3
Introduzione
Lo scopo del lavoro è stato quello di analizzare come sono nate, si sono evolute e
consolidate le teorie formulate sulla follia e sul trattamento terapeutico ad essa
relativo.
Il primo capitolo è dedicato all’analisi della teoria mistico-religiosa, della teoria di
Ippocrate sui sintomi psichici e fisici e dei vapori, della teoria di Galeno di Pergamo,
della teoria di Celio Aureliano, della teoria di Sorano di Efeso, della teoria
demonologica, della teoria sull’isteria e della teoria sulla nevrosi.
Nel secondo capitolo è stata analizzata la teoria di M. Foucault sul modo in cui la
follia veniva spiegata e trattata clinicamente, nel periodo compreso tra il XIV e il
XIX secolo d.c.
Il terzo capitolo verte sull’analisi delle teorie di W. Tucke, di P. Pinel, di E.
Esquirol, di V.Chiarugi e di E. Kraepelin, attivi nel periodo dal XIX al XX secolo
d.c.
Nel quarto capitolo sono prese in considerazione: la psicopatologia
fenomenologica-esistenzale con le figure di Karl Jaspers, di Ludwing Binwanger, di
Eugène Minkowski e di Eugen Bleuler e la teoria psicopatologica clinica di Kurt
Sckneider. Inoltre è stata analizzata la teoria dell’antipsichiatria e sul pensiero di
Franco Basaglia.
Due sono state le ragioni significative che stanno alla base di questa scelta : primo,
l’interesse per l’argomento che è stato ed è ancora oggi vivo con accesi dibattiti;
secondo, l’opportunità di approfondire le conoscenze psicopatologiche, già acquisite
col corso di Laurea, e di comprendere come utilizzare, a livello professionale, gli
strumenti terapeutici.
L’analisi si è avvalsa di libri di testo, dell’utilizzo di internet, di autori, di articoli e
di riviste in mio possesso.
4
Capitolo 1
1 Le teorie sulla follia da circa Ippocrate al XVIII secolo d.c.
1.1 Le teorie mistico-religiose sulla follia
Nelle antiche società la follia suscitò tanta attenzione da essere oggetto di indagine.
Nel linguaggio comune i termini follia, pazzia e malattia mentale sono confusi,
nonostante non siano sinonimi. Il termine follia deriva dal latino folle e significa
mancante, otre, recipiente vuoto ed è legato all’idea di una testa piena d’aria; invece la
parola pazzia ha un’origine incerta, probabilmente deriva dal greco pathos e dal latino
patiens (paziente, malato). In questa accezione assume il preciso significato di
sofferenza e non di bizzarria o di stravaganza del folle.
Il linguaggio scientifico attuale non utilizza più il termine follia, ma malattia
mentale, alludendo a una disfunzione che si può rappresentare secondo un modello
scientifico della medicina clinica.
Il tentativo di dare a qualcuno fuori di sé la responsabilità del proprio disagio era
prassi consolidata nelle società primitive, dove prevaleva la visione animista della follia,
ma è ancora oggi utilizzata per spiegare molti disturbi psichici che non si comprendono.
Infatti l’atteggiamento mostrato verso la follia era una reazione emotiva spontanea di
paura verso il dolore, perciò gli uomini spaventati si lasciavano attrarre verso la
fantasia.
Non esisteva nessuna distinzione tra disturbi fisici e follia, dal momento che si
chiamavano in causa degli spiriti cattivi e demoni, che erano immagini prodotte
dall’angoscia.
Nelle suddette società la follia aveva un carattere sacro: il folle rappresentava la
voce della divinità che doveva essere ascoltata per interpretarla. A volte essa era
considerata una punizione o una maledizione divina, per cui chi era ritenuto folle veniva
emarginato dalla società. Il trattamento della follia era di tipo mistico-religioso e veniva
effettuato da sciamani e sacerdoti che tentavano di alleviare i sintomi con riti, preghiere,
regali ed offerte appropriate. Tali rituali erano diversi a seconda delle culture e degli
scopi che si volevano perseguire e permettevano di allontanare il male dal corpo del
folle, di evitarlo e di dominarlo.
5
Anche nella mitologia greca si parlava di follia, un esempio è costituito dalla nave
di Ulisse, che era simile alla nave dei folli, poiché anch’essa non aveva una meta e il
suo destino era fatto di cose sconosciute, inaspettate e imprevedibili. Infatti si riteneva
che la follia fosse causata dalla passione irrazionale, che sfuggiva al controllo
dell’individuo. L’anima irrazionale faceva ammalare l’anima responsabile degli affetti,
delle passioni e delle emozioni dell’uomo. L’individuo irrazionale era colui che non
riusciva a guardare dentro di sé e perciò si legava a qualcosa che non era gestibile e che
non riusciva a capire, perché gli dei gli toglievano la ragione, provocando un
comportamento molto strano.
1.2 La teoria di Ippocrate sui sintomi psichici e fisici
Ippocrate gettò le fondamenta della medicina razionale e osservativa; la sua
influenza attraverso il Corpus Hippocraticum e altri testi perdurerà fino al XVIII secolo,
interessando anche la psicopatologia e la psichiatria.
In Ippocrate e nella medicina del suo tempo non esisteva il concetto di malattia
mentale.
1
Egli riconosceva e descriveva con molta precisione i sintomi psichici, però
non li differenziava dalla tipologia degli altri sintomi. Condannava le pratiche medico-
psichiatriche effettuate dai sacerdoti e dagli sciamani, che considerava intrise di
superstizione e di ciarlataneria.
Anche se i sintomi psichici nelle descrizioni di alcune malattie prevalevano, essi
erano considerati l’espressione di una malattia e non di una malattia che interessava
principalmente la psiche.
L’assenza del concetto di malattia psichica non aveva una spiegazione
soddisfacente, per il fatto che Ippocrate sosteneva che ogni genere di malattia aveva una
base somatica.
I contributi più importanti di Ippocrate alla psicopatologia riguardano due aspetti:
innanzitutto individuò l’esistenza di sintomi psichici nel quadro di malattie somatiche,
che nella maggioranza dei casi erano acute; secondariamente descrisse delle malattie
con prevalenza di sintomi psichici. Tali malattie successivamente saranno classificate
dai medici esplicitamente come malattie psichiche: mania, malinconia, isteria, frenite e
letargia.
1
Cfr. A. Civita, Psicopatologia, Carocci, Roma, 1999, pp. 27-28.
6
Ippocrate era interessato soprattutto a malattie che presentavano sintomi psichici,
parossistici e di breve durata, che insorgevano durante l’evoluzione di una grave
malattia acuta, con febbre intensa, la quale portava spesso ad un esito mortale.
Probabilmente si trattava di patologie infettive con danni al sistema nervoso centrale, in
concomitanza delle quali si notava con maggiore frequenza anche il sintomo del delirio
ovvero del delirio febbrile. Tale termine in Ippocrate sembrava indicare un forte stato di
alterazione confusionale della coscienza. Nel delirio il paziente era fuori di sé, non
ragionava, straparlava e aveva un comportamento inconsulto.
Al delirio febbrile erano connessi l’irrequietezza, l’agitazione psicomotoria ed altri
comportamenti che oggi si definiscono maniacali.
Invece, l’abbattimento, la tristezza o depressione, la paura, il terrore, la disperazione
e il chiudersi in se stessi erano sintomi puramente affettivi. Talvolta i sintomi psichici di
natura affettiva, erano considerati precursori di morte.
Infine, egli descriveva in modo inequivocabile le allucinazioni visive e uditive: se il
cervello era umido in modo innaturale, esso si muoveva e quindi né la vista né l’udito
potevano restare saldi, perché vedevano e udivano questo o quello. La lingua esprimeva
ciò che vedevano e sentivano in ogni momento. Bisogna osservare che i sintomi fisici e
quelli psichici venivano descritti allo stesso modo, senza un cenno ad alcuna differenza
di natura.
2
1.2.1 La teoria degli umori di Ippocrate
Ippocrate descrisse anche alcune malattie nelle quali i sintomi psichici, come è stato
già detto, erano predominanti: la malinconia, l’isteria e la frenite. Secondo lui il corpo
era composto da organi, ma anche da quattro umori: 1) il sangue (caldo ed umido)
proveniente dal cuore; 2) il flegma (freddo e umido) originato dal cervello; 3) la bile
gialla (calda e secca) prodotta nel fegato; 4) la bile nera (fredda e secca), secreta nella
milza. La salute era mantenuta dal perfetto equilibrio (Krasis) degli organi e dei 4
umori, mentre la malattia insorgeva quando l’equilibrio veniva rotto per l’eccesso o per
la corruzione di un umore, oppure era causata da fattori esterni (come il clima o la
dieta). In tal caso si generava uno stato di discrasia (disordine).
Gli umori erano considerati dei fluidi che per le loro caratteristiche esercitavano un
ruolo attivo sull’organismo. Se predominava l’umore nero secreto dalla bile, il soggetto
2
Cfr. A. Civita, Psicopatologia, op. cit., p. 31
7
presentava un’indole triste, ritirata e pessimista, definita malinconia (melancholia),
dove melas significa nero ed echole bile. La malinconia si verificava se la paura e
l’abbattimento persistevano a lungo. Ciò induce a pensare che Ippocrate considerasse la
malinconia come una malattia psicopatologica, di natura depressiva. Però, un attento
esame mostra che le cose erano complicate; esistevano, infatti, delle patologie causate
dalla bile nera che non presentavano manifestazioni di natura psichica.
Inoltre la malinconia come la mania non si presentavano come malattie autonome,
ma erano secondarie ad altre patologie. E’ importante sottolineare che il significato di
malinconia era ambiguo; non veniva esplicitato se essa indicava uno stato somatico o
uno stato mentale; un umore fisico o un umore mentale.
Al contrario, la prevalenza di sangue rosso causava nel soggetto un carattere
passionale e rabbioso. Ippocrate chiamava questi soggetti sanguigni (termine ancora
oggi usato). I trattamenti possibili erano di tipo fisico: bagni caldi e freddi, salassi,
unguenti e purganti.
Ippocrate si riferiva alla frenite quando faceva descrizioni cliniche dedicate a
malattie febbrili; una prima caratteristica era la presenza della febbre, una seconda
caratteristica, per cui veniva interpretata in chiave psicopatologica, era la presenza di
uno stato continuo di delirio o di coscienza alterata. Altri sintomi psichici presenti
spesso nella frenite erano l’agitazione, l’allucinazione e il crocidismo.
Oltre allo studio della malinconia e della malinconia Ippocrate si occupò anche
dell’isteria. L’isteria era causata dal soffocamento provocato dallo spostamento
dell’utero (in greco utero si dice hysteria cioè isteria, ma Ippocrate non usò mai questo
termine). In quel tempo l’utero era considerato, in modo erroneo, mobile, e, in
particolari condizioni patologiche, era soggetto a migrazioni da un organo all’altro per
tutto il corpo della donna, fissandosi ora a questo ora a quell’organo. Se l’utero era
vicino al fegato e agli ipocondri, si produceva il soffocamento, gli occhi ruotavano in
alto, la donna diventava fredda e livida. Digrignava i denti, la saliva si localizzava nella
bocca e assomigliava agli epilettici. Quando l’utero restava troppo a lungo fissato al
fegato e agli ipocondri, la donna moriva soffocata. Se l’utero non abbandonava
rapidamente gli ipocondri, le malate perdevano la parola; la testa e la lingua si
intorpidivano. Altri sintomi erano costituiti da vomiti brucianti e acri, un dolore
generale occupava la testa e il collo. L’utero localizzato nel fegato causava perdita la
della parola, la chiusura della bocca e il colorito livido; tutti questi sintomi si
manifestavano in modo improvviso nella donna che godeva di buona salute. Essi
insorgevano nelle nubili e nelle giovani vedove e soprattutto nelle donne senza figli e
8
sterili. Per questo motivo egli consigliava alle vedove di rimanere incinte e alle nubili di
sposarsi. Il soffocamento poteva manifestarsi anche quando l’utero era presente nei
lombi o sui fianchi, a causa dell’accelerazione del respiro: la donna era dispnoica e
senza volontà di movimento.
Questa descrizione anticipava il quadro clinico dell’isteria, così come verrà definita
a partire dal 1° secolo d.C. e come ancora oggi, in parte, è accettata. La concezione
dell’utero come una sorta di essere vivente che vaga nel corpo femminile e l’assenza
della sua dimensione simbolica verranno superate, rispettivamente, dai medici Sorano e
Galeno (II secolo d.C.) e da Freud e Breuer (1892-1895).
3
1.3 Le teorie sulla malattia mentale nel periodo ellenistico-romano
I testi di Ippocrate e della sua scuola furono degli spunti per le riflessioni
psicopatologiche dei secoli successivi.
Gli autori del periodo ellenistico-romano elaborarono il concetto di malattia
psichica distinta da categorie di altre malattie. Per la prima volta si descrissero delle
vere e proprie malattie mentali e si produsse anche un primo sistema nosografico, ad
esse collegato, seppure ancora rudimentale.
Infatti a partire dal I° secolo a.C. le malattie mentali iniziarono ad essere
categorizzate come entità morbose con caratteristiche specifiche che le rendevano
diverse da altre malattie. Questo era dimostrato dal fatto che in tale periodo sia nel
linguaggio medico sia in quello di uso comune comparvero termini che facevano chiaro
riferimento alla classe delle malattie mentali. Uno di questi termini era alienatio mentis
(I sec d.C.). La specificazione del concetto di malattia mentale avveniva sia attraverso
un criterio psicopatologico sia con un criterio di anatomia patologica. Con il primo
criterio si specificò ciò che in Ippocrate era implicito, tuttavia presente: in molte
malattie venivano colpite le funzioni mentali (l’intelligenza, la percezione, il
comportamento e il carattere) in modo predominante o esclusivo. L’alterazione di
queste funzioni mentali indicava uno stato di alienazione mentale.
Con il secondo criterio si stabiliva che una malattia era considerata mentale, se
veniva leso l’organo, da cui dipendeva l’attività della mente.
La maggior parte degli autori di quel periodo riteneva che l’organo della mente o
dell’anima era il cervello. Uno di questi era Galeno (129-200 d.C.), il quale sosteneva
3
Cfr. A. Civita, Psicopatologia, op. cit., p. 35-36.
9
che le malattie dell’anima consistevano essenzialmente in lesioni dell’intelligenza e
della sensibilità e dipendevano direttamente da una lesione del cervello oppure da
un’alterazione cerebrale, che era prodotta “per simpatia”
4
, a partire dalla lesione di un
altro organo. Egli sosteneva che, se nella pleurite o nella peripneumonia qualcuno
delirava, nessuno poteva pretendere che il delirio venisse dalla pleura o dal polmone.
Tutti i medici ritenevano, invece, che fosse colpito per simpatia l’organo, sede
dell’anima. In altri malati la malattia mentale veniva causata non per simpatia, ma per
danno primitivo diretto di tale organo, come nella letargia o nella frenite.
Era fuori dubbio per i medici di quell’epoca che le malattie mentali dipendessero in
ogni caso da una precisa lesione somatica. Al contrario, Tullio Cicerone proponeva
nelle discussioni di Tuscolo una tesi completamente diversa. Egli si chiedeva quale
fosse il motivo che rendeva giusto pensare che, per curare e per tutelare il corpo, si fosse
inventata un’arte, la cui utilità veniva religiosamente legata ad una invenzione degli dei
immortali, mentre non si sentì l’esigenza di una medicina dell’anima, prima che essa
fosse stata inventata e non si coltivò la pratica, dopo che si acquisì la sua nozione
teorica. Si chiedeva se questo accadeva perché le infermità dell’animo erano meno
dannose rispetto a quelle del corpo, o al contrario, perchè, mentre per il corpo si
potevano usare delle terapie, per l’animo non esistevano dei farmaci. Eppure era chiaro
che le malattie dell’animo erano più numerose e più dannose rispetto a quelle del
corpo; le prime, infatti, erano più odiose visto che tormentavano l’animo. L’insania (un
tipo di follia), che era congiunta alla stoltezza, era altamente diffusa e veniva distinta
dalla pazzia furiosa (furor). Anche i Greci volevano operare una distinzione di questo
tipo, ma non avevano un termine adeguato; quella che i Romani chiamavano pazzia
furiosa, essi, invece, la definivano melankholia, come se l’intelletto venisse sconvolto
solo dall’atraibile (la bile nera) e non da un attacco di iracondia o di timore o di dolore,
come spesso accadeva. Sia per l’afflizione sia per altre malattie dell’animo, secondo
Tullio Cicerone, esisteva un’unica cura efficace, che consisteva nel dimostrare che
erano tutte fondate sull’opinione o su una scelta volontaria a cui gli uomini si
rivolgevano perché si erano convinti che fosse giusto fare in quel modo. La filosofia
prometteva di estirpare radicalmente tale errore, che era considerato la radice di ogni
male. Tullio Cicerone sosteneva che era necessario consegnarsi ad essa perché potesse
educare gli esseri umani e favorire la loro guarigione, proponendo una tesi derivante
dalla filosofia stoica, che non solo metteva in dubbio lo schematismo eziologico della
teoria umorale, ma, al contempo, apriva un varco verso una dimensione che fino a quel
4
Cfr. C. Galeno, De locis affectis, p. 127.
10
tempo non era stata ancora esplorata. Tale dimensione era l’interiorità fatta di drammi,
di dolori, di abbagli, di ostinazione, ma anche di suscettibilità all’azione riplasmatrice
del filosofo che non usava cure fisiche ma solo la parola e il pensiero.
Le tesi di Cicerone e anche quelle simili di Seneca vennero fortemente criticate da
alcuni medici. Uno, in particolare, fu Celio Aureliano, medico (IV secolo d.C.). Celio
Aureliano sosteneva che coloro i quali erano convinti che la mania era una malattia
essenzialmente dell’anima e solo in seguito una malattia del corpo, commettevano un
errore, dal momento che nessun filosofo era riuscito ad ottenere una guarigione e il
corpo era colpito prima della mente; poi aggiungeva in modo ironico che era proprio un
eccesso di amore per la filosofia la causa della alienazione mentale.
5
Ciò indicava che non esistevano ancora le condizioni per accettare una tesi sulla
malattia mentale diversa da quella che prevaleva in quel periodo, ma le tesi di Cicerone
e di altri filosofi verranno riprese nel XIX secolo da Pinel ed Esquirol e poi nel XX
secolo.
Nell’età ellenistico-romana vennero ridefiniti anche i concetti di Ippocrate sulla
malattia mentale.
Per quanto riguardava la mania, egli sosteneva che essa indicava uno stato di
profonda alterazione della coscienza, scatenata da patologie acute di natura febbrile. A
causa della sua ridefinizione, nel periodo considerato, la mania divenne, invece, una
malattia mentale a se stante; anzi era considerata la malattia mentale per eccellenza:
l’insania, la follia e la pazzia. Celio Aureliano sosteneva che la mania fosse
un’alienazione cronica senza febbre e quello era il motivo per cui si distingueva dalla
frenite. Quindi, se il maniaco aveva la febbre, si poteva distinguere dal frenetico solo
per delle considerazioni cronologiche: nei maniaci la mania si manifestava sempre per
prima, mentre la febbre si presentava solo successivamente. I maniaci non avevano un
polso piccolo; al contrario, nei frenetici c’era la contemporanea presenza di febbre e del
polso piccolo. La mania era presente nei giovani e negli uomini di mezza età, invece nei
bambini, nelle donne e negli anziani si manifestava molto raramente; in alcuni casi
compariva bruscamente e altre volte in modo graduale. Tale patologia poteva avere
delle cause sconosciute, ma altre volte cause evidenti (un’esposizione al calore, un
raffreddamento, un’indigestione, le ubriacature ripetute senza ritegno (Krapelin),
insonnie costanti, l’amore, la collera, la tristezza e la paura, un comportamento
ossessivo,un trauma, un’eccessiva tensione a livello sensoriale e intellettivo, per
5
Cfr. D. Gourevitch, La psychiatrie de l’antiquité gréco-romaine,in Postel, Quetel (éds), Toulouse
1983, p. 29 e seg.