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Introduzione
Che la violenza abbia da sempre occupato e occupi tutt'ora un ruolo centrale sia nelle
relazioni umane che nella costruzione/distruzione della stessa civiltà umana, è fatto
noto. Ed è altrettanto scontato – oggi più di ieri- affermare che tale violenza non sembra
essere il prodotto del libero arbitrio umano, ma che è insita nel suo animo, ne è una
parte costituente. Sono, queste, posizioni che hanno da sempre acceso forti dibattiti –
spesso dibattiti violenti- tra i filosofi, gli intellettuali e i teologi della storia, sin dalle
origini del pensiero occidentale, cioè in Grecia, quando fecero la loro comparsa i cinici
di Diogene di Sinope, che preferirono la vita dei cani a quella delle società umane,
considerate ipocrite e violente. Sant'Agostino ha poi riaffermato con veemenza nelle
sue Confessioni la natura essenzialmente peccaminosa dell'uomo, marchiato sin dalla
nascita dal peccato originario di Adamo e Eva; Hobbes riprende da Plauto la sentenza
homo homini lupus che trova nel suo scritto più conosciuto, Il Leviatano, la più
completa teorizzazione: l'uomo è intrinsecamente pericoloso per i suoi simili, dunque
deve essere necessariamente governato con qualunque mezzo. Certi intellettuali
dell'illuminismo, poi, ammettono la presenza di un'inestricabile violenza insita
nell'umano: V oltaire scrive il Candido per farsi beffe delle dottrine ottimistiche di
Leibniz secondo cui noi “viviamo nel migliore dei mondi possibili”, Rousseau ammette
che l'uomo, senza il fondamento preservatore del contratto sociale, è di natura
aggressiva. La schiera dei pensatori che vedono nella violenza e nella distruttività una
parte della natura umana si infoltisce successivamente nel XIX secolo, ad esempio con
l'esaltazione dell'egoismo da parte di Max Stirner o con il pessimismo di Arthur
Schopenhauer. I massacri di fine '800 e le carneficine del Novecento ci dimostrano che
l'uomo, nonostante il progresso scientifico e gli sforzi per applicare i diritti dell'uomo,
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continua a massacrarsi e torturarsi a vicenda. Sembra anzi che la natura umana si faccia
beffe del cosiddetto progresso: anziché ammazzarsi con una coltellata o con una
baionettata, oggi, grazie proprio al progresso scientifico, un uomo ha il potenziale di
massacrare da solo decine di persone se in possesso di un'arma, e migliaia se è in
possesso dei codici di lancio di una qualunque base missilistica. È dunque evidente che
gli auspici ottimistici di illuminismo, positivismo e neopositivismo hanno fallito del
tutto. I seguaci di questi orientamenti ritenevano che il perseguimento di certi obiettivi
di base come ad esempio il riconoscimento delle libertà individuali e il progresso
tecnologico, avrebbe portato alla costituzione di società migliori. Ci si è dunque
applicati per costruire modelli statali e giuridici che fossero conformi a queste nuove
società, ed ecco nascere i modelli repubblicani, i partiti politici che danno voce alle
diverse aspirazioni di una società, e le nazioni, nate sotto le spinte patriottiche e
romantiche. Il risultato è stata la degenerazione di questi concetti: dalla nazione si è
generato il nazionalismo, dall'unione di repubblica e nazionalismo si è assistito agli
esperimenti totalitari che hanno caratterizzato il Novecento, e dai partiti politici si sono
avute guerre intestine, non scambi d'idee.
Gli ottimismi, dunque, sembrano essere sempre messi sotto scacco da una irriducibile
parte di violenza intrinseca all'uomo. Oggi è con amaro piacere che si persiste a
pontificare sull'esistenza di violenza e distruttività nell'essere umano. Questo
masochistico piacere nell'autoflagellazione impedisce però uno studio più approfondito
del concetto stesso di violenza, impedendoci di vedere che oltre ad essere intrinseca alla
natura umana, la violenza ne è anche alla sua base e, spingendoci ancora più in là, che è
addirittura necessaria per l'evoluzione del singolo e per l'evoluzione di una società
intera. Anziché insistere sulla fondamentale bontà o cattiveria dell'essere umano, ci si
dovrebbe invece domandare quale posto occupi la violenza nell'economia psichica
dell'uomo e quali siano le sue funzioni all'interno di una società.
Scopo di questo lavoro sarà dunque quello di dimostrare che esiste una forma di
violenza primitiva insita in ogni essere umano di ogni società, e che tale violenza è
persino necessaria per l'economia psichica del singolo e per l'evoluzione e il
mantenimento del tessuto sociale, come è teorizzato in diversi lavori del noto etnologo
e filosofo René Girard e come è accennato in maniera più o meno diretta da Freud e
Niels Peter Nielsen. Nel capitolo 1 vedremo come una più attenta lettura del complesso
edipico riveli le origini violente del rapporto tra genitori e figli, e di come la violenza di
Freud abbia influenzato l'evoluzione stessa della disciplina psicoanalitica. Per parlare di
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violenza è infatti necessario sottolineare come Freud stesso abbia agito secondo
dinamismi violenti allontanando i propri discepoli quando questi mettevano in dubbio
le sue idee, concentrandosi quasi esclusivamente sui dinamismi legati alla libido e di
come non abbia mai parlato esplicitamente di violenza, preferendo invece, come viene
sottolineato a più riprese da Jean Bergeret, occuparsi di tematiche già libidinizzate
come il sadismo e l'aggressività. Fatto ancora più importante, Freud avrebbe costruito la
sua celebre teoria del complesso di Edipo senza prendere in conto i primi atti del mito,
quelli cioè inerenti il desiderio non ancora libidico da parte dei genitori di uccidere il
proprio figlio. Il mito di Edipo aiuta a dimostrare come esistano dinamismi violenti
primitivi e autoconservativi da parte dei genitori che vedono nel figlio una potenziale
minaccia alla loro integrità, e di come il figlio avverta questa violenza, attivando il
proprio istinto di autoconservazione. Verrà dunque rielaborato il mito partendo dalle sue
radici, e in più si accennerà brevemente al romanzo L'ussaro sul tetto di Jean Giono per
chiarire ulteriormente la dinamica violenta. Nel secondo capitolo verrà trattato nello
specifico il tema della violenza, prendendo spunto principalmente dai lavori di Jean
Bergeret, Sigmund Freud, Janine Chasseguet-Smirgel e Felicity de Zulueta. Verrà
ipotizzata l'esistenza di un dinamismo violento primario che si manifesta già dai primi
periodi della vita del soggetto. Tale violenza fondamentale presenta caratteristiche pre
genitali e pre ambivalenti, fattori che lo distinguono dall'aggressività; in altre parole,
esiste prima e indipendentemente da qualunque dinamismo libidico. Questa violenza
non riconosce l'identità altrui, non cerca direttamente la sofferenza dell'altro e
nemmeno desidera nuocergli. È semplicemente autoconservativa. Non può nemmeno
essere assurta allo statuto pulsionale, in quanto non è diretta a una scarica e nemmeno
ad un obiettivo preciso. Si preferisce dunque parlare di istinto. Ciò che noi chiamiamo
violenza è puro istinto di autoconservazione che mira alla difesa della vita e al
mantenimento del narcisismo primario. Questo dinamismo è bidirezionale: dal neonato
ai genitori e dai genitori al neonato, come già accennato nel primo capitolo. Prendendo
in considerazione gli studi a proposito della Teoria dell'Attaccamento, si può proporre
un completamento tra le due teorie: come ampiamente sottolineato da Felicity de
Zulueta e Peter Fonagy, bambini caratterizzati da gravi carenze nelle prime cure e che
sperimentano più di altri ambienti difficili, sono più esposti al rischio di riproporre
comportamenti violenti, soprattutto a causa di una scarsa mentalizzazione che gli
impedisce di riconoscere gli altri come individui. La violenza fondamentale, infatti, non
riconosce nessun tipo di statuto altrui: le persone sono solamente viste come ostacoli e
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pericoli al proprio narcisismo. All'origine di comportamenti violenti possono anche
esserci eventi traumatici che, non venendo elaborati e portando a gravi regressioni,
liberano grandi quantità di energia violenta non integrata. Verrà rigettata l'ipotesi
freudiana della pulsione di morte come motore della distruttività umana. Un
ripensamento della violenza e dei suoi dinamismi suggerisce anche un adeguato
completamento della clinica psicopatologica, soprattutto in merito al tema delle
ossessioni (la libido si è assoggettata sotto al primato violento durante la fase anale),
della depressione (il narcisismo primario viene difeso dalla violenza, e l'aggressività
provata contro un oggetto ambivalente perduto è rivolta contro di sé), delle fobie (il
soggetto teme in anticipo le conseguenze della propria violenza non integrata) e delle
perversioni (non è presente nessuna genitalità, e la violenza difende la neorealtà
illusoria del perverso). In ogni caso, il destino auspicabile della violenza dovrebbe
essere uno: integrarsi armonicamente alla corrente libidica, così da apportarne una certa
carica energetica per stabilizzarne l'armonia. Ciò significa integrare la violenza nella
genitalità, saperla elaborare. Quando ciò incontra degli ostacoli, si ottengono
perversificazioni della violenza. Le conseguenze sono l'aggressività, il sadismo, l'odio,
argomenti trattati nel terzo capitolo. In questi casi la violenza non è stata correttamente
integrata sotto al primato libidico (generalmente la causa sta in carenze affettive precoci
che non stimolano adeguatamente l'armonizzazione nella giusta direzione), ma avviene
piuttosto il contrario: la violenza lega a sé frammenti deboli e sparsi di libido
impedendogli di agglomerarsi e erotizzandoli. Il soggetto trarrà piacere dal nuocere agli
altri. Aggressività e violenza differiscono sotto numerosi punti di vista, che Jean
Bergeret ha sintetizzato in sei punti chiave. L'ambivalenza è un tema centrale
nell'economia violenta e aggressiva: la violenza è pre ambivalente. Quando si ha
ambivalenza, si può affermare che la libido ha fatto la sua comparsa, ma che non ha
ancora correttamente assoggettato la violenza. Nella fase post ambivalente, invece, i
due dinamismi si sono armonizzati, e l'altro viene riconosciuto come soggetto diverso
da me e accettato così com'è. Un contributo importante proverrà anche, come verrà
specificato, dalla teoria mimetica di René Girard: l'ambivalenza proviene infatti
dall'imitazione del desiderio di un terzo. Si odia ciò che si è amato perché esso diviene
un ostacolo. Risultato di un'inadeguata integrazione è anche l'odio: esso è più primitivo
dell'aggressività, e si rivolge contro il mondo esterno, ma riconosce lo statuto di
individuo alle persone, dunque è già libidinizzato, anche perché una delle caratteristiche
dell'odio è proprio quello di creare un legame, per quanto negativo esso sia. Secondo
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alcune posizioni, sostenute soprattutto da Niels Peter Nilesen, l'odio è fondamentale per
la costruzione della psiche in quanto permette di differenziale sé e mondo esterno.
L'odio è un sentimento che ci oppone a ciò che ci circonda, e in questo modo ci aiuta,
se correttamente impiegato, a differenziare cosa amiamo e cosa non amiamo. Nel
capitolo 4 viene affrontato il tema dell'adolescenza, prendendo spunto ancora dai lavori
di Jean Bergeret, ma anche di Magrini. L'adolescenza rappresenta un periodo di crisi e
riassestamento di posizioni precedentemente conquistate, soprattutto in merito al
complesso edipico, che qui riemerge creando turbamenti e contrasti in famiglia.
Durante queste crisi (passeggere o gravi e prolungate) possono determinarsi dei
disimpasti pulsionali che provocano il riemergere della violenza primaria, in quanto il
narcisismo dell'adolescente è fragile, e può sentire il bisogno di difendersi in ogni
modo. L'aggressività verso i genitori può essere visto come un tentativo di controllarli.
L'articolazione tra violenza e libido verrà determinata soprattutto in base al tipo di
stimolazione ambientale.
Il quinto capitolo è dedicato a una breve panoramica dei rapporti tra religione e
violenza. Alla base di ogni mito, leggenda e religione stanno meccanismi violenti di
difesa e sopraffazione. Seguendo le ipotesi espresse da Freud in alcuni suoi scritti e
proseguendo con i preziosi contributi di René Girard, è possibile tratteggiare
brevemente a un possibile sviluppo delle religioni, dei riti e dei miti. Il sesto capitolo è
dedicato alla violenza di massa, concentrandosi sul meccanismo del capro espiatorio e
della guerra. La violenza di massa prende il via quando ogni componente della folla
cede una parte del proprio Io a profitto di un Ideale dell'Io comune da difendere.
Ognuno si rispecchia nell'altro. Detto altrimenti, ognuno si rispecchia nella violenza
altrui, che è diretta ad uno scopo: difendere l'Ideale dell'Io della folla. Il capro
espiatorio (che detiene alcuni caratteristiche ben precise) ha la funzione di canalizzare
l'energia violenta al fine di dissiparla. In caso contrario, la società entra in crisi,
distruggendosi. Inconsciamente, ogni membro della società in crisi tenta di proteggere
la propria società distruggendo ciò che sente essere la causa della crisi: il capro
espiatorio, che può essere rappresentato da un singolo individuo come da un certo
gruppo sociale o etnico. Nell’ultimo capitolo si cercherà di tratteggiare alcuni percorsi
di prevenzione e trattamento delle manifestazioni violente e aggressive, partendo dal
presupposto che un trattamento indirizzato alla violenza non è lo stesso di uno
indirizzato all’aggressività. È altresì necessario comprendere a quale livello si è
arrestato lo sviluppo dell'integrazione, così da ripartire da lì. Nel caso in cui si assiste al
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dominio dell'aggressività, si dovrà operare una regressione ben controllata per mostrare
al paziente cosa appartiene all'aggressività e cosa alla violenza, così da aiutarlo a
riconciliare meglio i vari dinamismi. Qualora la violenza provenisse da un grave
trauma, si dovrà invece assumere una funzione contenitiva di ciò che il paziente
racconta nelle sedute. Essendo i traumi emozioni inelaborate e spesso non verbalizzate,
ci si dovrà sostituire momentaneamente al paziente per elaborare quelle emozioni e
tentare di restituirle “digerite” al fine di aiutare il paziente a renderle più gestibili.
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Cap. 1
Alle radici concettuali della violenza
Per poter parlare il più agevolmente possibile del tema della violenza facendo
riferimento a un'ottica strettamente psicoanalitica, è necessario parlare preliminarmente
di come lo stesso Freud avesse concepito, all'origine, la violenza e l'aggressività. Si
noterà infatti come Freud si sia occupato piuttosto tardivamente e in maniera confusa
del tema della violenza, e di come, contrariamente ad autori successivi come Melanie
Klein e Jean Bergeret, che nelle loro opere hanno dedicato ampio spazio alle pulsioni
aggressive e allo studio della distruttività umana, non abbia mai dedicato un interesse
specifico alle sue origini e dinamiche, preferendo piuttosto occuparsi di tutto ciò che
ruota attorno al concetto di libido. Persino nel complesso di Edipo, pietra angolare del
pensiero psicoanalitico, manca una focalizzazione sulla tematica violenta presente nella
vicenda: di tutta la vicenda, vengono analizzate solamente le scene rivelatrici di Edipo
Re, tralasciando le scene iniziali riguardanti le circostanze della nascita dell'eroe e le
vicende successive all'accecamento contenute nella tragedia Edipo a Colono.
Affrontando in questo capitolo il tema delle “radici concettuali” della violenza (cioè
quali concetti ne sono alla base, focalizzandosi soprattutto sulle vicende umane di
Freud e utilizzando la tragedia di Edipo come esempio per illustrare l'argomento), è
opportuno chiarire il termine “violenza” e differenziarlo brevemente da altre concezioni
affini, cioè al fine di chiarire il motivo per cui è preferibile impiegare il termine
“violenza” per descrivere determinati dinamismi psichici e comportamenti.
Oggigiorno si fa riferimento alla violenza come a un concetto esclusivamente legato
alla distruzione e all'intenzione di provocare dolore negli altri, anche al fine di provare
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piacere nel perpetrare questi atti. Il termine, invece, rimanda piuttosto a una
connotazione difensiva legata, paradossalmente, più alla vita che alla morte. Se non
fosse presente nell'uomo una violenza istintuale e autoconservativa, non ci sarebbe
nemmeno possibilità di sopravvivenza. La violenza permette la sopravvivenza e, come
ci fa ben notare Bergeret: “[...] l'origine del termina 'violenza' connota in modo preciso
l'idea di una difesa della vita [...]” (1994, pag. 61). Difendendo la vita, capita di
compiere atti che possono nuocere agli altri. Affermando ciò si ha tuttavia l'impressione
di relativizzare e giustificare gli atti di violenza, ma, come spesso si deve ricordare,
comprendere non significa giustificare. È comunque chiaro che un inadeguato impiego
del termine “violenza” e una sua liquidazione nella sfera del “malvagio” e del
“negativo” da combattere, impediscono sia la comprensione del fenomeno, sia il suo
trattamento. Quando si fa riferimento a torture, cattiverie, stupri e perversioni, è
all'aggressività che si fa riferimento, cioè alla ricerca del piacere di nuocere agli altri, e
non alla violenza, che invece è cieca, neutra, totale, non mirata a un'azione elaborata, e
potenzialmente (non necessariamente) distruttiva. Analizzandone il versante
etimologico, si scopre che gli elementi e i significati che costituiscono il termine
“violenza” ci portano proprio nella direzione poco sopra descritta. “Violenza” proviene
dal latino violentia, il quale a sua volta proviene da una radice indoeuropea che in greco
dà bios, e in latino vita. In realtà in greco la b non esiste, e dunque la beta si pronuncia
veta, da qui la violentia. Dall'indoeuropeo al latino passando per il greco e arrivando ai
giorni nostri, dunque, è una radice vitale quella che è presente nei vari rimaneggiamenti
del termine “violenza”. È dunque sotto questa luce che va letta la dinamica della
violenza in tutte le sue manifestazioni.
1.1 La violenza di Freud
Per parlare di violenza in psicoanalisi è forse opportuno spendere qualche parola circa
la presenza di tratti fortemente violenti proprio nella persona che ha dato l'avvio alla
disciplina psicoanalitica: Sigmund Freud. Diversi autori si sono dati la pena di
analizzare a posteriori certi tratti del carattere di Freud al fine di poter meglio chiarire la
genesi di alcuni concetti chiave del pensiero psicoanalitico, e di gettare così una luce
più limpida su glorie e ombre della disciplina. Freud coltivava l'abitudine, sin dagli
inizi dei suoi studi, di autoanalizzarsi, fattore che ha certamente contribuito alla
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formazione di gran parte delle scoperte della psicoanalisi, ma che allo stesso tempo ha
anche determinato malintesi e incomprensioni, primo fra tutti il fatto (e questa è una
delle critiche più radicali e diffuse tra gli “antifreudiani”) che Freud abbia
universalizzato idee e sentimenti che erano propri solo a lui. È da segnalare il fatto che
Freud avesse sempre fretta di terminare i propri lavori (come se stesse lottando contro
la morte), con il risultato che alle volte lasciava in sospeso molte idee e intuizioni. Ciò
può rappresentare un importante fattore per spiegare almeno in parte la confusione e la
contraddizione di determinate sue idee. Tuttavia ciò non toglie che le sue osservazioni
siano state fondamentali, e non solo per la disciplina psicoanalitica, ma anche per
l'evoluzione del pensiero occidentale, di cui rappresenta scandalo e complemento
imprescindibile. Pensiamo solo al movimento surrealista, che prese ispirazione proprio
dalle tesi freudiane, o ai molti romanzieri che narrarono vicende prendendo spunto dalle
sedute di psicoanalisi, come ad esempio i lavori di Italo Svevo e di Philip Roth. E non
si deve dimenticare nemmeno chi attaccò in maniera virulenta i fondamenti della
psicoanalisi: il fatto che menti eccelse quali Karl Popper, Jean-Paul Sartre e Michel
Focault si siano scomodate per studiare e attaccare la psicoanalisi freudiana, significa
che la disciplina ha raggiunto uno statuto e un peso di enorme valore. Nonostante le
critiche e i tentativi di distruggere la quasi totalità delle tesi freudiane, esse sono ancora
fonte di dibattito, e si assiste oggi a timidi accenni di critica costruttiva, cioè al
completamento, da parte di intellettuali come René Girard e Michel Onfray, delle teorie
di Freud. Anziché tentare di distruggerlo e chiuderlo nel cassetto del dimenticatoio, si
prova a destrutturarlo, a tenere ciò che di meglio le sue intuizioni hanno dato e a
rimaneggiare il tutto secondo prospettive diverse, spesso con risultati sorprendenti.
Riferendosi proprio a coloro che si ostinano a voler seppellire la psicoanalisi, Davide
Lopez afferma con estremo acume: “V ogliono afferrare la verità oggettiva, scientifica,
saltando a piè pari sulla psicologia, negando le motivazioni preconsce, personali, che
dal punto di vista del loro snobismo screditerebbero la serietà oggettiva delle ricerche e
delle teorie e, paradossalmente, finiscono per mettere in evidenza e sottolineare ciò che
preconsciamente negano e nascondono, che è la base stessa delle loro affermazioni
coscienti.” (2008, pag. 34).
Resta il fatto che la psicoanalisi ha attraversato tre secoli senza venire accantonata.
Questa eccezionale resistenza agli attacchi non può essere che la proiezione di una
violenza autoconservativa a cui Freud stesso, tramite la propria, ha dato un'impronta
incancellabile. Senza la violenza insita nel carattere di Freud, proiettata poi nella sua