Introduzione Il caso Merini – come è stato definito dalla critica dagli anni ’80 in poi - è una mina che 
esplode nelle mani degli editori che divorano la creatività dell’autrice, come lei stessa 
sostiene,  e che commercializzano un’esperienza di vita come fosse un buon prodotto di 
fabbrica. È evidente come attualmente la Merini sia entrata a far parte di quel mondo fatto 
di case editrici e proposte editoriali – se calcoliamo poi la sua fluviale produzione – di 
mass media e anche televisione: ma questo è soltanto il dopo, avvenuto per cause di cui 
anche l’autrice non ha gestione alcuna. 
In questa sede non si vuole dimenticare la dignità letteraria dell’autrice, che esplode ai 
suoi massimi livelli quando la poesia diventa sacra, entrando in comunione con la vita, 
con il dolore e con l’esperienza estrema e tragica del manicomio e quando soprattutto il 
poeta si rende mezzo di testimonianza, custodendo nei versi quell’ aspetto di sacralità che 
ha la vita in quanto tale e la letteratura quando si manifesta nelle sue più accurate 
ricercatezze, nonostante le magiche ispirazioni.
La poesia di matrice religiosa è da sempre una fonte di ricerca infinita per gli stessi autori 
e per i lettori che, tramite l’eleganza e la vulnerabilità della fede , si cullano in ciò che Jung 
avrebbe chiamato archetipi , proprio perché vengono poste domande le quali risposte sono 
concetti, dogmi, percezioni, modelli,  in cui i sensi si concentrano nell’infinito variabile e in 
cui la carne si fa preda della preghiera.
In un quadro storico straripante di disillusione ideologica è il riemergere di questa 
convulsa ricerca che si fa strada nel mondo, nella società e nell’abisso dell’essere umano, 
nello specifico in una Italia lacerata dalla guerra, in cui gli individui tentano 
l’attraversamento di un possibile punto d’incontro collettivo nei meandri dell’animo 
umano e ancora tramite un punto di partenza per nuovi progetti di umanità.
Ma in Alda Merini questo è solo un amaro contorno perché la grandezza del pensiero 
umano si rende specifico nella storia interiore di questa autrice. 
Si andrà a dimostrare come la forte tensione della ricerca – che anticipa una salvezza - 
prevede uno spazio metaforico dove poter agire: è presente in lei da sempre, dagli esordi 
giovanissimi e non nato dalla sola esperienza manicomiale. 
La letterarietà di questa autrice si svela dai primi scritti, dalle prime timide raccolte che 
manifestano chiaramente la presenza decisiva di quegli archetipi , appunto, che vivranno 
nella sua scrittura fino ai giorno nostri, attraversando quello spazio, non luogo , che è il 
manicomio, e tramite il quale troveranno una sempre maggiore raffinatezza e cura fino a 
divenire propri della poetessa. 
Il suo mondo, così espresso tramite questa scrittura di nenie e canti, è fatto di una poesia 
che raggiunge i massimi livelli proprio dove la sofferenza si fa percorso di resurrezione , 
attraverso le tappe che sembrano ripercorrere  la Passione cristiana. 
È lei stessa a farsi padrona di certe figure, metafore, sublimi accostamenti d’immagini che 
rendono visibile il dolore all’occhio umano. È la trascendenza che si avvera in letteratura, 
non calcolata, non pensata, vissuta tramite quell’Io che si sdoppia dinanzi alla vita per 
tentare la via della Salvezza. 
Il «sacro», che scende nella sofferenza dell’essere umano, condanna l’uomo all’estasi, 
all’uscita da se stesso, ma può anche condannarlo al tormento. Se è vero che il poeta è 
soprattutto testimone della libertà radicale dell’uomo, libertà che affonda le sue radici 
nelle profondità più misteriose dell’animo, allora ecco che la poesia è il mezzo dove 
possono compiersi le scelte più autentiche ma anche il luogo dove sono in grado di 
insorgere i dubbi più insostenibili. Per questo si può fare una similitudine fra l’esperienza 
dell’ispirazione profetica o mistica e quella del poeta.
1
Partendo dalla produzione giovane mi soffermerò in particolare sulla raccolta Paura di Dio 
del 1955: opera di fondamentale importanza, questa silloge all’epoca non ebbe la giusta 
attenzione mentre oggi, dopo mezzo secolo, può essere definita invece il primo fulcro 
1 « Padre, se questo amore/ così grande mi attira/ fino a darmi giganti dimensioni;/ Padre, se questa ascesa/ è simile 
all’abisso e colorata,/ prosperosa ogni vena di ricordo/ dammi morte ossequiosa/ dei miei ciechi travagli […] ».
In Merini A., Paura di Dio , Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1955.
vivo, e già vicino alla consapevolezza, in cui si attestano gli archetipi meriniani; qui, ancora 
privi di un sostegno colto e maturo, oscillano tra quelle dicotomie di cui è fatto tutto il 
pensiero dell’autrice: ombra e luce, sacro e profano, spirito e carne, amore e odio, salvezza 
e dannazione, peccato e redenzione, gioia e dolore. 
Dai versi emerge un continuo interrogarsi, una forza e una speranza giovanile; su 
commento dell’autrice stessa: ‹‹ogni palpito del cuore ed ogni conoscenza umana 
diventano filosofia dell’amore ››.
2
L’amore in adolescenza prende forme diverse, sfumature fragili ma impetuose, e la donna 
è frutto della forza vitale della vita, con la sua carnalità, sensualità, passione travolgente. 
Sempre su dichiarazione dell’autrice: ‹‹la donna arde della propria seduzione ma 
contemporaneamente ne ha paura. L’adolescenza, periodo mitico e burrascoso, è sempre 
alla ricerca disperata di un vertice (di un verso) che la possa oltraggiare e al tempo stesso 
difendere »
3
.
Ma ciò che interessa soprattutto in Paura di Dio è questa continua tensione al  mistico, alla 
ricerca di un Dio che porta con sé due volti, uno «fosco» e uno di «luce»: come ogni cosa 
che contiene il suo contrario, in essa si raccoglie la doppia espressione della vita, una di cui 
siamo coscienti, l’altra nella quale non sappiamo entrare con l’ausilio della ragione, 
interrogando quel Dio di cui l’autrice necessita presenza, quell’entità che non sa dare 
risposte se non, come nel suo caso, attraverso una fede giovane che scioglie versi d’amore.
È una volontà di ritrovare somiglianze nella dolcezza di una spiritualità che si configura 
nell’identità, se ne ha una o più, di Dio, quello cristiano, irraggiungibile, giudice di vita ma 
consolatore del dolore, colui che scatena il dubbio dell’esistenza per mezzo di una rabbia 
che spesso partorisce assenza.
Quelle della Merini sono invocazioni, quasi preghiere in versi che abbracciano il cuore 
spirituale : il dubbio è momento di persuasione e richiesta di risposta, tessitore di una tela 
intrisa di quesiti - a volte retorici - e arresa al destino e alla vita, altre volte cosciente e 
insistente quando il vuoto è pericolo per l’anima.
2 Nota di presentazione dell’autrice alla raccolta La presenza di Orfeo, Milano, Scheiwiller, 1993, 2° edizione 3 Ibidem.
Altro tema invadente è la morte, “intatto minuto ”, che si siede sull’uscio della fede tra 
necessità di credere e urgenza di pregare nell’attimo in cui “l’anima mi è stanca”.
Ma è anche il punto che conclude, la morte, mietitura della materia e raccolto di 
un’esistenza: poi, anni dopo, il manicomio , altro non luogo di ricerca, di condanna e 
resurrezione, tutto si svolge al suo interno come la vita dell’autrice che cerca  e ritrova 
l’essenza nel baratro della follia, se così allora veniva chiamata, oggi possiamo darle un 
valore e un’accezione diversa.
La letterarietà della Merini non va dunque ricercata nella tragica esperienza manicomiale 
che è divenuta centro invadente della sua vita privata e letteraria, ma in quel complesso di 
archetipi raccolti lungo tutto il percorso della sua scrittura e soprattutto concentrati e 
ritrovati in questa giovane raccolta che è Paura di Dio.
1 Capitolo 
Un contesto: poesia e “impegno”. Gli anni successivi all’Ermetismo non furono molto propizi al 
sorgere di una poesia diversa. Dal panorama letterario si attendevano 
richiami autobiografici tendenti a sottolineare lo stato di perplessità, di 
angustia e malessere del dopoguerra. Quali sarebbero state le nuove 
tematiche che potevano proporre un rinnovamento della poesia? Si 
rifletteva più sul disagio che sull’effettiva capacità di rappresentazione, 
uno spessore politico prendeva il sopravvento dato che era mancata in 
Italia una vera e propria poesia della Resistenza intesa come poesia della 
realtà storica e sociale con una tendenza all’epica popolare, invocazione ai 
sentimenti di tutti: si sperava in una dichiarazione realista che necessitava 
un compromettersi maggiore con le responsabilità dello svolgersi della 
lotta sociale e delle vicende storiche, forse il tentativo di rivendicare alla 
poesia novecentesca un’accezione positiva affermando in tal senso un suo 
carattere “ resistenziale”.
Dagli inizi degli anni Trenta fino alla fine della guerra si era ancora 
lontani dal formare vere e proprie ragioni di interpretazione, di 
stilizzazione del mondo e i giovani Luzi, Penna, Bertolucci, Parronchi e 
altri, avevano appena iniziato la loro ricerca poetica presentando i primi 
libri, testimoniando – più che l’esito – un continuo lavoro aperto a tutte le 
direzioni possibili. Ecco perché la continuità del discorso ermetico nel 
dopoguerra è presente in quasi tutti i “ nuovi poeti” .
In fondo i problemi del rapporto fra la realtà e la parola erano 
sempre gli stessi e gli ermetici si trovano in un proseguire delle loro 
1
tematiche in un approfondimento più dettagliato dei propri motivi, di 
migliore precisazione del linguaggio, di tecnica: la poesia ermetica aveva 
ragione d’esistere come risposta e negazione, contrasto assoluto, 
opposizione senza soluzione storica, senza prospettiva.
Era l’opposizione di 
[…] una luce metafisica, o il mito di un’età dell’oro ora religiosamente 
indicata in una gerarchia cattolica di ordine terreno e di società 
esemplato sulla parola divina, ora ricostruita sulla favola di una 
metafisica condizione di infanzia libera e pura, ora ipotizzata in una 
spiritualità più generica ma ugualmente tendente all’irrelazione totale 
nei confronti delle cose, del mondo […] 1
contro il caos e l’oppressione, gli orrori e i mostri del mondo generati dalla 
guerra.
Rispetto alle cose, alla società, al mondo, durano l’incertezza e il 
dubbio, il senso di “non possedere”, l’angoscia o l’accettazione di uno 
stato d’impotenza nei confronti di ciò che sta accadendo e delle vicende 
del mondo, il non saper trovare e dunque riconoscere il proprio posto, i 
propri luoghi, un senso di dispersione generato dall’instabilità collettiva e 
sociale, non capire il proprio compito: sono gli anni che precedono la 
seconda guerra mondiale.
Il clima ermetico del dopoguerra rappresenta la manifestazione più 
totale e comprensiva in un ambito culturalmente alto dove è presente lo 
scetticismo intellettualistico, la sua solitudine che diventa comunicativa 
soltanto nel cerchio chiuso, all’interno, in cui c’è scambio tra lettori e 
creatori di letteratura.
1
 Barberi Squarotti G., Storia della civiltà italiana , Torino, UTET, 1996, Tomo II, Capitolo XI, 
p. 1378.
2
Non mancano di certo veri tentativi di rinnovamento in rapporto 
con la situazione: Erba, Risi, Pasolini, Zanzotto, Spaziani che si inseriscono 
in un quadro dove già erano attivi Montale, Ungaretti, Luzi, Gatto, Sereni 
e Quasimodo.
2
Venti anni di polemiche e prese di posizione intorno alla poesia del 
dopoguerra: da un lato la concezione ancora petrarchesca della lirica – 
favorita naturalmente dal petrarchismo ungarettiano –  dall’altro le 
risultanze ermetiche e le ultime conseguenze di un crocianesimo affiancato 
ad una idea tipicamente formalistica della funzione della poesia, 
ornamento e decoro, e ancora l’esuberanza e l’accettazione 
dell’entusiasmo dettato dalla condizione del poeta  nella società in un 
circolo chiuso che è quello del consumo letterario. Dei critici poeti e dei 
critici puri.
Non è ancora sorta una nuova civiltà poetica pronta ad accogliere e 
a radicare in sé  autori di spessore e le singole situazioni positive, sono la 
continuazione più o meno decaduta della poesia novecentesca già 
presente e interpretata con i soliti metri psicologico-formali.
In opposizione una realtà che inizia a premere, un dato di fatto: 
l’esistenza di alcune nuove voci poetiche e dunque le divisioni di correnti 
2
 Quasimodo S., Antologia della nuova poesia italiana del Dopoguerra, Schwarz, Milano 1958. 
Nel 1953 Quasimodo scrive il suo primo discorso sulla poesia (altri due sono del 1957 e 
del 1959) dove sembra emergere una certa chiarezza sul panorama letterario presente in 
quegli anni in conseguenza della pubblicazione di nuove opere poetiche degli autori già 
attivi del periodo. Portatore di insofferenze giovanili, si schierava contro “l’Arcadia 
tradizionale” affermando il sorgere di un primo lessico della nuova poesia ricca di larghi 
movimenti di ritmi e forme,  la fioritura di una poesia sociale che si rivolge ai vari insiemi 
della società umana. Nel discorso del 1953 avanza molte e opportune distinzioni pur 
affermando la posizione negatrice nei confronti della poesia ermetica e in genere del 
Novecento italiano e più ancora della critica ermetica. Di conseguenza esalta il linguaggio 
tutto proprio della grande poesia straniera, attaccato alle cose e alle vicende e ai problemi 
degli uomini: la poesia deve riguardare direttamente l’uomo, le sue attese, le sue 
speranze, la sua intera vita, la sua quotidianità, la sua morte. Così spunta il demone da 
esorcizzare del ‹‹ formalismo ››. La poesia ermetica in questa visione poesia non è.
3
che si sciolgono in neorealisti, religiosi (Padre Maria Turoldo ne è un 
esempio), neoermetici, neosperimentali ecc., con l’estremo sforzo da parte 
di studiosi e critici di delineare una certa complessità di situazioni, di 
attuale diversità tematica e di linguaggio, di pensiero, per tentare di 
ottenere un minimo riconoscimento nell’aver individuato una nuova 
condizione della poesia italiana, ben distinta dalla precedente 
generazione.
L’unica relazione che in questi anni viene ammessa senza 
polemiche è la continuità storica della poesia con se stessa secondo l’antica 
concezione che la lirica dovrebbe esprimere il sentimento di tutti, a livello 
quasi populistico, agibile ai molti, essere dunque uno specchio del sociale 
in una sorta di atemporalità che prevede un riconoscimento platonico del 
sentire comune: 
[…] sembra proprio che la preoccupazione maggiore dei discorsi sulla 
poesia nell’immediato dopoguerra sia di stabilire se le guerre 
determinano o no profonde trasformazioni nella cultura e nell’idea di 
letteratura così come provocano profonde ferite negli uomini e nelle 
cose e sono le occasioni dirompenti di mutamenti radicali negli Stati, 
nelle società, nella vita, nelle istituzioni politiche.
3
L’ansia di nuovo sommuove le prime manifestazioni poetiche e di 
poetica, così abbiamo da un lato l’irrigidimento politico ed istituzionale 
del PCI, con la radicale condanna morale alla cultura “decadente”, 
dall’altro c’è il rafforzarsi della coscienza generazionale dei poeti più 
giovani che tramite la vasta pubblicazione di antologie si sentono coinvolti 
nell’aver raggiunto piena dignità e fama. Abbondanti raccolte e 
3
 Barberi Squarotti G., Storia della civiltà italiana , cit.
.
4
presentazioni aiutano i nuovi nomi a circolare, non importa che se ne parli 
bene o male, l’importante è che questa circolazione serva a far raggiungere 
una sorta di dignità e memoria  simile a quella dei primi poeti del 
Novecento.
4
Un grande uso della parola ‹‹uomo›› in quegli anni fa sì che si 
cerchi di costruire una poesia a misura d’uomo e il riconoscimento della 
rozzezza con cui si affrontano  le discussioni sul Realismo, sulla nuova 
poesia e sull’impegno portano ad una delusione che confluisce, da parte 
delle nuove voci, in una delusione. Cade il fascismo ma la società italiana 
non muta così radicalmente come poteva immaginare un Quasimodo. Le 
elezioni del 18 aprile 1948, con la sconfitta del Fronte Popolare e la 
maggioranza assoluta della DC ne sono la testimonianza.
Se negli anni precedenti la guerra c’era stata un’attenzione 
particolare all’estrema purezza della parola e all’ultima illusione del canto, 
al non compromesso con le parole d’ordine del fascismo – allontanandosi 
così da ogni relazione con il sociale e il dato storico – ora la poesia ha 
scelto la strada opposta riparandosi così dalla proclamazione della 
necessità dell’impegno politico e sociale.
Un’esigenza etico-storica che si poneva in termini moralistici e che 
attraversava tutta la poesia. Questo atteggiamento causò scomode 
conseguenze in quanto ogni tendenza poetica, che prendesse le distanze 
4
 Di fondamentale importanza è la pubblicazione dell’antologia della giovane poesia 
Scrittori Nuovi del 1930 curata da Falqui e quella della poesia del Novecento Lirica del 
Novecento del 1953 curata da Anceschi e Antonielli proprio in funzione di un rapporto 
generazionale. Per quanto riguarda le antologie delle voci nuove possiamo citarne alcune 
in cui compaiono anche le prime poesie della Merini: Giacinto Spagnoletti, Antologia della 
poesia italiana 1909-1949 , Parma, Guanda, 1950 (seconda edizione riveduta e arricchita 
1952); Poetesse del Novecento , a cura di Scheiwiller, Milano, Scheiwiller, 1950; Antologia 
della nuova poesia italiana del dopoguerra , di Salvatore Quasimodo, Milano, Schwarz, 1951; 
Quarta Generazione (1945-1954) , Piero Chiara e Luciano Erba,Varese, Magenta, 1954.
5
dall’impegno in senso strettamente partitico, veniva accusata di 
tradimento del popolo, di reazionarietà, di collaborazione fascista.
Ecco che dunque l’impegno della poesia doveva essere 
necessariamente “partitico” e le regole della poetica dovevano essere 
schiave dello scopo politico e della poesia stessa. Da qui nasce la necessità 
di una poesia del realismo, recuperato dalla tradizione ottocentesca e da 
un certo marxismo con il rinforzo della saggistica letteraria e delle varie 
teorizzazioni estetiche agli inizi degli anni Cinquanta.
Sostiene infatti anche Maria Corti: “è quasi inevitabile che questa 
nuova poesia passi attraverso una fase di non comunicazione tradizionale 
considerata esaurita e anacronistica”.
5
  
Questo cambio di rotta della poesia urtava anche contro i limiti 
della cultura. Infatti se qualcuno era rimasto – durante il periodo del 
Fascismo – a contatto con i grandi della letteratura europea, erano proprio 
i disprezzati ermetici rinchiusi dentro questa etichetta in cui si erano 
affollati alla rinfusa la maggior parte dei poeti del Novecento italiano che 
avessero o meno avuto rapporti con la poesia pura: unica eccezione fu 
Pavese che con Lavorare stanca mise in versi, in età ermetica, un monologo 
interiore capace di una poetica “realista”o per lo meno così appariva. 
Fioriscono così nel periodo ermetico numerose riviste letterarie: in 
questo nuovo tardo Umanesimo nasce “Uomo”, la rivista di Carlo Bo del 
1945, proclamazione del valore profondamente umano e religioso delle 
ricerche poetiche dell’ermetismo; il “Menabò”  (1959) di Vittorini che a sua 
volta non esita a pubblicare su “ Il Politecnico” i poeti ermetici tra cui Gatto 
e Montale: un intervento equilibrato ed effettivamente guidato da un 
5
 In Bersani M.- Braschi M., Viaggio nel ‘900, a cura di Maria Corti, Milano, Mondadori, 
1984, p. 945.
6
impegno morale e letterario pieno e completo ponendo al centro della 
discussione il problema della nuova letteratura.
Si aggiunge alla lista delle riviste “Officina” fondata a Bologna nel 
1955, frutto della collaborazione tra Roversi, Pasolini, Romanò, Leonetti, 
Fortini, Scalia, che eredita alcune delle più diffuse posizioni dell’epoca 
dell’immediato dopoguerra ma enfatizzandole in vista di un impegno 
molto più ampio e comprensivo rispetto a quello rigidamente politico 
proposto da Quasimodo, Salinari, Alicata. 
Non va dimenticato “Il Verri“ (1956) ad opera di Anceschi, che si 
pone subito contro lo sdilinquimento delle esaltazioni dell’uomo e 
dell’impegno nella poesia. 
7