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Introduzione
Un capitolo importante della formazione sacerdotale che era già emerso negli anni settanta del
secolo scorso, specie nel mondo anglosassone, in tutta la sua importanza, riguarda l’uso delle
competenze psicologiche nel processo del discernimento vocazionale, che sono ormai
divenute obbligatorie da quando la Congregazione per l’Educazione Cattolica ne ha rilevata la
particolare importanza nella Nota indicativa del 19 novembre 1975, nella quale si metteva al
centro della questione la difesa dell’intimità della persona umana, salvaguardandola da
qualunque tipo di possibile violazione.
La Congregazione avviò allora uno studio al riguardo, interpellando anche le Congregazioni
per la Dottrina della Fede, per il Clero e per i Religiosi. La prima di queste fu incaricata dalla
Segreteria di Stato di preparare una dichiarazione in materia, ma alla fine non si arrivò a
pubblicare il documento programmato. L’unico pronunciamento che si ebbe fu quello della
Segreteria di Stato, la quale indicava tre criteri da tener ben presenti:
A nessuno, neppure ai Superiori Religiosi o Diocesani, è lecito entrare nella intimità
psicologica o morale di una persona senza averne avuto il previo, esplicito, informato
ed assolutamente libero consenso; in questo senso sono pertanto da considerare illecite
tutte le pratiche psicologico - proiettive
1
e di altro tipo, che si mettono in atto durante
l’ammissione o permanenza in seminari o noviziati, se manca il previo e libero
consenso dell’interessato, che non può essere estorto in alcun modo.
Lo psicologo non dovrà manifestare le conoscenze concernenti la vita intima alle quali
fosse pervenuto a terze persone, siano esse autorità religiose o civili.
L’analizzato è obbligato a rispettare i noti principi della morale concernenti i segreti
cui egli è tenuto (segreto naturale, segreto professionale e segreto commesso).
La necessità di riprendere lo studio del problema dell’uso dei test psicologici nell’ammissione
e nella formazione dei candidati al sacerdozio, venne riproposta nella Plenaria della
Congregazione per l’educazione cattolica nel 1995. Quest’ultima tre anni dopo, presentò ai
Padri la prima bozza del documento intitolato Lo screening psicologico e l’uso della
psicologia nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio e alla vita
consacrata. Il testo ha ricevuto consensi e critiche: da chi mostrò una perplessità sulla pratica
generalizzata dell’esame psicologico, a chi richiamò alla prudenza sulla natura dell’esame
psicologico e dei risultati ottenuti dai test, poiché si desiderava avere più dettagli sul momento
1
Per un approfondimento delle modalità di intervento psico-analitico-cognitivo vedi L. RULLA, Psicologia del
profondo e vocazione, Piemme, Casale Monferrato, 1989.
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preciso dell’esame e sul posto ed il ruolo dell’esame psicologico nel discernimento ecclesiale
globale della vocazione. Tutti i Padri ritennero che il testo poteva servire da base per un futuro
documento, mediante approfondimenti e una serie di aggiustamenti.
Negli anni 2000-2002, il testo rivisitato è stato sottoposto all’esame di esperti di diverse
scuole psicologiche per ritornare poi di nuovo alla valutazione dei Padri, i quali accolsero,
facendoli entrare nel testo, anche dei suggerimenti di altre Congregazioni romane, soprattutto
della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il documento venne presentato nella Plenaria del 2002, ottenendo il placet dal Card.
Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale espresse un
giudizio positivo sull’ingresso della psicologia all’interno del percorso del candidato al
sacerdozio, in quanto ritenne che essa potesse costituire un ulteriore aiuto per capire i
problemi dell’anima umana. Allo stesso tempo il cardinale sottolineò l’importanza che lo
psicologo fosse un uomo credente, capace di integrare la sua scienza in una visione di fede,
cogliendo l’uomo come persona irripetibile e radicata nel mistero divino. Importante era
anche il fatto che il giudizio dello psicologo doveva poi inserirsi nel giudizio globale dei
superiori, solo ai quali spetta la valutazione finale del candidato.
Tuttavia il documento per essere pubblicato dovette passare altri controlli: nell’ottobre dello
stesso anno fu oggetto di una nuova consultazione delle Congregazioni interessate; nel luglio
del 2004 fu inviato ancora una volta per osservazioni alla Segreteria di Stato e alle diverse
Congregazioni per essere emendato alla Plenaria del 2005, nella quale i Padri hanno avanzato
decisivi suggerimenti che hanno contribuito ulteriormente a maturare il testo, rendendo più
esplicita la specificità della vocazione al sacerdozio, dono e mistero non accertabile solo con
metodi psicologici, i quali erano comunque valutati come utili strumenti nelle mani dei
formatori e sotto la vigilanza del Vescovo.
Il 12 giugno 2006 il documento fu intitolato Orientamenti e norme per l’utilizzo della
psicologica nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio,
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per essere
finalmente presentato alla Plenaria nel gennaio 2008, nella quale ottenne dai Padri la
definitiva approvazione con 23 placet, 1 non placet e 5 placet juxta modum: nasceva così il
primo documento della Chiesa interamente dedicato a dare linee guida sull’utilizzo delle
Scienze umane nei seminari.
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CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche
nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
2008.
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Ho voluto premettere questo excursus storico previo alla pubblicazione del documento sopra
citato, per introdurre quello che sarà il corpo della mia tesi, finalizzata ad analizzare il
percorso che la Chiesa ha fatto prima di giungere a questo documento. La tesi si articola in sei
capitoli, nei quali cercherò di dimostrare come l’utilizzo delle scienze umane in aiuto al
discernimento si dimostra semplicemente in continuità col Magistero e non di novità
modernista o post-conciliare, senza radici nella Tradizione. L’interesse per questo settore è
dato dal bisogno che ho maturato negli anni di Seminario, che mi spinge a vedere ogni
persona con cuore misericordioso nel rispetto della sua storia umana e personale, nel rispetto
inoltre del processo di maturazione e dei gradi di maturità che ognuno possiede, nel desiderio
di dedicarmi un giorno alla formazione dei futuri sacerdoti. Il mio lavoro non vuole avere
pretesa alcuna se non quella di raccogliere dati già ben consolidati ed esporli in maniera
organica, per una più facile consultazione. La nostra Fede è fondata su un elemento essenziale
l’Incarnazione: questo significa che Dio si è voluto incarnare nella nostra storia, nella nostra
concretezza, nella nostra umanità che va rispettata e aiutata anche con l’eventuale apporto
delle scienze umane.
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CAPITOLO PRIMO
VOCAZIONE: SIGNIFICATO E PORTATA TEOLOGICA
1.1 La vocazione: realtà complessa e problematica
La realtà della vocazione va letta nell'orizzonte della relazione uomo-Dio, quindi nell’ambito
dell’antropologia teologica. In passato, partendo da una visione statica della realtà, si
indugiava su una concezione 'cosificata', essenzialistica del rapporto uomo-Dio.
Il concetto chiave che lo definiva era quello della “grazia”. Tra l'uomo e Dio vi è questa realtà
misteriosa che chiamiamo grazia.
Una tal visione fa credere all'esistenza di un modello comunque omogeneo di vocazione, per
cui essa nella sua natura profonda era uguale per tutti, concepita come un dono, come decreto
eterno che fissava in anticipo il futuro destino di colui che era chiamato e se ne trovava anche
la giustificazione, a livello biblico. Alcune espressioni possono ancora risuonare dentro di noi,
nel nostro orecchio: “Fin dal seno materno io ti ho conosciuto...”.
La vocazione era compresa come un progetto prefabbricato, già inserito embrionalmente nel
chiamato (predestinato) fin dal principio, una specie di copione che aspettava solo di essere
recitato, certamente con una certa partecipazione anche convinta, ma da interpretare il più
possibile alla lettera. Una volta individuato questo copione occorreva metterlo in esecuzione.
Il tema della vocazione si pone indubbiamente come complesso e deve essere considerato da
un duplice punto di vista: in origine da parte di Dio che si dona e donandosi “chiama” e nel
soggetto, uomo e donna, che sono “interpellati”. La vocazione è perciò un dono che avviene
in un dialogo: presuppone l’iniziativa di Dio e sollecita la risposta dell’uomo.
Così posto, il concetto di vocazione si presenta come:
dialogico relazionale, tra Dio e l’uomo;
dinamico evolutivo, connesso col divenire esistenziale e culturale dell’uomo, in
particolare dei giovani, che si pongono di fronte al senso-progetto di vita;
storico culturale, in quanto rapportato ai contesti di sviluppo umano lungo il corso
della storia e in sintonia con i quadri di riferimento che ogni epoca assume come
orizzonte di vita e di azione.
1
L’uomo viene costituito nella sua natura dalla chiamata creatrice di Dio,viene elevato per
mezzo della grazia santificante alla vita soprannaturale, attraverso un consenso personale al
gesto redentore di questo stesso Dio.
1
Cf. S. DE PIERI, «Vocazione», in Dizionario di pastorale giovanile ,ElleDiCi, Torino 1992, 1285.
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La vocazione, in quanto chiamata divina, come grazia interna, come aiuto accordato all’uomo
in vista di un bisogno determinato da parte di Dio, ci permette di comprenderne meglio le
caratteristiche: essa è puramente gratuita, assolutamente libera e strettamente soprannaturale.
2
1.2 La vocazione è “puramente gratuita”, “libera” e “soprannaturale”
Si comprende meglio la gratuità della vocazione, partendo dal presupposto che la natura
umana in sé non la esige infatti in alcun modo. Questo è evidente, ma - questo che conta- la
vocazione non è necessaria affinché l’uomo partecipi pienamente alla vita soprannaturale a
cui è stato elevato. Indubbiamente, la vita organizzata secondo i consigli evangelici è un
modo privilegiato di partecipazione alla pienezza di Dio. Indubbiamente, la partecipazione
sacramentale al sacerdozio di Cristo imprime un carattere indelebile nell’essere del sacerdote.
Ma né questo modo di vita, né questo carattere sacerdotale sono richiesti per accedere quaggiù
alla pienezza della fede e nell’aldilà a quella della visione beatifica.
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La chiamata riguarda non la partecipazione fondamentale alla vita divina, ma un modo
particolare di partecipazione più immediata e più esclusiva. Opporvi un rifiuto, non implica
pertanto un rinnegamento fondamentale del Signore o un ripiegamento totale sulla creatura.
Va sottolineato però che un eventuale rifiuto alla vocazione costituisce per lo meno un
notevole mancato profitto. Una morale che si preoccupi soprattutto di diritti e di doveri tende
a ricondurre tutto a due categorie: ciò che è peccato e ciò che non lo è, senza quasi tener conto
della carità e della fedeltà. Nell’ordine umano, il rifiutare un’amicizia che si sta allacciando
non costituisce un ingiustizia. Il rifiutarla tuttavia, se il rifiuto è cosciente e deliberato, non
diventa per ciò un atto meno indegno della natura umana: degrada l’uomo e lo rende peggiore
anche se, per il fatto che nessun diritto è stato leso, non lo distrugge nel suo essere. A più forte
ragione, il respingere un’amicizia che si era già pienamente affermata, avrà profonde
ripercussioni.
L’amico respinto avverte più duramente l’offesa, si sente più colpito, più defraudato che non
da una flagrante ingiustizia. Dire che il rifiuto di una vocazione non consiste un peccato, non
significa ridurne al minimo l’importanza, il valore e il significato religioso. Vuol dire invece
situare la vocazione nel cuore stesso dell’ordine soprannaturale e inserirla nella categoria
della fedeltà che è fatta di attenzioni, di slanci, di delicatezze, e non già di comandi ed
affermazioni di diritti e di doveri.
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2
Cf. R. HOSTIE, Il discernimento delle vocazioni, Borla, Torino 1964, 15-19.
3
IDEM, 17.
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IDEM, 17-18.