INTRODUZIONE
L'obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare, partendo dalle basi teoriche dalla disciplina
vittimologica, la condizione di coloro che si trovano a dover subire un reato dal momento stesso in
cui si verifica l'evento criminoso fino ad arrivare alla presa in carico da parte delle agenzie di
controllo e servizi di trattamento.
Il termine "vittima" assume qui un'accezione di significato particolare cercando di inquadrarla in
un'ottica diversa da quella tradizionale. Nel titolo si fa riferimento al verbo "sopravvivere" per
indicare la condizione di coloro che subiscono il trauma del reato. La scelta della parola è stata
mirata poichè in essa si rimanda all'idea di sopravvivenza, di vitalità, di energia; caratteristiche che
raramente si sentono attribuire alle vittime. Infatti è ben radicata nella nostra società l'immagine
della vittima come soggetto che soffre silenziosamente e passivamente, che subisce in maniera
sommessa le conseguenze della violenza, del furto, dell'inganno...
Nel primo capitolo di si analizzano le origini etimologiche della parola "vittima" per comprendere
dove nasce il significato che oggi viene attribuito a questa figura sociale. Si vedrà come l'influenza
del Cristianesimo abbia contribuito a forgiare l'immagine attuale della vittima intesa come soggetto
sacrificale indifeso che assurge in sè l'antica funzione del capro espiatorio.
Parallelamente si analizza lo sviluppo della vittimologia dalla sua nascita, partendo dalle principali
teorie che si sono susseguite nel corso del tempo fino ad arrivare alle ultime frontiere in materia
vittimologica, concentrate sull'analisi dei racconti delle stesse vittime nel tentativo di rivoluzionare
l'attuale prospettiva che concepisce la vittima come capro espiatorio.
Il secondo capitolo è incentrato sull'impatto del crimine su chi lo subisce. Introducendo la
distinzione fra vittime primarie e secondarie, si indagano gli effetti negativi a breve e lungo termine
che l'esperienza vittimizzante comporta a livello economico, fisico e psicologico su coloro che ne
rimangono coinvolti in maniera diretta o indiretta. Vengono inoltre affrontati i concetti di "vittima
vulnerabile" e "resilienza" attraverso un modello esplicativo (Green, 2007) che pone queste due
condizioni apparentemente distanti su un continuum. Questo permette sia di capire le reazioni delle
diverse vittime al tipo di crimine subito, sviluppare interventi pratici che siano in grado di capire le
loro risposte alla vittimizzazione ed attivare di conseguenza quelle risorse necessarie per
soddisfarne i bisogni presentati . Nella seconda parte del capitolo viene presentata una descrizione
dei bisogni che emergono nelle vittime come conseguenza al crimine e di come questi variano a
seconda delle caratteristiche personali, del reato subito e dell'esperienza di contatto con il sistema di
giustizia.
Nel terzo capitolo si affrontano le questioni prettamente giuridiche per inquadrare a livello
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leglislativo la situazione attuale della vittima all'interno del sistema di giustizia penale e quali sono i
diritti che le normative nazionali ed europee garantiscono al "soggetto dell'offesa" una volta che
denuncia il reato subito alle autorità di competenza. Nella seconda parte del capitolo si analizzano il
fenomeno della vittimizzazione secondaria e le fonti all'interno del sistema di giustizia che possono
causare ulteriori conseguenze psicologiche gravi per le vittime che denunciano un reato.
Il quarto capitolo è incentrato sugli interventi legislativi in materia di tutela delle vittime di reato
che nel corso degli ultimi anni si sono sviluppati facendo un confronto fra diverse realtà. Vengono
prese in considerazione la realtà statunitense, che presenta un vasto impanto normativo per la tutela
delle vittime all'interno del sistema giuridico che comprende una rete di assistenza statale a cui
possono accedere gratuitamente tutte le vittime; la realtà europea, caratterizzata da numerosi
interventi a livello legislativo su base comunitaria con lo scopo di uniformare la posizione della
vittima in tutti gli stati membri; infine si analizza la realtà italiana, in cui a fianco di un carente
impianto normativo orientato alla tutela di tutte le categorie di vittime, si registra la diffusione a
livello locale e regionale di realta' efficienti ed efficaci in tema di supporto e assistenza alle vittime.
Il capitolo include anche una parte in cui vengono illustrate una serie di proposte di intervento volte
a migliorare la condizione attuale delle vittime nel sistema di giustizia che riguardano tre livelli:
procedurale, legislativo e attitudinale.
Il capitolo conclusivo è dedicato alla presentazione di alcune realtà concrete di supporto alle vittime
che si occupano di fornire loro assistenza medica, legale e psicologica. Viene inoltre illustrata una
ricerca effettuata nel 2002 dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che si è occupata di
individuare i diversi bisogni che emergono nelle vittime, di come questi cambiano a seconda delle
situazioni, delle persone e dei reati considerati , e di analizzare i giudizi che queste serbano riguardo
le loro esperienze di contatto con le diverse forme di assistenza a cui si rivolgono per ottenere aiuto.
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CAPITOLO PRIMO: VITTIMA E VITTIMOLOGIA, ORIGINI ED
APPLICAZIONI MODERNE
1.ORIGINI ETIMOLOGICHE E DEFINIZIONE ATTUALE DEL
CONCETTO DI "VITTIMA"
Il termine "vittima" ha origine dalla parola latina "victima" , usata in antichità per indicare l'animale
che nei riti religiosi venive sacrificato in onore agli dei. Nelle lingue romanze, per indicare le
vittime di crimine si utilizzano parole la cui etimologia deriva appunto dal latino "victima": in
tedesco, ad esempio, le vittime sono chiamate Opfer , parola che si riferisce sia all'oggetto
sacrificato, che al sacrificio in sè. In olandese, invece, il doppio significato viene eliminato
dall'aggiunta della parola "slacht", ovvero macello, massacro. Slacht-offer assume infatti nella
lingua olandese l'accezione di oggetto che viene massacrato nell'atto del sacrificio. In islandese la
parola usata è Fornarlamb , in riferimento sempre all'agnello sacrificale. In greco moderno,
ungerese e in tutte le lingue slave vengono usate parole simili.
Il ricercatore olandese Van Dijk, autorevole voce nel campo della vittimologia internazionale, ha
svolto un'analisi sulle origini etimologiche della parola utilizzata nelle culture occidentali per
indicare la categoria delle vittime di crimine. I dati ottenuti dalla sua ricerca hanno mostrato come
in tutte le lingue occidentali che derivano dal latino, per indicare coloro che hanno subito un
crimine, si utilizzino termini che hanno un riferimento all'atto e/o all'oggetto del sacrificio. (Van
Dijk, 2006; 2008b).
La chiave di lettura proposta da Van Dijk vede la scelta di usare l'etichetta etimologica victima per
indicare le vittime di crimine come sconcertante e si interroga sul motivo per cui le lingue
occidentali non abbiano adottato nel corso della storia un termine più neutrale, che per altro è in uso
negli idiomi orientali come il giapponese e il cinese, dove al posto di vittima si utilizza il concetto
di "parte lesa". L'autore sostiene che paragonare a livello etimologico gli essere umani sofferenti per
gli effetti del crimine con gli animali sacrificati alle divinità, costituisca non solo un atteggiamento
melodrammatico stranamente poco rispettoso nei confronti della natura umana, ma addirittura abbia
delle conseguenze rilevanti dal punto di vista pratico in quanto preclude implicitamente qualsiasi
speranza di recupero del soggetto dalla situazione svantaggiosa che il crimine ha causato.
Come è stato notato dal vittimologo inglese Paul Rock (2004), oggigiorno coloro che subiscono
reato non vedono di buon occhio il fatto di essere chiamate con il termine "vittime". L'autore
sostiene infatti che nella concezione attuale dell'esperienza di vittimizzazione criminale venga
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costantemente rafforzato lo stereotipo della vittima come soggetto passivo e indifeso. Questo
fenomeno, nella società attuale caratterizzata dalla valorizzazione quasi estrema della forza
individuale, comporta il crescente rifiuto da parte di coloro che hanno subito un crimine di essere
definite come "vittime", a causa della connotazione negativa che il significato di questa parola
contiene e che sembra negare le loro potenzialità di ripresa, la loro forza interiore. Si può ben capire
quindi come la proposta dei movimenti femministi americani di sostituire il termine negativo di
vittima con quello di superstite (in inglese "survivor" ) per i casi di violenza contro le donne, ha
incontrato a partire dagli anni '80 l'approvazione generale dell'opinione pubblica e delle forze
politiche del paese. Oggigiorno infatti nei documenti ufficiali del governo americano, le vittime di
violenza sessuale, violenza domestica e di traffico di esseri umani sono puntualmente indicati come
superstiti e i programmi di supporto alle vittime vengono indicati con il termine di "survivor
agencies".
In un articolo apparso recentemente sulla rivista "International Review of Victimology", Van Dijk
(2009) ha presentato un lavoro molto interessante in cui ha cercato di districare le origini
etimologiche della controversa definizione della parola latina victima e dimostrare che il suo
significato nelle lingue occidentali deriva dal riferimento all'immagine cristiana di Gesù Cristo.
Secondo questo autore il concetto di vittima che si è affermato in epoca moderna prende forma dalla
immagine cattolica di Gesù come "Agnello di Dio" (Agnus Dei) e questo ha avuto numerose
implicazioni nella nostra cultura per quanto riguarda il modo di concepire e approcciarsi alle vittime
di crimine.
1.1. L'evoluzione del termine "victima" nel corso della storia
Il primo utilizzo della parola victima in riferimento ad un essere umano risale ai documenti teologici
negli anni della Riforma Protestante. Dalla ricerca effettuata Van Dijk (2009) ha scoperto che
l'apparizione più antica di questo termine si ritrova nell'opera del Riformatore religioso Giovanni
Calvino "Istituzione della Religione Cristiana" , scritta interamente in latino classico e pubblicata
per la prima volta nel 1536. Calvino si sofferma sulla natura sacrificale del gesto compiuto da Gesù
Cristo e riferendosi all'immagine della sua Crocifissione il teologo francese utilizza l'espressione
"vittima dei nostri peccati".
La più antica citazione della parola vittima si ritrova nei riferimenti bibliografici annotati nel 1642
dallo scrittore Corneille all'interno del massimo Dizionario di lingua francese Le Robert, in cui
Gesù Cristo viene definito una "victime volontaire" .
Solamente nel 1736 appare per la prima volta nella lingua inglese il termine victim con riferimento
ad un essere umano, sempre utilizzato in onore di Gesù Cristo. Questi viene indicato nella
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traduzione del Dizionario di Oxford con il termine di "expiatory victim " ovvero la persona che,
attraverso il suo sacrificio, ha redento l'umanità intera.
Dall' analisi dei dizionari etimologici delle varie lingue occidentali Van Dijk nota come sembra
essere confermata la tendenza di utilizzare la parola vittima in riferimento a Gesù Cristo e come
questo atteggiamento abbia inizialmente impedito, anzichè favorito, l'estensione del suo significato
a tutti gli esseri umani.
Il concetto di vittima correlato ai crimini e ai disastri appare per la prima volta solamente alla fine
del XVIII secolo e solamente a livello di linguaggio parlato; mentre si dovrà aspettare ancora molto
tempo prima di arrivare all'introduzione del termine in ambito tecnico e legale.
L'adozione del significato più ampio del termine, come sostenuto da Van Dijk, potrebbe essere stata
facilitata dalla crescente consapevolezza dell'uomo moderno che il significato dell'episodio della
Crocifissione possa essere interpretato come il martirio di un capro espiatorio avvenuto nella
persona di Gesù Cristo. Il filosofo Fletscher afferma che Gesù fu "at once the sacrifical lamb to
redeem mankind from the fall, and victim of a crime of torture and biased prosecution" (Fletscher,
2007). Partendo da questa riflessione, Van Dijk argomenta afferma che nel corso del XVII e XVIII
secolo, grazie alla diffusione universale dei valori cristiani, anche il volgo abbia iniziato
gradualmente a riconoscere nella sofferenza vissuta dagli esseri umani una rappresentazione
simbolica della passione di Cristo. E' stato da allora che l'etichetta di vittima, in principio
strettamente riservata a Gesù Cristo, ha iniziato ad essere utilizzata per indicare la sofferenza umana
in senso generale. La prima e principale connotazione del termine è di compassione e
commiserazione: definendo come vittime coloro che sono stati colpiti da un crimine o da un
disastro, chi parla esprime la propria compassione nei confronti del loro profondo e incolpevole
dolore. In quest'ottica può essere citato il concetto più volte riportato da Nils Chriestie (1986) di
"vittima ideale" , che sembra dunque avere le sua fondamenta nella teologia cristiana, secondo cui la
vittima è vista come una persona innocente in cui si riflette l'immagine di Gesù Cristo sofferente.
Un ulteriore connotazione associata all'etimologia della parola vittima in uso nelle società
occidentali è quella cristina del perdono. Dalla croce Gesù si rivolge direttamente a Dio suo padre
con le seguenti parole: "Perdona loro, Signore, perchè non sanno quello che fanno".
Ed è proprio sul concetto stesso di perdono che molti secoli dopo si fonda la profonda critica di
Nietzsche nei confronti del Cristianesimo: per il filosofo tedesco l'immagine dei Gesù Cristo sulla
croce simbolizza tutto ciò che di negativo questa religione racchiude in sè. Pur essendo il figlio di
Dio, non si oppone, non lotta per i suoi diritti, non fa nulla per difendersi e, cosa ancora peggiore, è
lui a richiedere di essere punito per salvare i suoi carnefici, verso i quali non nutre odio, bensì
amore.
Ma l'immagine della vittima che perdona colui che le ha fatto del male ricorre anche in letteratura:
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Dante nella sua Divina Commedia riserva posti all' Inferno per coloro che in vita si erano vendicati
dei loro malfattori.
In epoca moderna, nel XIX secolo, il nuovo imperativo morale imposto dal clima culturale della
Restaurazione prescrive alle vittime di crimine di rinunciare al diritto di vendetta e di abbandonare
ogni potere legale nei confronti del colpevole: le vittime sono chiamate a fare un sacrificio
significativo a nome della comunità. Nella sociologia di Durkeim (1858-1917), la criminalità è vista
come un meccanismo funzionale al mantenimento dell'equilibrio della società perchè rafforza la
coesione morale attraverso la punizione del colpevole.
1.2. La concezione moderna della vittima come capro espiatorio Come appena visto, il trattamento sociale riservato alle vittime di crimine in tempi moderni le
affianca all'immagine dei capri espiatori presenti nelle culture primitive e nella mitologia.
Nel terzo libro della Bibbia, il Levitico, si ritrova il mito del capro espiatorio. Nella Sacre Scritture
si narra infatti come nella cultura ebraica fosse usanza che due capri e un toro venissero portati
sull'altare sacrificale, come parte dei doni del Tempio di Gerusalemme a Dio. Il sacerdote estraeva a
sorte tra capri quale dei due dovesse essere bruciato sull'altare sacrificale assieme al toro e quale
dovesse diventare il "capro espiatorio". In seguito il sacerdote poneva le sue mani sulla testa di
questo capro e confessava i peccati del popolo di Israele, dopodichè il capro veniva allontanato
nella natura selvaggia, portando con sé i peccati del popolo ebraico, per poi essere precipitato da
una rupe in un luogo non molto distante da Gerusalemme.
In termini laici il capro espiatorio ha la funzione di assorbere le tensioni sociali all'interno della
comunità e di purificarla grazie alla sua espulsione da essa. Allo stesso modo le vittime di crimine
sono costrette a ristabilire la pace disturbata dal colpevole attraverso il sacrificio dei loro diritti di
vendetta. Il criminologo svizzero Robert ha proposto un'interpretazione della giustizia penale come
un rituale in cui l'interesse della vittima viene sacrificato a favore della comunità grazie alla sua
esclusione dallo scenario giudiziario (Robert, 1986). Così come il capro espiatorio viene escluso per
mantenere forti i legami sociali, allo stesso modo la vittima viene esclusa dalla procedura della
giustizia penale, come se fosse una conseguenza naturale della sua condizione. Quest'ottica
presuppone che le vittime di crimine offrano volontariamente il perdono ai loro colpevoli e che si
astengano da ogni azione legale (Robert, 1986).
Van Dijk (2009) afferma che dal punto di vista etimologico l'ipotesi che associa la concezione
moderna della vittima alla figura del capro espiatorio ha fondamenta solide in quanto l'origine della
parola stessa riconduce alla figura dell'animale sacrificato alle divinità per espiare i peccati degli
uomini. Riferendosi alla figura di Gesù Cristo, martire per mantenere la pace nella comunità, con il
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termine di vittima, i teologi moderni come Giovanni Calvino hanno implicitamente riconosciuto il
suo ruolo di capro espiatorio. Infatti Gesù, perdonando immediatamente i suoi carnefici, si eleva a
immagine perfetta di vittima ideale diventando il capro espiatorio che attraverso il suo sacrificio
salva l'umanità dal peccato e dalla colpa. Secondo Van Dijk è proprio da questa rappresentazione
cristiana che prende origine e si sviluppa il concetto di vittima che è arrivato fino ai nostri giorni.
Attraverso il termine di vittima attribuito a coloro che hanno subito un crimine, la società può
riconoscere e valorizzarne il dolore sofferto, facendone diventare oggetto di compassione
comunitaria. Allo stesso tempo, però, esprime l'impliciata convinzione che queste debbano
sacrificare il loro diritto di vendetta in nome della pace sociale.
1.3. Le implicazioni dell'etichetta di "victima" per le vittime di oggi
Il concetto di vittima è assai antico e si ritrova, come visto, in numerose culture, strettamente
collegato all'immagine del sacrificio religioso e con un preciso valore simbolico: l'offerta
sacrificale, della quale l'uomo si priva, esprime la dipendenza dalla divinità. Nel sacrificio antico,
tuttavia, la vittima è solo apparentemente amata perchè la sua morte allontana insidie, pericoli ma è
anche volutamente dimenticata perchè lascia tracce colpevoli in coloro che dal suo sacrificio
ottengono o pensano di ottenere vantaggi e soprattutto benevolenza dalla divinità o dal potere. Nel
corso della storia umana questo modo di pensare la vittima si è tramandato tra i popoli, attraverso le
culture che hanno subito l'influenza dei valori cristiani ed è arrivato fino ai giorni nostri.
Recentemente la letteratura si è interessata di come il modo di concepire le vittime di reato
nell'immaginario comune abbia influito sulle caratteristiche degli atteggiamenti e delle opinioni
rivolte verso di esse da parte delle società occidentali. Una ricerca, realizzata mediante questionario,
in cui sono stati intervistati quasi mille studenti dell'Università di Bologna, ha evidenziato come la
maggioranza del campione ritiene che i bambini e le donne siano i soggetti che corrono il maggior
rischio di vittimizzazione (Bisi & Faccioli, 1996). Dai dati ricavati gli autori hanno argomentato la
tesi secondo la quale queste due categorie di vittime aderiscono ad uno stereotipo assai diffuso che
identifica la vittima in un soggetto inerme e passivo, anche se nella realtà dei fatti i livelli di
vittimizzazione di questi due gruppi non sono più elevati di altre categorie.
Gli atteggiamenti in questione derivano dal fatto che nella vita quotidiana l'uomo costruisce ed
elabora le proprie conoscenze riguardanti il contesto sociale che lo circonda su idee e credenze che
rimangono entro uno schema di riferimento di significati e assunzioni socialmente condivisi e che
offrono all'uomo la capacità di categorizzare e organizzare in classi l'informazione trasmessa
dall'ambiente (Tajfel & Fraser, 1984). Dalla ricerca effettuata con gli studenti si può vedere come
questa particolare forma di categorizzazione del sociale attraverso l'informazione influisca anche
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sulla scelta delle persone considerate a maggior rischio di vittimizzazione.
Secondo Van Dijk (2008b), uno degli autori che maggiormente si è occupato a livello internazionale
di questo argomento, il concetto di "vittima ideale" si riferisce all'immagine di un innocente che
soffre profondamente per ciò che ha subito, ma che nonostante tutto è disposto a perdonare il suo
malfattore. La comunità, intesa nel senso ampio di società, dal canto suo si impegna a mostrare
compassione e rispetto a patto che le vittime rientrino nel clichè di "vittima ideale" conservato
nell'immaginario comune. Tuttavia mentre il perdono della vittima nei confronti del colpevole deve
essere incondizionato, ciò non vale invece per la compassione rivolta nei suoi confronti dalla
società. Quelle vittime che non rientrano o si oppongono apertamente all'etichetta che viene loro
socialmente attribuita, trasgrediscono i valori cristiani che, sebbene non dichiarati pubblicamente,
rimangono ancora forti e condizionano la vita delle persone su molti livelli. Così facendo, esse
abbandonano il loro diritto di ricevere pietà e rispetto dalla comunità e possono addirittura scatenare
nei propri confronti rabbia e indignazione morale.
Le implicazioni che tale visione delle vittime comporta riguardano non solo i rapporti sociali
interpersonali, ma anche la sfera della legge perchè gli effetti da essa prodotti hanno anche un
impatto sul ruolo che viene attribuito alle vittime nel sistema di giustizia.
1.4. La definizione del concetto di "vittima di reato" nel diritto italiano Quando si parla del tema delle vittime di reato occorre cercare di dare un confine all'ampiezza di
tale tematica e tentare per prima cosa di circoscrivere la nozione di “vittima” . Questo termine,
infatti, non ha un significato omogeneo ed univoco: nel linguaggio comune viene identificata con
chi ha subito un torto; per la psicologia, invece, è chi si sente di averlo subito.
In giurisprudenza il termine è usato per indicare “la persona offesa da un fatto criminoso” in
quanto titolare dell'interesse giuridico tutelato dalla disposizione della legge. La vittima del reato è
qui definita come il soggetto passivo che subisce il reato , si identifica nel titolare del bene e
dell'interesse colpito dall'azione punita dalla legge come reato. Si può trattare, inoltre, di persone
fisiche, persone giuridiche o collettività di individui (Trona, 2005).
Occorre fin da subito fare una distinzione fra il concetto di persona offesa e quello di
“danneggiato” . Mentre infatti la prima, come si è detto, è identificata nel soggetto titolare
dell'interesse primario tutelato dalla fattispecie criminosa, il secondo è definito come ogni altro
soggetto che subisce un danno, patrimoniale o meno, “civilisticamente rilevante”, in quanto
risarcibile, in conseguenza del reato.
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Persona offesa e danneggiato spesso coincidono mentre altre volte descrivono situazioni diverse.
Infatti la distinzione posta dal codice tra persona offesa e mero danneggiato fa sì che solo per la
prima si aprano spazi di intervento nella fase delle indagini preliminari, in base alla qualificazione
giuridica che ne darà il pm quando procede all'iscrizione della notizia di reato (Trona, 2005).
1.5. La nozione di "vittima di reato" in campo internazionale Sebbene in sede di giustizia nazionale non è ancora stato raggiunto un termine univoco, a livello
internazionale sembra invece che sia stato fatto un passo in avanti verso un concetto più globale di
vittima di reato (Tufo, 2003).
Nei documenti internazionali si ritrovano tre definizioni, l'una diversa dall'altra e ciascuna
funzionale ai fini perseguiti dal documento che la contiene.
1. Nella “Convenzione europea sul risarcimento delle vittime dei reati violenti” (1983), manca
una vera e propria enunciazione del concetto di vittima ma si parla dell'identificazione dei
soggetti che lo Stato deve risarcire, ovvero di coloro che hanno riportato serie lesioni fisiche
o una compromissione della salute direttamente attribuibile a un reato doloso violento, e
delle persone a carico dell'individuo deceduto in seguito a tale reato.
2. Nella “Dichiarazione dei basilari principi per le vittime del reato ed abuso di potere” ,
adottata dall'assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1985, la vittima è “chi,
individualmente o collettivamente, ha sofferto un danno, e in particolare un'aggressione alla
sua integrità fisica o psichica, una sofferenza morale, una perdita economica e
un'aggressione grave ai suoi diritti fondamentali, a seguito di azioni od omissioni commesse
in violazione di leggi penali in vigore all'interno di uno degli Stati membri.”
In tale ambito nel concetto di vittima possono essere "inclusi anche i prossimi congiunti o le
persone a carico della vittima diretta e le persone che hanno subito un danno intervenendo in
aiuto delle vittime o per impedire la vittimizzazione stessa."
3. L'Unione Europea, nella “ Decisione quadro sulla posizione della vittima nel procedimento
penale” del 2001, ha definito la vittima come “la persona fisica che ha subito un
pregiudizio, fisico o mentale, sofferenze psichiche, danni materiali causati direttamente da
atti od omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro”.
In tale prospettiva cade dunque ogni distinzione tra tutelare del bene tutelato dalla norma
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