi 2006). Pur partendo da
contesti socio-economici e culturali anche distanti, i tradizionali regimi di
welfare si sono trovati accomunati dalle recenti sfide poste in essere da due
fenomeni: il primo riguarda la progressiva scomparsa della famiglia
tradizionale monoreddito, una trasformazione della struttura familiare e
sociale che in alcuni paesi, come quelli del Nord Europa, è una realtà ormai
consolidata, mentre è piø recente in quelli dell’Europa meridionale; il
secondo si riferisce alla crescente partecipazione delle donne al mercato del
lavoro (Donà 2006, 3). La sempre maggior affermazione delle donne nella
società può essere vista come una reazione ai diffusi stereotipi di genere, ma
per contro questi stessi ruoli di genere continuano ad essere riproposti dalle
strutture economiche e sociali (Stevens 2009, 39), nonostante l’uguaglianza
tra i generi rappresenti un diritto fondamentale e una priorità dell’Unione
europea (UE). Negli anni l’Unione si è fatta promotrice del miglioramento
della condizione femminile e piø in generale della vita di donne e uomini
con una ricca legislazione sulla parità di trattamento. La società e il mercato
del lavoro sono sì piø egualitari, ma nonostante ciò le disparità tra i generi
non mancano e si registrano principalmente a scapito delle donne. Per