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CAPITOLO 1
INQUADRAMENTO DELL’ISTITUTO.
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1.1 - L’IMPOSTA COMUNALE SUGLI IMMOBILI.
E’ noto che con la riforma degli anni 1971-1973 al tradizionale dualismo tra
finanza locale ed erariale venne sostituito il principio-obiettivo dell’unicità della
finanza pubblica, in cui sostanzialmente il solo titolare del potere d’imposizione
era lo Stato.
Negli anni successivi tale visione centralistica è stata sottoposta a dure e
convincenti critiche sia da parte della dottrina (costituzionalisti, tributaristi,
scienziati delle finanze) che da parte delle forze politiche. Inoltre, mentre v’è
stata una costante e gravosa espansione quantitativa delle entrate tributarie
locali, è quasi sempre mancato l’ampliamento della autonomia impositiva vera e
propria dal punto di vista qualitativo o normativo (riguardante, cioè il potere di
istituire o modulare il tributo e non solo di riscuotere e/o accertare).
Soltanto con l’art. 54 della legge 8 giugno 1990, n. 142 sembra delinearsi un
nuovo sistema delle entrate degli enti locali, ma tale articolo delinea solo i
principi ai quali dovrebbe uniformarsi l’autonomia tributaria degli enti locali,
indicando le categorie generali dei tributi (imposte, tasse, tariffe, eccetera) che
potranno essere istituiti e non pure le fattispecie impositive (i presupposti,
l’oggetto).
Pertanto la concreta attuazione di tali principi e, la specifica individuazione
delle singole fattispecie impositive e dell’intera disciplina dei nuovi tributi locali
è demandata dalla legge n. 142 a leggi da emanarsi in seguito.
Nel quadro delineato dall’art. 54 della legge n. 142/1990 deve essere collocata
la disciplina sulla “finanza degli enti territoriali” posta dall’art. 4 della legge 23
ottobre 1992, n. 421, che ha delegato il Governo ad emanare uno o più decreti
legislativi “al fine di consentire alle regioni, alle Province ed ai Comuni di
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provvedere ad una rilevante parte del loro fabbisogno finanziario attraverso
risorse proprie”
In particolare, secondo la legge delega, i decreti dovranno provvedere
all’istituzione, a decorrere dall’anno 1993, dell’imposta comunale immobiliare
(Ici), che veniva vista come la soluzione più sicura per riattribuire ai Comuni la
sottratta autonomia impositiva.
Erano state proposte due differenti ed anzi contrapposte, versioni dell’imposta
immobiliare (ILCI): la reddituale e la patrimoniale.
La prima individuava il presupposto del tributo nel “godimento di redditi
continuativi in denaro o in natura” prodotti dagli immobili siti nel comune,
determinava la base imponibile, costituita dai redditi di tutti gli immobili, terreni
e fabbricati, recependo i criteri adottati ai fini dell’IRPEF; demandava la
determinazione dell’aliquota ai Comuni in misura unica entro i limiti del 10% e
20%, rimettendo l’accertamento agli uffici erariali con la partecipazione del
Comune.
Nella versione patrimoniale il presupposto era costituito dal possesso, a titolo
di proprietà o di altro diritto reale, di immobili ubicati nel territorio comunale;
l’imposta risultava commisurata al valore degli immobili, anziché al reddito;
l’aliquota doveva essere determinata dal Comune tra il due e il quattro per mille
e l’accertamento della base imponibile, diversa da quella delle imposte erariali,
era riservato all’ente locale.
Se avverso la soluzione patrimoniale si evocavano sia le prevedibili difficoltà
di accertamento dei valori sia il pericolo di incidere nel lungo periodo sul
capitale stesso (dato che per il comparto residenziale vi era una crescita dei
valori in misura molto più ampia e rapida di quella dei prezzi amministrati,cioè
dell’equo canone), molteplici erano gli argomenti che venivano addotti in suo
favore.
In particolare, si rilevava: a) che la versione patrimoniale avrebbe colpito
anche le aree fabbricabili (immobili privi di reddito nel breve periodo, ma che si
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incrementano di valore in modo elevato); b) che la paventata difficoltà di
accertamento dei valori avrebbe potuto essere superata assumendo indici di tipo
catastale o simili; c) che, infine, non doveva essere visto con sfavore un
incentivo di ordine fiscale alla circolazione dei cespiti immobiliare.
Dopo oltre un decennio, l’imposta locale sui cespiti immobiliari (ILCI) da
semplice ipotesi riformatrice era destinata a divenire, in virtù dell’art. 4 della
legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 e del decreto legislativo 30 dicembre 1992,
n. 504, una concreta realtà normativa assumendo la denominazione,
parzialmente diversa, di imposta comunale sugli immobili (ICI).
Con la legge delega n. 421/1992 ed il relativo D.Lgs. n. 504/1992 si è adottata
la soluzione patrimoniale, in un contesto, peraltro, in cui appaiono in buona
parte superati gli inconvenienti ad essa addebitati (valori crescenti più
rapidamente del reddito, difficoltà di accertamento).
Si deve rilevare, infatti, che il legislatore, contemporaneamente all’istituzione
dell’ Ici, ha disposto l’uscita dall’ambito dell’equo canone delle nuove
costruzioni per intero e di quelle già esistenti parzialmente(a certe condizioni,
patti in deroga) (
1
).
Inoltre, il serio problema relativo alle difficoltà di accertamento per
l’amministrazione comunale è stato (in parte) risolto con l’aggancio a parametri
catastali (rimane, peraltro, aperto ed in modo grave il problema per quanto
concerne l’opinabile valore delle aree fabbricabili).
Preso atto della scelta (patrimoniale) del legislatore, scelta che rappresenta una
grande novità per il suo ordinamento, si pone in modo concreto il nodo della
legittimità costituzionale di un’imposta comunale ordinaria sul patrimonio
immobiliare.
Sul fatto che si tratta di un’imposta ordinaria sul patrimonio, non mi pare che si
possa assecondare l’impostazione di quella dottrina che dubita della legittimità
costituzionale (ex.artt. 53 e 42 della Costituzione) di quel tributo che “colpisca
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Vedi art. 11 legge n 359/1992
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indistintamente il patrimonio produttivo e cioè, per meglio chiarire non il bene
prodotto, la ricchezza nuova ma la stessa fonte produttiva o la ricchezza già
formata” (
2
).
Maggiori perplessità, invece, mi sembra che sussistano (ex artt. 3 e 53 della
Costituzione), in considerazione del fatto che si è istituita un’imposta
patrimoniale non generale, ma avente ad oggetto soltanto gli immobili.
E’ agevole osservare, infatti, come i principi della capacità contributiva e di
eguaglianza troverebbero la loro più compiuta realizzazione in un’imposta
ordinaria sul patrimonio, avente ad oggetto (o base imponibile) il valore netto
del complesso unitario dei cespiti patrimoniali del soggetto passivo.
Una parte della dottrina, in proposito, ha rilevato che un’impostazione
differenziata dei singoli cespiti patrimoniali sarebbe in contrasto col principio di
capacità contributiva proprio perché spezza il nesso col valore netto
complessivo dal patrimonio, determinando un’ingiustificata discriminazione del
carico fiscale “in funzione della mera composizione del patrimonio
posseduto,composizione che di per se stessa,non è indice di capacità
contributiva e nemmeno una manifestazione di ricchezza”(
3
) (
4
).
Per un’altra parte della dottrina (
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) i dubbi di legittimità costituzionale relativi
ad un’imposta sul patrimonio limitata agli immobili possono essere superati
ricordando:
1. La tenue tassazione sul reddito immobiliare dovuta all’imperfezione del
catasto;
2
F. GAFFURI, Lezioni di diritto tributario (parte generale), Padova, 1989, 31-32 ss.e F. MOSCHETTI, Capacità
contributiva, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, par. 3.7., 8. Anche C. ROSSANO, Imposte patrimoniali e
Costituzione,in Riv. Dir. Fin.,1993, I, 396 ss., manifesta dubbi sulla legittimità costituzionale delle imposte patrimoniali
istituite in Italia, cogliendo soprattutto la loro incoerenza e disarmonia col sistema tributario.
3
Così F. MAFFEZZONI, Patrimonio(imposta sul), in Enc. dir., XXXII, Milano, 321 ss. , il quale aggiunge “Così, ad
esempio, un’imposizione patrimoniale a carico dei soli beni immobili o delle sole aree fabbricabili, da un lato, potrebbe
comportare l’applicazione di un’imposta a carico di soggetti titolari di un patrimonio complessivo nullo, in quanto
gravato da passività uguali o superiori al valore netto dei beni colpiti, dall’altro lato, esenterebbe totalmente da
imposizione tutti i soggetti titolari di patrimoni complessivi netti anche cospicui, per il solo fatto che questi non
comprendono beni immobili o aree fabbricabili”
4
Al contrario M. LECCISOTTI-C. GIANNONE, La finanza locale tra Scilla e Cariddi, in AA.VV. L’autonomia giudiziaria
degli enti locali territoriali, Eti, 1994, Cap. I, par. 2.3., sembrano propendere con argomentazioni economiche, per
un’imposta patrimoniale limitata agli immobili.
5
F.GALLO, L’autonomia tributaria degli enti locali, Bologna,401-403. Vedi anche S.STEVE, La riforma dei tributi
locali, in Riv. Dir. Fin., 1963, I, 490 ss.
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2. La difficoltà od impossibilità dell’accertamento dei cespiti diversi dagli
immobili e comunque le esigenze di politica economica che inducono a
non colpire ulteriormente, ad esempio, i titoli.
Forse non tutte queste argomentazioni si possono ancor oggi condividere
(visto anche il tempo trascorso da quando furono formulate) e quindi
permangono i dubbi sulla costituzionalità di un’imposta patrimoniale che
colpisca soltanto gli immobili e non pure forme di ricchezza materiale ed
immateriale agevolmente accertabili. La prima considerazione che si deve
svolgere riguarda l’autonomia impositiva, in vero, nonostante le
aspettative e le conclamate velleità (
6
) l. Ici non ha realizzato alcun
significativo decentramento dell’autonomia impositiva. Infatti il momento
qualificante di tale autonomia (cioè quello della potestà normativa)
sostanzialmente non è attribuito al Comune. Esso non ha il potere di
istituire o meno il tributo (che è entrato in vigore nel 1993 in virtù della
legge dello Stato) né quello di graduare con propria delibera la base
imponibile e le aliquote, ma può soltanto stabilire la misura (unica)
dell’aliquota tra il 4 ed il 7 per mille , fermo restando che in caso di
mancata delibera si applica l’aliquota minima (
7
) stabilita dalla legge. Ma
anche la potestà amministrativa (d’ imposione), che peraltro non è vera e
propria manifestazione di autonomia impositiva, è ben poca cosa visto
che la base imponibile (tranne che per le aree fabbricabili) viene
automaticamente determinata in base alle rendite catastali moltiplicate per
certi parametri.
Si può affermare, pertanto, che con l’Ici l’autonomia impositiva attribuita al
comune (a parte la misura dell’aliquota) si riduce sostanzialmente nel controllo
e nella riscossione del tributo.
6
Vedi la Relazione al disegno di legge delega ove si parla di “esaltazione dell’autonomia impositiva a livelli locale”.
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Art. 4 n. 6) legge delega 1992, n. 421 ed art. 6 D.Lgs. 1992 n. 504: A.M. PROTO , Appunti sulla determinazione
dell’aliquota Ici, in Riv. Trib. Loc., 1993, 345 ss.
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1.2- LA BASE IMPONIBILE.
L’art. 5 d.lgs. n. 504 individua espressamente il criterio generale di
misurazione della base imponibile nel valore dei fabbricati,delle aree
fabbricabili e dei terreni agricoli.
Ininfluenti nel calcolo della base imponibile sono gli eventuali debiti contratti
dal soggetto passivo per l’acquisto o la costruzione del cespite medesimo.
Un siffatto calcolo dell’imposta sul patrimonio immobiliare lordo, secondo la
dottrina prevalente, si esporrebbe a censura di legittimità costituzionale in
riferimento agli artt. 3, 42, co. 3, e 53 Cost.
Dubbi di legittimità costituzionali sono stati inoltre avanzati sui criteri specifici
di determinazione della base imponibile che si differenziano a seconda della
tipologia del cespite immobiliare cui afferiscono: il valore dei fabbricati e dei
terreni agricoli si ottiene mediante la c.d. capitalizzazione della rendita (
8
) ; il
valore delle aree fabbricabili mediante il valore venale in comune commercio.
Per i fabbricati iscritti in catasto la base imponibile è costituita dal prodotto tra
le nuove rendite catastali ed i moltiplicatori fissi previsti per ciascuna categoria
catastale. E’ stato sottolineato che: a) l’elevatezza di tali moltiplicatori; b) la
vincolatività e/o incontrovertibilità dei valori che ne derivano espongono la
disciplina a censure di legittimità costituzionale per violazione del principio di
effettività della capacità contributiva e di ragionevolezza.
Secondo la stessa dottrina, da un esame complessivo del sistema tributario
italiano,oltre che dalla stessa disciplina dell’ ICI, si ravviserebbe l’esigenza che
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Si deve altresì rilevare come i criteri di determinazione delle rendite siano diversi a seconda che abbiano ad oggetto
terreni o fabbricati; per i terreni il calcolo delle rendite viene effettuato detraendo dal valore dei prodotti mediamente
ottenuti con l’impiego degli ordinari metodi di coltivazione, valutati in base ai prezzi medi del periodo di riferimento, le
spese di produzione e manutenzione dei fondi; per i fabbricati a destinazione speciale la rendita viene determinata per
stima diretta; per gli altri fabbricati si deve ripercorrere l’evoluzione normativa connotata da tre fasi: nella prima
risalente al d.P.R n. 1142 del 1949, si prevedeva che le rendite fossero desunte dai canoni annui di affitto normalmente
ritraibili dalle unità immobiliari,opportunamente corretti; nella seconda, iniziata con l’emanazione del D.M. 20 gennaio
1990, si disponeva dapprima la revisione delle tariffe sulla base “del valore unitario di mercato,ordinariamente
ritraibile” per poi stabilirsi con il d.l. n. 16 del 1993, conv. con mod. L. n. 75 del 1993 che a decorrere dal 1 gennaio
1997 le tariffe avrebbero dovuto essere nuovamente revisionate facendo riferimento ai valori di mercato degli immobili
e delle locazioni; nella terza, iniziata con la legge delega n. 662 del 1996 viene tra l’altro previsto che la rendita
catastale delle unità immobiliari urbane debba essere individuata sulla base “dei canoni annui ordinariamente ritraiili” e
“dei valori di mercato degli immobili,determinandone la redditività attraverso l’applicazione di saggi di rendimento
ordinariamente rilevabili nel mercato edilizio locale per unità immobiliari analoghe”.
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un’imposta diretta ad assoggettare a tassazione il valore capitale di beni
immobili debba assumere a parametro dell’imposizione il valore venale in
comune commercio; in materia di ICI l. art. 5, co. 5, d.lgs. n. 504 stabilisce che
per le aree fabbricabili “il valore è costituito da quello venale in comune
commercio al 1 gennaio dell’anno di imposizione,avendo riguardo alla zona
territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla destinazione d’uso
consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari
per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato della vendita di aree aventi
analoghe caratteristiche”.
Pertanto,con riferimento ai tributi che assumono come base imponibile il
valore capitale di beni immobili,il legislatore appare ispirato al principio
generale dell’adozione del parametro del valore venale in comune commercio
come valore base e valore fondamentale per la commisurazione della relativa
imposizione.
Con il metodo di determinazione della base imponibile adottato in materia di
ICI per i fabbricati e i terreni agricoli il legislatore ha invece adottato dei criteri
legali e automatici di capitalizzazione.
Criteri che nella disciplina di determinazione della base imponibile ICI
acquistano l’efficacia di una presunzione assoluta dal momento che al
contribuente è preclusa la possibilità di contestare il valore risultante da detti
criteri anche nell’ipotesi in cui il contribuente medesimo sia in grado di provare
che il valore reale di mercato si discosta dal primo. Alla luce di tali
considerazioni è stato lamentato che il criterio di determinazione della base
imponibile, fissato dall’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 504 si porrebbe in contrasto con
detta direttiva fondamentale del sistema tributario e con la stessa struttura
impositiva dell’ ICI.
La Corte cost. con la sentenza n. 111 del 1997 ha rigettato le censure di
costituzionalità sollevate al riguardo ritenendo “che l’adozione dei moltiplicatori
fissi e la incontrovertibilità della loro misura non sono altro che la logica
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conseguenza dei dati utilizzati dal legislatore per pervenire alla determinazione
del valore del bene”.
Per gli immobili di interesse storico o artistico di cui all’art. 3 della L. 1 giugno
1939 n. 1089, e succ. mod., la base imponibile è costituita dal prodotto tra la
rendita catastale determinata mediante l’applicazione della tariffa d’estimo di
minore ammontare tra quelle previste per le abitazioni della zona censuaria nella
quale è sito il fabbricato e moltiplicatori fissi (art. 2 d.l. 23 gennaio 1993,n. 16
conv. dalla L. 24 marzo 1993 n. 75) (
9
).
Per i fabbricati non iscritti in catasto (fatta eccezione per quelli classificabili
nel gruppo catastale D) e per i fabbricati per i quali sono intervenute variazioni
permanenti, il valore è determinato con riferimento alla rendita catastale di
fabbricati similari già iscritti (art. 5, co. 4, d.lgs. n. 504).
Mentre per la determinazione della base imponibile dei terreni agricoli il
criterio di calcolo è sostanzialmente analogo a quello sopra descritto per i
fabbricati iscritti in catasto,dovendosi moltiplicare il reddito dominicale
risultante in catasto per settantacinque.
La base imponibile delle aree fabbricabili è data dal valore venale in comune
commercio al 1 gennaio dell’anno d’imposizione,avendo riguardo ad una serie
di parametri fissati dalla legge.
Ai sensi dell’art. 59, co. 1 lett. g), d.lgs. 446 al dichiarato fine di ridurre al
massimo l’insorgenza del contenzioso è stato demandato ai comuni il potere di
determinare con regolamento, periodicamente e per zone omogenee, i valori
venali in comune commercio delle aree fabbricabili stabilendo altresì la
limitazione del potere di accertamento del comune qualora l’imposta sia stata
versata sulla base di un valore non inferiore a quello predeterminato.
L’art. 5 d.lgs n. 504/92 contiene le disposizioni per la determinazione della
base imponibile degli immobili da assoggettare all’ Ici, ma nel calcolo della
base imponibile (prima di effettuare la moltiplicazione della rendita) è da tenere
9
In argomento vedi TRIMELONI, Immobili di eminenti pregi artistici o storici e disciplina dell’ ICI in, Fin. Loc.,
1994, 501 ss..