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INTRODUZIONE
La presente tesi di laurea si basa su una ricerca condotta dall’Autore in Spagna durante
un periodo del programma di Placement presso l’IRTA di Barcellona, Spagna.
Per questa ragione nell’introduzione si farà particolare riferimento alle condizioni di
allevamento in questa nazione.
Lo scopo della prova sperimentale seguita presso l’IRTA era di valutare l’effetto della
forma di presentazione del mangime (pellettato vs. farina) sull’ingestione, sul ritmo di
accrescimento, sul comportamento alimentare e sociale degli animali e sulla
conformazione della carcassa.
Alimentazione dei bovini da carne
La produzione di carne in Spagna si basa principalmente su allevamenti intensivi, dove
vengono allevati vitelli e vitelloni (alimentati con diete ad elevato contenuto di
concentrati) dallo svezzamento alla macellazione, che generalmente avviene prima dei
12 mesi di età.
L’alimentazione ha un ruolo fondamentale nell’allevamento di queste categorie
animali. Infatti, essa ha lo scopo di garantire un rapporto ottimale tra costo
alimentare e accrescimento, l’ottenimento di carni di ottima qualità e adeguate
garanzie in termini di benessere animale. Quindi, il corretto razionamento del bovino
da carne deve permettere la più completa espressione del potenziale produttivo
aziendale nel pieno rispetto delle esigenze fisiologiche ed etologiche dell’animale
(Gregoris, 2010).
Essendo i cereali i principali ingredienti dei concentrati utilizzati per i bovini da carne, si
cerca di utilizzarli stimolando la massima efficienza delle fermentazioni ruminali
dell’amido in essi contenuto senza pregiudicare lo stato sanitario degli animali. Questo
aspetto é cruciale per migliorare l’efficienza del sistema di produzione intensiva
(Huntington, 1997).
In un precedente lavoro dell’IRTA (Reis Menezes, 2010) é stato analizzato l’effetto che
la diversa forma di presentazione degli alimenti concentrati aveva sul pH ruminale e si
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era visto che il mangime somministrato in forma pellettata, faceva aumentare la
disponibilità di amido nel rumine rispetto a quando i concentrati erano somministrati
come farina, per effetto della parziale cottura degli amidi durante il processo di
pellettatura.
Ciò probabilmente comportava un incremento della velocità di degradazione
dell’amido con maggiore disponibilità di acidi grassi volatili (AGV), soprattutto
propionato e lattato e con veloce caduta del pH ruminale, con tutte le conseguenze
negative che questo può avere (Dell’Orto et al., 1995).
Carboidrati non fibrosi e loro caratteristiche
Nella formulazione delle razioni alimentari negli ultimi decenni viene fatta particolare
attenzione, oltre che a garantire il giusto apporto energetico e proteico, al contenuto
di carboidrati non fibrosi (NFC), costituti prevalentemente da amido e quindi da
zuccheri semplici e pectine. Queste ultime, benché biologicamente appartengano alla
parete cellulare, sono in genere assimilate agli NFC perché utilizzate dalle stesse classi
di batteri che usano gli altri NFC. Essi sono composti facilmente fermentiscibili.
La concentrazione ottimale di questi composti non è la stessa per tutte le diete; essa
infatti è legata al livello produttivo degli animali e in modo particolare alla velocità con
cui i carboidrati sono fermentati nel rumine (Cocco, 2010).
Gli NFC possono essere stimati con l’utilizzazione della seguente formula:
NSC =100 - (LG+NDF+PG+ceneri) (Nocek e Tamminga, 1991) dove NSC=carboidrati non
strutturali; LG = lipidi grezzi; NDF =fibra neutro detersa; PG = protidi grezzi.
In laboratorio è possibile misurare separatamente amidi e zuccheri. In questo caso il
loro insieme viene indicato come carboidrati non strutturali (NSC). Essi differiscono
dagli NFC perché non includono le pectine. Al riguardo è importante sottolineare che
in letteratura c’è una certa confusione sull’uso di questi acronimi. Infatti, spesso si
indicano come NSC quelli che in realtà sono NFC.
Di questi principi nutritivi non è importante conoscerne solamente la concentrazione
negli alimenti ma anche la degradabilità ruminale.
In relazione a questo aspetto i carboidrati vengono classificati in diverse frazioni,
secondo la metodologia proposta dalla Cornell University: frazione A, che comprende
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zuccheri e acidi organici ed ha un’elevatissima velocità di degradazione (kd); frazione
B1, costituita da amido e fibra solubile (soprattutto pectine), con kd elevata; frazione
B2, costituita da cellulosa ed emicellulose potenzialmente digeribili, con kd bassa, e
frazione C, costituita da lignina e cellulosa ed emicellulose da essa rese indigeribili, con
kd nulla (Van Soest, 1994) (Tabella 1 e Figura 1).
Fra le diverse frazioni degli NFC, quella che più suscita interesse nelle razioni per bovini
da carne è quella relativa all’amido, essendo la più rappresentata.
L’amido è il principale carboidrato di riserva del mondo vegetale.
Dal punto di vista strutturale è costituito da una miscela di due polimeri organizzati in
grani semi-cristallini, l’amilosio e l’amilopectina.
L’amilosio è composto da molecole di glucosio unite in catene lineari grazie a legami
glicosidici alfa-1-4, mentre l’amilopectina è caratterizzata da catene lineari con
ramificazioni con legame alfa-1-6 (Figura 2). Le due macromolecole sono infine unite
fra di loro da legami idrogeno e sono organizzate sottoforma di granuli di amido.
Il rapporto quantitativo fra questi due polisaccaridi nella composizione dell’amido varia
a seconda dell’alimento; per esempio, nei cereali in genere risulta essere di 1 a 3, nel
mais in particolare invece il rapporto è molto variabile in funzione delle diverse varietà
coltivate.
La conoscenza di questo aspetto è molto importante, poiché grandi percentuali di
amilosio accrescono la resistenza dell’amido ai trattamenti termici, influenzando la sua
degradabilità e fermentiscibiltà ruminale. Queste ultime possono poi essere modificate
(aumentate) da trattamenti termici (cottura, pellettatura, fioccatura) o fisici (ad es.
macinazione, pellettatura) (Seguenza e Bosi, 1995).
Un altro componente molto importante della razione alimentare è rappresentato dalle
proteine. Esse sono dei composti chimici costituiti da carbonio, ossigeno, azoto,
idrogeno e da piccole quantità di zolfo (Borgioli, 1983); fra queste si distinguono le
proteine semplici (composte solo da aminoacidi) e le proteine coniugate (costituite da
aminoacidi e da gruppi chimici diversi).
Per quanto riguarda la classificazione Cornell delle proteine, esse vengono suddivise in
5 classi, di cui una costituta da azoto non proteico (urea, ammoniaca, nitrati, ecc.) e le
altre 4 da proteine vere (Figura 3). Anche queste frazioni sono classificate in funzione
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delle loro velocità di degradazione (A>B1>B2>B3), con l’ultima (frazione C) non
degradabile o non digeribile (Figura 3).
Al fine di formulare razioni con disponibilità sincronizzata dei nutrienti è molto
importante conoscere sia la velocità di degradazione delle frazioni degli alimenti (ad
esempio con la classificazione Cornell) che quella di transito (kp), cioè la velocità con
cui le particelle alimentari attraversano il rumine.
A questo proposito occorre ricordare che mentre i valori di Kd sono specifici oltre che
per ogni singolo alimento anche di ogni sua frazione e si basano su dati sperimentali,
influenzati dal grado di sminuzzamento degli alimenti e dal pH ruminale, quelli relativi
a Kp si riferiscono all’alimento nel suo insieme e dipendono dalle caratteristiche fisiche
e chimiche di quest’ultimo, nonché dal livello di ingestione degli animali che utilizzano
l’alimento.
La digeribilità ruminale degli alimenti può essere stimata con la formula di Waldo
(citato da Van Soest, 1994), che consente di calcolarla purché siano noti la kd e la kp
degli alimenti:
dove:
Rd = quantità degradata nel rumine, g/d;
I = Ingestione di una certa frazione di un certo alimento, g/d;
kd = velocità di degradazione di una certa frazione, %/h;
kp = velocità di transito dell’alimento, %/h.
La riduzione del diametro delle particelle dei cereali comporta un incremento della
velocità con la quale le particelle stesse attraversano il rumine. I valori di Kp variano
anche in funzione della quantità di amido ingerito dall’animale con la razione. Infatti, la
percentuale di amido degradabile a livello ruminale si riduce all’aumentare della
percentuale di amido della dieta (Nocek e Tamminga, 1991).
kp kd
kd
I Rd
*
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Fermentazioni ruminali
La degradazione ruminale dei carboidrati inizia con l’attacco dei principali carboidrati
strutturali, rappresentati da cellulosa ed emicellulosa, e di quelli non strutturali,
principalmente amido e zuccheri semplici, da parte dei batteri con l’ausilio di enzimi
extracellulari, che porta all’ottenimento di glucosio e fruttosio (Figura 4). Il glucosio
ottenuto non viene assorbito dalle pareti ruminali ma rimane all’interno dell’organo,
così che i batteri presenti lo possano utilizzare, assieme al fruttosio, per il proprio
metabolismo (Pulina, 2003).
Nel rumine sono presenti, oltre ai batteri, altri microrganismi come protozoi e funghi,
in proporzioni diverse (Tabella 2).
Fra i batteri presenti, i cellulosolitici operando insieme con i funghi, hanno la capacità
di degradare le fibre vegetali, attraverso processi sia enzimatici che meccanici, questo
li porta ad avere un ruolo essenziale nella produzione di AGV, soprattutto acetico e, in
minor misura, propionico (Anonimo, 2009).
Un'altra tipologia di batteri presenti nel rumine, particolarmente attiva a pH 5.5 – 6.3,
è data dai batteri butirrici responsabili della produzione di butirrato.
I batteri che attaccano i substrati costituiti da carboidrati non strutturali (tra cui
l’amido), noti come amilolitici (pH ottimale di azione 5 – 6), producono come prodotti
di scarto della loro attività fermentativa soprattutto acido propionico (Pulina, 2003).
Non tutto l’amido degli alimenti viene attaccato dai batteri ruminali; una quota,
variabile in funzione del tipo di alimento e della sua forma fisica, sfugge alla
degradazione ruminale (amido escape) e viene invece sottoposta alla digestione
enzimatica nell’intestino tenue, ed, in parte anche a fermentazione nell’intestino
crasso (Seguenza e Bosi, 1995).
A livello intestinale si assiste a un incremento della digestione dell’amido a seguito dell’
aumento della quantità di quest’ultimo proveniente dal rumine (Nocek e Tamminga,
1991) (Figura 5).
La digestione che l’amido subisce nel rumine è energeticamente meno efficiente di
quella che si ha nell’intestino tenue (a causa della produzione di calore e metano a
seguito delle fermentazioni ruminali) e l’efficienza di uso del glucosio, dopo essere
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stato trasformato in AGV, è minore rispetto a quello direttamente assorbito
nell’intestino.
È quindi auspicabile, entro certi limiti, favorire l’escape dell’amido ed evitare la sua
fermentazione ruminale (Orskov, 1986).
La capacità di assorbimento del glucosio nell’intestino tenue però nei ruminanti può
essere velocemente saturata. Tuttavia, a seguito dell’incremento delle fermentazioni
ruminali aumenta il flusso di proteine microbiche verso l’intestino; questo stimola la
produzione di amilasi, che comporta a sua volta un aumento della digestione
dell’amido nell’intestino tenue (Theurer, 1986; Huntington, 1997).
L’amilasi è un enzima secreto dal pancreas ed ha la funzione di idrolizzare l’amido in
destrine ed oligosaccaridi, a loro volta idrolizzate a glucosio da oligosaccaridasi
intestinali. E’ chiaro quindi che l’azione esercitata dall’amilasi è direttamente
responsabile della quantità di glucosio disponibile nell’intestino. La quantità di amilasi
immessa nell’intestino aumenta all’aumentare dell’ingestione, dell’energia e della
sostanza secca. A parità di ingestione di energia questa diminuisce con diete ricche di
amidi, a causa di un feedback negativo stimolato dall’accumularsi di glucosio
nell’intestino (Cannas, 2003).
Fra i diversi fattori che condizionano la capacità della flora microbica di degradare e
successivamente utilizzare l’amido, quello che risulta avere più rilevanza è dato
dall’origine di questo. Infatti la degradabilità ruminale varia in funzione dell’alimento
che lo contiene, essendo massima per l’amido di frumento e decrescendo lievemente
per orzo e avena, mentre è molto bassa per sorgo e mais (Seguenza e Bosi, 1995).
Quando la dieta è molto ricca di carboidrati non strutturali si sviluppano nel rumine le
fermentazioni lattiche, dovute all’azione di batteri amilolitici che in certe condizioni
producono come prodotto finale acido lattico, un acido organico molto più forte degli
altri AGV.
L’azione di questi batteri si accresce in maniera tanto maggiore quanto minore è il pH
ruminale e quest’ultimo è a sua volta influenzato dalla loro presenza. Se non si agisce
tempestivamente per rimuovere la causa (riducendo per esempio l’apporto di zuccheri
semplici o amidi facilmente degradabili) l’acido lattico si accumula nel rumine