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INTRODUZIONE
3 febbraio 2005: sulla prima pagina della Stampa appare un annuncio che assomiglia ad
uno slogan pubblicitario: “E alla Stampa arriva la Jena. Un velenoso corsivo quotidiano”. Il
lettore volta la pagina e in terza trova poche righe – attorniate da uno spazio bianco, come si
trattasse di una poesia – firmate Jena, nom de plume di Riccardo Barenghi. Da allora in poi,
quel posto gli sarà riservato ogni giorno.
Uno degli aspetti più evidenti del corsivo è proprio la reiterazione quotidiana, la forte
fidelizzazione che opera sul lettore, dovuta al fatto di essere una rubrica, quasi un rito nel rito:
“Nella lettura del giornale, quella che per Hegel è la preghiera quotidiana dell’uomo moderno,
che cos’è il corsivo? Forse è quell’amen finale che ricapitola tutto il resto”
1
.
Il successo di pubblico è attestato non soltanto dalle lettere di coloro che scrivono ai
rispettivi giornali dichiarandosi estimatori delle rubriche di Michele Serra, piuttosto che
Massimo Gramellini, Sebastiano Messina, Andrea Marcenaro… ma soprattutto dalle
antologie di corsivi spesso giunte tra i best-sellers (evento raro per le raccolte di articoli).
Basti pensare ai sedici libri pubblicati da Editori Riuniti dal 1970 al 1985 con il “meglio” di
Fortebraccio anno per anno, oppure, più di recente, “Il presidente bonsai” di Messina
pubblicato da Rizzoli o “Tutti i santi i giorni” di Serra pubblicato da Feltrinelli, arrivato alla
quarta ristampa e finito perfino sugli scaffali degli Autogrill. E questo solo per citare i casi più
eclatanti.
“Oggi i giornali sono pieni di corsivi. Su tutte le prime pagine è ormai di prammatica
quella finestrella in basso che ospita gli epigoni di un genere che proprio l’Unità aveva
lanciato con Fortebraccio”
2
. Il fenomeno è tanto diffuso che Stefano Gensini, studioso di
comunicazione, parla di “inflazione del genere”
3
.
Ciononostante, non esiste ancora oggi uno studio sistematico sul corsivo. Dall’urgenza di
colmare almeno parzialmente tale mancanza, tracciandone un profilo storico documentato,
individuandone i tratti di continuità, oltre che spiegandone il successo, nasce questa tesi.
Si rileva, intorno al corsivo, una sorprendente insufficienza descrittiva dovuta
probabilmente alle sue intrinseche ambiguità. Lo dimostra la discordanza tra i nomi di
corsivisti citati a titolo di esempio dai vari manuali di giornalismo. Alcuni di essi risalgono
perfino a Gramsci o a Togliatti, altri a De Benedetti, l’unico che tutti riportano è Fortebraccio.
Eppure tra quelli e questo c’è un abisso.
Gli aggettivi utilizzati nel tentativo (più intuitivo che empirico) di caratterizzarlo,
ricorrono: articolo di opinione “ironico”, “polemico”, “graffiante”, “tagliente”, etc. Il ché è
riduttivo poiché anche un editoriale può essere polemico e graffiante, senza per questo
diventare un corsivo.
L’errore più diffuso consiste proprio nel ridurre il corsivo a “editoriale in miniatura”. Ciò
non rende giustizia a un genere giornalistico che ha invece una sua identità precipua e,
oramai, una tradizione di prestigio. Come scrive Nello Ajello, rimarcandone la differenza, il
corsivo “somiglia a un articolo di fondo come una lucertola a un coccodrillo: o è agile o non
1
G. Matteoli, A colpi di penna, in E. Macaluso, Un corsivo al giorno, Edizioni Riformiste, Roma 2004, p. 13
2
A. Polito, La politica in corsivo, in ivi, p. 10
3
S. Gensini, Fare comunicazione, Carocci, Roma 2006, p.126
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è”
4
. E sarebbe imperdonabile, per un etologo, sostenere che una lucertola, in fondo, è un
“coccodrillo in miniatura”.
4
N. Ajello, Prefazione a N. Ajello, Italiani di fine regime, Garzanti, Milano 1993, p. 8
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1 CHE COSA È UN CORSIVO
1.1 Lo spazio lasciato all’inferenza
V olendo dipanare la storia di un genere giornalistico, è indispensabile delimitare l’area di
competenza: identificare quale articolo può essere definito “corsivo” e quale no. Siccome
l’identità di un oggetto si definisce anche per contrapposizione rispetto a ciò che è differente,
il nostro termine di paragone sarà l’editoriale, parente più prestigioso a cui il corsivo viene
quasi sempre assimilato e con cui, sovente, viene confuso.
Se il corsivo fosse davvero “un editoriale in forma ridotta, spesso più graffiante ed
incisivo”
5
o “un editoriale minimo in cui si condensa un giudizio del giornale”
6
o ancora un
“breve pezzo (…) che, come l’editoriale, esprime il punto di vista del giornale su un
argomento”
7
questa ricerca non avrebbe motivo d’essere, perché sarebbe sufficiente
destinargli un capitolo in una ipotetica “storia dell’editoriale”.
Prendiamo, ad esempio, questi due testi.
TESTO 1
Siamo finalmente in grado di dare ai nostri lettori la vera storia – che ha dato luogo a
tante leggende e controversie – dell’acquisto del «Corriere della Sera» come ci è stata rivelata
da autorevolissime e insospettabili fonti democristiane. Per tale acquisto, Craxi ricevette dalle
banche un credito di cinque miliardi. Dandone quattro a Formica, gli disse di procedere
all’operazione. Formica ne dette tre a Martelli delegandone a lui il compito. Martelli ne dette
due ad Aniasi perché provvedesse. E Aniasi, dandogli cinquecento lire, disse al fattorino:
«Vammi a comprare il “Corriere”».
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TESTO 2
Ieri ci chiedevamo se i signori del palazzo romano sapranno tener conto, nei loro giochi
di potere e di poltrone, dell’ondata di sdegno che sale dal Paese dopo lo scoperchiamento delle
fogne di Milano. Ma forse la domanda era male formulata. Il problema non è se sapranno, ma
se potranno tenerne conto.
Questo problema si può ridurre in termini semplici e chiari, alla portata anche di lettori
che non hanno (e perché dovrebbero averne?) specifiche nozioni di scienza costituzionale. Di
tutte le grandi democrazie occidentali, l’Italia è l’unica in cui fioriscono non soltanto i limoni
cari a Goethe, ma anche un tipo di burocrazia di stampo tipicamente nostrano: la burocrazia, o
meglio le burocrazie di partito che, da calcoli sia pure approssimativi, mobilitano a tempo
pieno, e naturalmente nutrono a stomaco ugualmente pieno, un milione di persone con relative
famiglie.
Nulla di simile, per esempio, in America dove i partiti non hanno sedi né tessere né
addetti, e danno segno di vita soltanto nelle vigilie elettorali, quando per loro scende in lizza
qualche drappello di volontari, in genere studenti, per dare mano alla diffusione di volantini di
propaganda, al conio di qualche slogan, alla decorazione – spesso da carnevale di Viareggio –
di sale per comizi o festicciole. Dopodiché scompaiono per tornare ognuno al mestiere suo.
Anche in America le campagne elettorali costano fior di quattrini. Ma li spende il candidato: o
di tasca sua se ne ha; o di tasca dei suoi sostenitori più impegnati e abbienti, i quali
5
E. Arcuri, Testo e paratesto. Itinerari di linguaggio giornalistico, Rubbettino, Catanzaro 2002, p. 39
6
A. Papuzzi, Professione giornalista. Le tecniche, le regole, i media, Donzelli, Roma 2010, p. 47
7
A. Agostini, M. Zanichelli, Studiare il giornalismo, Archetipolibri, Bologna 2010, p. 220
8
I. Montanelli, “Controcorrente”, «Il Giornale», 22 maggio 1983. Presente in I. Montanelli, Il meglio di
controcorrente, Rizzoli, Milano 2005, p. 183
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denunziano fino all’ultimo centesimo – per ragioni fiscali – le oblazioni in modo che queste
siano trasparenti. Nemmeno lì tutto correrà liscio, anche lì ci saranno eccezioni e deviazioni.
Ma una categoria di professionisti addetti alla “macchina” del partito e naturalmente portata a
viverne e a ingrassarci, non c’è. Il partito scende in campo mobilitando soltanto dei privati per
la raccolta dei consensi al momento delle urne. Poi, come un fiume carsico, scompare per
riapparire quattro anni dopo.
In Inghilterra e Germania le cose vanno un po’ diversamente perché è un po’ diverso il
sistema elettorale. Ma nemmeno lì esiste una burocrazia di “militanti” a tempo pieno. Questo
avviene soltanto in Italia, dove il partito è l’arbitro e il regolo di tutto. Solo chi ne ha in mano
l’apparato – da cui tutto dipende, a cominciare dalla scelta dei delegati da mandare ai
congressi e dei candidati da presentare agli elettori – può avanzare nella carriera politica. Ma
per conquistare o mantenere l’apparato ci vogliono i soldi. E i soldi sappiamo tutti benissimo
da dove vengono: o dagli enti pubblici che i partiti si spartiscono tra loro, e i cui eventuali
deficit sono ripianati dallo Stato, cioè da noi contribuenti; o dalle bustarelle e tangenti dei
privati (a differenza di quelle americane, clandestine), pronti a pagarle pur di assicurarsi la
fornitura o l’appalto, salvo a metterle poi sul conto di noi utenti (…).
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L’autore è lo stesso (Indro Montanelli), il tema è lo stesso (la condanna della
partitocrazia, il malcostume della corruzione politica italiana), ma il primo è un corsivo, il
secondo un editoriale. Secondo le definizioni riportate sopra a titolo d’esempio, il TESTO 1
differirebbe dal TESTO 2 per una mera questione di dimensioni, quindi semplicemente
perché, in questo caso, il primo conta 592 battute e il secondo 2945. In realtà, come sarà
chiaro anche al lettore meno attento, si tratta di due testi radicalmente differenti che hanno, a
dividerli, più di quanto abbiano ad accomunarli.
I fatti raccontati nel TESTO 2 sono reali, o il lettore presume che lo siano: in caso
contrario non comprerebbe quel giornale. Sono presenti le congetture del giornalista, ma esse
non vanno mai ad intaccare la verità dei fatti e soprattutto sono esplicitate come tali (“ci
chiedevamo se”, “la domanda”, “il problema”). I fatti raccontati nel TESTO 1, invece, sono
completamente falsi, inventati di sana pianta dall’autore, il quale, non contento, ce li presenta
addirittura come si trattasse di uno scoop (“finalmente”, “la vera storia”, “autorevolissime e
insospettabili fonti”).
Ciò sarebbe gravissimo se il TESTO 1, invece che un corsivo, fosse un editoriale. Il
lettore di un giornale – al contrario di un lettore di romanzi, ad esempio – si aspetta di trovare
solamente informazioni attendibili all’interno di un articolo, e anzi proprio su questo si fonda
un giornale: veridicità, credibilità, affidabilità delle fonti, etc. Ciò vale per gli articoli di
cronaca e a maggior ragione per gli articoli di opinione, nei quali le idee non devono mai
intaccare la realtà dei fatti. Una delle regole d’oro del giornalismo è proprio questa: i fatti
separati dalle opinioni.
Ma tralasciamo per un attimo questo punto, dando per scontato che tutti i lettori siano
sufficientemente avveduti da riuscire a distinguere la fantasia dalla realtà e la satira dal
giornalismo. Resta ancora un aspetto paradossale: se è vero che il primo è un articolo
d’opinione, dove sono le opinioni? Ci sono solamente fatti (anche se inventati). È assente la
pur minima interpretazione del giornalista, la quale non deve mancare nemmeno in un pezzo
di cronaca (altrimenti diventerebbe un flash d’agenzia), figurarsi in un articolo d’opinione.
In questo caso, invece, è il lettore che deve risalire alla tesi di Montanelli, senza che egli
la riferisca apertamente. Per riuscirci, deve essere sufficientemente informato non solo
sull’attualità (come qualunque lettore di giornale), ma anche su fattori meta-giornalistici: lo
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I. Montanelli, Bagatelle per un saccheggio, «Il Giornale», 5 maggio 1992. Presente in I. Montanelli, La stecca
nel coro, Rizzoli, Milano 1999, pp. 488-489
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stile di Montanelli, il suo pensiero politico, il meccanismo di funzionamento dei suoi
Controcorrente. Per questa ragione il corsivo funziona solo se in forma di rubrica: è nel
dialogo giornaliero, nel reiterarsi dei temi e degli assunti che può crearsi una forma di intesa
tra chi scrive e chi legge tale da permettere a quest’ultimo di afferrare il non-detto. Un
editoriale, al contrario, è tanto più riuscito quanto riesce a farsi capire anche dal lettore meno
informato.
Per chiarire il concetto, riportiamo un altro corsivo, questa volta firmato da Jena (nome
d’arte di Riccardo Barenghi, corsivista della Stampa):
TESTO 3
“Il governo nazionale nell’arco di quattro anni spazzerà la miseria dei contadini. Nell'arco
di quattro anni eliminerà la disoccupazione. A questo colossale compito di risanamento della
nostra economia, il governo nazionale unirà l'attuazione di un piano di risanamento dello
Stato, delle regioni, dei comuni. In tal modo l'assetto federativo dello stato diverrà vigorosa e
solida realtà. I partiti marxisti e fiancheggiatori del marxismo hanno avuto 14 anni a
disposizione per dimostrare la propria capacità. Il risultato è un campo di rovine. Concedete a
noi quattro anni e poi giudicherete”. Dal contratto di Hitler col popolo tedesco, 1933.
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Il TESTO 3, risalente al 2001, è ancora più drastico del TESTO 1. Contiene lo stralcio di
un documento, firmato da Hitler quasi settant’anni prima, buttato lì (è il caso di dirlo) senza
nessuna spiegazione. Il giornalista interviene direttamente con otto parole, quelle che bastano
per fornire le coordinate minime della citazione (“Dal contratto di Hitler col popolo tedesco,
1933”: cosa, chi, quando). Di conseguenza, è come se non intervenisse per nulla. Tutto il
ragionamento è a carico del lettore, il quale non può essere certo di avere capito cosa
realmente abbia voluto dire Barenghi. La rievocazione fa riferimento al cosiddetto “contratto”
proposto da Silvio Berlusconi agli italiani prima delle elezioni del 2001 (il parallelismo è
confermato dal titolo: “Contratti”, al plurale). Ma qual è la sfumatura che dobbiamo
attribuirle? È soltanto una curiosità finalizzata a suscitare un sorriso al lettore, o Barenghi
ritiene che Berlusconi abbia qualche affinità con Hitler e possa in qualche modo seguirne le
orme? Tra i due estremi ci sono un’infinità di gradazioni. Se il giornalista avesse voluto
precisare le sfumature del suo pensiero, avrebbe dovuto scrivere un editoriale, partendo
magari da quella stessa citazione per contestualizzarla e passare poi al collegamento con i fatti
del 2001. Ma, stendendo un corsivo, ha ritenuto fosse sufficiente lo shock dell’accostamento,
senza intervenire oltre.
Il primo e il terzo testo (scelti perché dimostrazioni agli antipodi di un genere che ha
cospicue possibilità espressive) sono stati utili per comprendere la differenza principale che
corre tra editoriale e corsivo e, di conseguenza, la specificità del secondo: lo spazio lasciato
all’inferenza, alla deduzione.
L’editoriale esplicita la sua tesi e la sostiene secondo uno schema logico abbastanza
uniforme (presentazione tesi, esposizione argomenti a favore, confutazione argomenti contro,
etc.). Nel corsivo, invece, la tesi è sottaciuta, implicita. A questo si unisce la licenza (senza
simili nel giornalismo) di inventare. Il lettore la conoscerà, o si avvicinerà ad essa, solo
colmando lo spazio inferenziale necessario.
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Jena, Contratti, «Il Manifesto», 15 maggio 2001. Presente in R. Barenghi, Jena. Otto anni di agguati della
belva più feroce del giornalismo italiano, Fazi, Roma 2008, p. 25