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INTRODUZIONE
Questo lavoro si articola attorno ad una riflessione sulla scrittura collettiva, pratica
di recente formazione, che negli anni ‘70 del Novecento diviene modalità largamente
utilizzata nell’ambiente teatrale. ¨ scrittura collettiva - per esempio - quella che nella VIII
circoscrizione di Roma, nel Quartiere di Castelverde, la cooperativa Giocosfera
accompagnava proprio in quegli anni. Un progetto che è stato condiviso, comunicato con
mezzi espressivi diversi, e nello specifico, un video, due drammatizzazioni, un cantastorie.
Ma, cosa significa precisamente scrittura collettiva? PerchØ viene confusa, talvolta, con la
tradizionale scrittura drammaturgica oppure con la innovativa scrittura scenica?
La questione nasce all’interno delle rivoluzioni socio-culturali degli anni
sessanta/settanta, dove, anche la figura del regista/drammaturgo assume nuovi connotati,
meno “autoritari” e piø “rispettosi” dell’altro-attore con cui egli lavora per realizzare un
prodotto, ora piø performativo che teatrale. Perciò, come Peter Brook ebbe a dire, il regista
è piø un animateur. Non a caso proprio nell’ambito del teatro antropologico si farà strada
la nozione e la pratica della “drammaturgia dell’attore”. I fautori saranno: P. Brook, J.
Grotowski, ed E. Barba.
Ora, se «l’antropologia teatrale è la scienza che studia il comportamento dell’essere
umano in quella particolare situazione che è la rappresentazione organizzata»
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, allora il
teatro antropologico metterà al centro del suo interesse il lavoro dell’attore su se stesso,
l’organicità, la verità del suo comportamento. L’antropologia teatrale è il punto di arrivo di
tutta la ricerca del Novecento, l’erede della scienza di Stanislavskij e perciò non si può non
parlare di drammaturgia dell’attore. Nel teatro antropologico, piø che il risultato,
fondamentale è il processo ove «l’attore mette volontariamente in equilibrio precario il
corpo impegnando i muscoli, ma anche le emozioni impegnando l’immaginazione»
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.
Il testo drammaturgico e gli elementi caratteristici del genere teatrale come la musica,
la dizione, la scenografia ecc., vengono messi in secondo piano per focalizzare lo studio
dell’evento teatrale avente come centro l’uomo ed il corpo.
Così, a seguito della virata stanislavskijana, si sono prodotti modelli non univoci di
spettacolo teatrale, a tal punto che la distinzione fra teatro di regia e teatro di
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FALLETTI C. (2008), Il corpo scenico, ed. Editoria & Spettacolo, Roma, pag. 6
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Ivi, pag. 8
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sperimentazione risultava poco utile. Per teatro di regia s’intendeva l’insieme delle
esperienze sceniche in cui al centro c’era comunque il testo drammaturgico, a volte
pienamente rispettato, a volte ridotto e rielaborato in modo anche radicale. In quest’ambito
il lavoro di regia consisteva nel fare dello spettacolo un’interpretazione critica del testo.
Per teatro di sperimentazione s’intendeva, invece, ogni altro tipo di spettacolo teatrale,
costruito in assenza di un testo d’autore. Per tale motivo E. Barba nell’autunno del 1976
rilasciava ai partecipanti dell’ Incontro Internazionale di Ricerca Teatrale (Bitef,
Belgrado), un documento che assunse il valore di manifesto, nel quale per la prima volta si
parlava di “Terzo Teatro”, definizione entro cui venivano collocate tutte quelle esperienze
caratterizzate da una «provenienza non professionistica dei suoi artefici, per una pratica di
esistenza che fa del teatro uno strumento di ricerca antropologica, culturale ed interiore,
rimanendo indifferente alla produzione dello spettacolo come obiettivo di un lavoro che,
invece, vorrebbe essere costantemente in progress, e solo episodicamente sottoposto alla
verifica della scena»
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.
Claudio Bernardi, nel suo volume sul Teatro Sociale, ricorda che nel ’77 in Italia
erano stati censiti almeno 500 gruppi teatrali con tale impronta - un numero che ricorda
quell’ arcipelago teatrale esistente in molti paesi del mondo, espressione con cui Barba
apriva il suo manifesto.
Fra le esperienze piø ricordate, e che ancora oggi destano ammirazione, curiosità o
incomprensione, ricordiamo: quella dell’inglese Peter Brook, la cui importanza nel
panorama europeo crebbe con l’inaugurazione del Centro Internazionale di creazione
teatrale (Parigi) da lui diretto. La sua ricerca mira alla scoperta del livello piø elementare e
necessario della comunicazione teatrale, quello su cui non intervengono le convenzioni
culturali sedimentatesi nel corso della secolare consuetudine del fare e dell’andare a teatro.
Mirando all’essenziale semplicità del linguaggio teatrale egli si propone di rendere lo
spettacolo un momento di incontro universale, capace di superare le differenze culturali e
nazionali. I lavori che si ispirano a tali finalità sono stati rappresentati da una compagnia
formata da attori di nazionalità diverse.
Sarà stato immediato capire come gli interessi di Brook sono molto simili a quelli
di Barba. Anche il salentino - lo sappiamo bene - nel 1964 fondò in Norvegia un
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BOSISIO P. (2004), Teatro dell’Occidente. Elementi di storia della drammaturgia e dello spettacolo
teatrale, ed. LED, Milano, pag. 728
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laboratorio, l’Odin Teatret, che divenne in poco tempo un centro di animazione teatrale,
caratterizzato da un forte impegno sociale. L’Odin promuove un lavoro di ricerca
antropologica ed etnologica itinerante, il cui fondamento sta nel training: il lavoro
sull’espressività fisica dell’interprete e sulle sue capacità introspettive. Albero, questo del
laboratorio, riconosciuto dal maestro per eccellenza del ‘900, e di cui Brook e Barba sono,
in modi diversi, divulgatori e ricercatori insaziabili di frutti.
J. Grotowski, infatti, comprese che il teatro - contrariamente al cinema - dispone di
un elemento di determinante importanza: il rapporto diretto e vivo fra attore e pubblico.
Spogliato da tutti gli elementi accessori e divenuto povero, il teatro manifesta la sua
essenza nella specifica e sola presenza dell’attore. Ora, grazie al training - essenziale per la
ricerca dell’organicità dell’attore prima e della verità del personaggio poi - la necessità di
una direzione registica viene meno. Essa rimane al margine poichØ capace -
tradizionalmente esercitata - di produrre sulla scena azioni, vissuti meno interessanti, piø
artificiosi, meno capace di «suscitare la dilatazione psicofisica nello spettatore attraverso la
dilatazione psicofisica del performer»
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, rispetto all’allenamento, alla ricerca che l’attore fa
su se stesso. Il regista smarrisce, allora, il suo ruolo per assolvere unicamente alla funzione
di registrare e fissare il lavoro creativo compiuto dagli attori, reclamando per sØ, a seconda
delle circostanze, la funzione di animatore o pedagogo. Ed ecco perchØ si può parlare di
drammaturgia dell’attore. Nel Teatro Sociale ancora di piø si noterà questa particolare
veste del conduttore/animatore, figura che, piø di altri, osserva cosa emerge o, come
direbbe la A. R. Ghiglione sa “vedere la teatralità che emerge”. Ma riprendiamo la
questione della ridefinizione della figura e del ruolo del regista.
A partire dagli anni ’70 - abbiamo visto come - nell’ambito del Teatro
Antropologico e del Terzo Teatro il regista ha assunto i contorni del conduttore, del trainer,
dell’animatore, a seconda dei casi e con varie gradualità. Adesso toccheremo l’altra
decisiva esperienza italiana, del Teatro Educativo e del Teatro d’Animazione cioè, per
notare come anche qui la regia subì le medesime, e inevitabili, trasformazioni.
In Italia l’animazione teatrale ha vissuto in quegli anni una stagione davvero felice
e promettente. Essa nacque «dalla crisi del teatro pubblico che cerca di uscire dai suoi
limiti specialistici e, attraverso il decentramento, di coinvolgere le masse nel fatto teatrale e
dalla crisi della scuola che tenta di rifiutare la tradizione scolastica che vuole l’alunno
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FALLETTI C. (2008), pag. 7
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passivo ricettore di formule nozionistiche, per aprire la strada alla ricerca
dell’autoformazione attiva guidata»
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. Ebbe il proprio campo sperimentale e di diffusione
innanzitutto nelle scuole con la teatralizzazione di contenuti didattici al fine di rendere
piacevole e piø efficace l’apprendimento delle nozioni scolastiche. Ma l’obiettivo vero dei
giochi era quello di restituire ai ragazzi la libera espressione come forma primaria e
necessaria di comunicazione e di relazione tra persone.
Purtroppo, i grandi intenti utopistici dell’animazione teatrale, oltre a determinarne il
successo, ne stabilirono la morte. Da un lato, i teatranti vissero la scuola come
ampliamento del mercato dell’offerta del proprio contributo - è da questo momento che
nascono cooperative, gruppi, collettivi che si propongono come esperti di attività di
animazione teatrale -, dall’altro, l’istituzione scuola intuiva la possibilità di trasformare
l’animazione teatrale in attività curriculare, cioè, in disciplina come le altre. Non sarebbe
stato piø l’esperto esterno a condurre le attività ma uno degli insegnanti interni - questa
specificazione del teatro nella scuola permetterà di parlare esplicitamente di teatro
educativo.
Il rinnovamento iniziale era destinato a istituzionalizzarsi. L’idea dell’animazione
teatrale come rifiuto/rinnovamento del teatro e della negazione/rifondazione della
pedagogia, affondarono. Giuliano Scabia a parte, poeta-animatore capace di un percorso
esemplare nell’ambito dell’animazione teatrale, bisogna ricordare che quest’ultima trovò
nuove vie di ricerca; una fu proprio quella del Teatro Sociale. Di Scabia, intanto, si ricorda
l’incredibile intervento operato presso l’ospedale psichiatrico di Trieste. Alla vigilia
dell’approvazione della legge 180 - che chiedeva la riforma dell’istituzione psichiatrica -,
chiamato dall’equipe medica di Franco Basaglia, organizzava con i pazienti dei laboratori
una grande parata che avrebbe invaso la città e sfociato in una grande festa. In questi anni,
si registra, dunque, un doppio passaggio: dal teatro alla scuola e dalla scuola ai luoghi del
sociale - manicomi, carceri, centri diurni; molti autori ne hanno dato testimonianza.
Dopo questa breve carrellata possiamo affermare - ma di seguito lo capiremo
meglio - che il teatro sociale non è l’animazione, nØ teatro d’arte, nØ teatro
d’avanguardia, nØ terapia. Esso, infatti, è interessato alle relazioni fra persone, gruppi e
comunità e non semplicemente alla formazione degli individui; non ha come obiettivo
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BERNARDI C. (2004), Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Ed. Carocci, Roma, pag. 43, citando
Remo Rostagno.
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primario il prodotto spettacolare anche se non rinuncia ad una certa estetica; anche se usa
delle tecniche terapeutiche lo fa per fini differenti dalle arti-terapie. S’incontra, semmai,
con l’antropologia teatrale «sui medesimi oggetti di osservazione e di lavoro, vale a dire
sulle relazioni interpersonali, sulla comprensione che ciascuno ha dell’altro, sulla struttura
delle comunità e delle forme sociali di piccola scale, le loro azioni e gli interscambi»
6
.
Tornando all’esperienza di teatro sociale sopra accennata, nel Quartiere di
Castelverde della cooperativa Giocosfera, il gioco della teatralità che emerge dal contesto
si è concretizzato coinvolgendo attivamente fin dalle prime fasi la gente del quartiere. Non
c’era, infatti, un autore, un regista che raccoglieva il vissuto della gente, e lo rielaborava
per restituirlo. Tutto il lavoro era coordinato dai partecipanti che divisi in gruppi
diventavano poi attori nel momento della comunicazione-festa.
Quest’esperienza innovativa traeva certamente ispirazione dal Bread and Puppet,
gruppo teatrale newyorkese, fondato nel ’60 da Peter Schumann e approdato in Europa otto
anni dopo. Scopo del gruppo non era - come Schumann dichiarò spesso - essere un teatro
di protesta, quanto utile; non proponeva soluzioni politiche o estetiche, desiderava
semplicemente comunicare, condividendo assieme ad una determinata comunità il
processo di produzione della performance. Ed è quanto, appunto, fece la cooperativa
Giocosfera con gli abitanti di Castelverde: condividere il processo di ideazione e creazione
dell’evento-festa per aumentare il livello di coscientizzazione del vissuto degli stessi.
A che scopo, allora, la comunicazione-festa finale? Chiaramente per allargare il
cerchio comunicativo. A questo proposito, nel progetto “¨ arrivato Battilossa” a
Castelverde è emerso un dato alquanto interessante. Leggiamo - dall’opuscolo che prende
il nome del progetto ed edito dal Centro Polivalente della Circoscrizione - «Il dato
rilevante della festa deriva dal tipo di partecipazione che l’ha segnato: una partecipazione
frutto non solo di immedesimazione e rispecchiamento […] ma pienamente consapevole ed
unitaria, razionale ed emozionale insieme, senza scissioni. Una prova è data anche dal fatto
che non si è creato uno stacco fra la forma espressiva usata per la comunicazione e
l’intervento di chi partecipa, ma chi sente l’esigenza “di dire” si mette direttamente dentro
la drammatizzazione, spontaneamente improvvisa in rima, propone canzoni e ritmi, il tutto
senza spezzare il flusso omogeneo della festa che procede fino all’esaurimento spontaneo».
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PONTREMOLI A. (2007), Teorie e tecniche del teatro educativo e sociale, ed. UTET Università, Novara,
pag. 39
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In questo, come in diversi altri progetti - vedi “Canto per le radici in fiore. Il lungo
viaggio dell’integrazione” tenutosi nel 2003 a Lecce -, il numero elevato dei partecipanti,
la necessità di ampi spazi, i tempi di manifestazione lunghi e le iniziative plurime e,
magari, contemporanee, fanno della festa, dell’evento socio-culturale l’unico grande
contenitore che rende tutti, in modi diversi, partecipanti. Non c’è piø chi, da seduto, guarda
e chi viene guardato. P. Schumann a riguardo direbbe: «Noi facciamo uno spettacolo per
uno spazio particolare - lo spazio nel quale ci capita di stare. L’unico spazio che rifiutiamo
è quello del teatro tradizionale, perchØ è troppo confortevole, troppo ben conosciuto […]
La gente è paralizzata dal sedere nelle stesse sedie allo stesso modo. Ciò condiziona le loro
reazioni»
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, mentre - aggiungiamo noi - la strada fa “dimenticare” di essere spettatori e
rende piø collaborativi.
A partire, dunque, dalle esperienze di queste forme di teatralità cerchiamo ora di
focalizzare l’attenzione sulle procedure della conduzione di un processo non autoritario e
non autoriale per arrivare a una scrittura, a una drammaturgia di gruppo. In particolare, a
partire dalle recenti metodologie del teatro sociale che hanno fatto tesoro sia del teatro
animazione sia delle altre forme di teatralità e di processi apportati dagli artisti teatrali del
secondo Novecento. Toccheremo diversi temi per arrivare a esplicitare le prassi di scrittura
collettiva ormai diffuse nell’ambito appunto del teatro sociale e dell’arte-terapia in genere.
Cercheremo di descrivere i diversi momenti che vanno dalla composizione di un gruppo
intorno a un lavoro, i ruoli e le funzioni all’interno del gruppo, le metodologie per far
emergere contenuti, vissuti, proposte da parte dei partecipanti, le metodologie per creare
una scrittura di gruppo, la forma che può prendere tale lavoro sia nei laboratori di scrittura
creativa in ambito sociale o socio-sanitario, sia nei laboratori di teatro sempre in ambito
socio-sanitario.
La seconda parte del presente lavoro sarà dedicata proprio al resoconto di due
esperienze di tirocinio, uno svolto presso il Centro Diurno “Villa Lais” sulla Tuscolana a
Roma, e l’altro presso i locali del Centro di Salute Mentale 12 anch’esso nella zona C di
Roma, conosciuto come “Laurentino 38”. Luoghi destituzionalizzati che cercano di
rispondere in qualche modo alle necessità derivate dalla chiusura dei manicomi. Il primo
laboratorio era di “scrittura creativa”, l’altro prettamente “teatrale”; entrambi erano svolti
con utenti portatori di disagio psichico.
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Cfr. Intervista pubblicata su The Drama Review n°3 del 1970