1
I
I Goti nella prima fase di integrazione nell’Impero
Romano: dal foedus del 332 alla morte di Teodosio
1. La “questione gota” in sede storiografica.
Sebbene non si siano mai definiti come “Visigoti”, questa è la denominazione
che si è affermata per designare il gruppo di Goti che, sotto il comando di Alarico,
saccheggiarono Roma nel 410 e vennero insediati in Aquitania nel 418. Nel corso del
quinto secolo, questo gruppo andò a costituire un regno indipendente entro i confini
dell’Impero romano, il quale finì per espandersi e comprendere gran parte della
Gallia meridionale e della Spagna. Ciò che è interessante nonché fondamentale
comprendere è la costituzione di questa entità socio-politica che, dal 376
(attraversamento del Danubio), iniziò una “peregrinazione quarantennale”
1
che si
concluse nel 418 con la decisione imperiale di stanziare i foederati Goti in Aquitania.
In questo arco spazio-temporale si formarono quelli che oggi chiamiamo Visigoti.
Secondo la tradizionale interpretazione del “periodo della migrazione” dei
popoli germanici, questi sarebbero da vedere come gruppi etnicamente omogenei, e
per giunta in possesso di identità di popolo chiaramente definite, irriducibili alla
civiltà ellenistico-romana e ad essa irrimediabilmente contrapposte, in perenne
movimento sul suolo imperiale alla ricerca di terre e benessere, alla stregua di “palle
da biliardo”, secondo l’ironica quanto azzeccata analogia proposta da Peter Heather
2
per definire la visione dei popoli barbarici propria della vecchia storiografia
1
H. Wolfram, Storia dei Goti (Roma 1986), cfr. p. 207.
2
P. Heather, “The Creation of the Visigoths”, The Visigoths. From the Migration Period to the
Seventh Century. An Ethnographic Perspective, a cura di P. Heather, Studies in Historical
Archaeoethnology 4 (San Marino 2001), pp. 41-92, cit. p. 43.
2
ottocentesca, supportata in questo da studi antropologici e archeologici precedenti la
seconda guerra mondiale: stando a questi, l’identità sarebbe un fattore pressoché
immutabile capace di resistere al trascorrere delle generazioni e dei secoli; sulla base
soprattutto di ritrovamenti ceramici e di corredi funerari è possibile osservare la
manifestazione di queste identità definite e delimitate a un determinato gruppo
etnico. Ostrogoti e Visigoti, intorno alla cui potenza militare si erano coalizzati gli
stati successori dell’Impero romano, erano in realtà gruppi già esistenti nel quarto
secolo, stanziati nella Russia meridionale e nell’attuale Ucraina. Ammiano
Marcellino, la nostra principale fonte per gli avvenimenti del quarto secolo, nomina
due gruppi gotici, ma non li chiama Visigoti e Ostrogoti, bensì Tervingi e Greutungi.
I Goti quindi, così come tutti gli altri popoli barbarici, per lungo tempo sono
stati imprigionati in una vera e propria “gabbia storiografica,” la quale si impose in
maniera così persistente che bisognò attendere lo studio di Reinhardt Wenskus del
1961, La formazione e le istituzioni dei popoli (Stammesbildung und Verfassung),
perché questa gabbia venisse finalmente aperta. Nel suo lavoro Wenskus sostiene per
la prima volta che i popoli barbarici non consistettero affatto di individui con
un’ascendenza comune, ma che credevano in tali origini condivise, per cui sono
assolutamente non cogenti criteri distintivi di un popolo quali la lingua, la cultura, le
consuetudini giuridiche e politiche. Piuttosto che considerare i barbari quali
popolazioni discendenti da un comune ceppo indo-germanico, Wenskus li
considerava “tribù” derivate da mescolanze e strategie etniche determinate dalle
circostanze. Il nocciolo duro del ragionamento dello studioso è costituito dalla teoria
dei “nuclei di tradizione” (Traditionskerne) secondo cui i mutamenti di appartenenza
etnica sarebbero stati messi in atto da piccoli gruppi di prestigio in grado di tenere
legati a sé e controllarne altri molto più grandi, i quali finivano per riconoscersi nei
primi, essenzialmente per motivi di convenienza politico-militare, finendo poi
effettivamente – qualora l’unità fosse andata a buon fine – per condividere alcuni
tratti culturali comuni. Il limite di questa interpretazione consiste nel considerare i
popoli barbarici tardoantichi tribù, le quali sarebbero alla base degli attuali popoli
europei, tradendo così un’impostazione figlia del nazional-romanticismo
ottocentesco per cui i Germani costituivano un popolo composto di tribù, con i
Tedeschi quali loro diretti discendenti. Una tale coscienza di appartenenza comune
3
tra popoli quali Longobardi, Franchi e altri non è per nulla pensabile nel periodo in
questione, anche se pare innegabile che questi due popoli, assieme ad altri, presero
parte al successivo ma tutt’altro che breve e lineare processo che portò alla
formazione delle attuali compagini nazionali.
3
L’altro aspetto problematico
dell’impostazione di Wenskus sta in nella sua interpretazione di tipo elitario, che
giustificherebbe gli eventuali cambiamenti di politica etnica, per cui un piccolo
gruppo sarebbe stato dotato di un’autorità tale – politica, militare ma anche religiosa
– da determinare le dinamiche etniche di vasti gruppi di persone. Un nucleo chiuso e
ristretto avrebbe detenuto quindi il monopolio delle dinamiche etniche di un gran
numero d’individui. Questo processo presuppone una certa disponibilità ad aprire il
gruppo verso l’esterno e, qualora fosse necessario, a metterlo di volta in volta in
discussione. La contrapposizione nucleo chiuso-gruppo aperto si presenta di difficile
interpretazione, poiché non spiega come da un piccolo gruppo detentore della
conservazione della tradizione si poterono sviluppare meccanismi d’identificazione
comune che permisero a gruppi sempre più ampi d’integrarsi.
4
Un altro aspetto altrettanto problematico nell’interpretazione di Wenskus è la
contrapposizione tra la nuova consapevolezza di esistere in qualità di stirpe da parte
dei barbari e l’identità romana che diveniva sempre più debole, soprattutto nella parte
occidentale, dove erano sempre esistite sacche resistenti alla penetrazione
dell’Impero, in particolare nelle aree più periferiche.
5
Questo assunto però parte dal
3
W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo (Roma 2000),
cfr. pp. 1-3, dove l’autore, prendendo ad esempio alcune delle attuali compagini nazionali, mostra con
grande efficacia come l’identità etnica sia assai facilmente manipolabile, considerando che “lo
sviluppo delle nazioni europee fu un processo complicato, di totali rotture e contraddizioni, che
avrebbe potuto portare sempre ad un risultato diverso,” cit. p. 2; v. Pohl, “The Construction of
Communities: an Introduction”, The Construction of Communities in the Early Middle Ages. Texts,
Resources, Manufacts, a cura di R. Corradini, M. Diesenberger, H. Reimitz (Leiden, Boston 2003),
pp. 1-15, v. in particolare pp. 1-4; v. anche P. Heather, “The Creation of the Visigoths”, cfr. pp. 44-45.
4
W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa, cfr. pp. 5-7.
5
Le ripetute rivolte dei bacaudae (termine di chiara derivazione celtica il quale significa
“combattenti”) sono l’esempio emblematico dell’esistenza di aree rimaste effettivamente al di fuori
della romanità o comunque rimaste ad essa impermeabili. Particolarmente attivi nella Gallia nord-
occidentale, provocarono i danni più gravi negli anni 283-286, fino all’intervento di Massimiano che
stroncò i tumulti; la questione si ripresentò in tutta la sua gravità ancora sotto Valente e Valentiniano
tra il 364 e il 378 e si trascinò ancora in pieno V secolo (in particolare negli anni 435-437, finché nel
443 Ezio non scagliò loro contro gli Alani, così come aveva fatto nel 418 con i Visigoti stanziati a
Tolosa. L’intervento barbarico li indusse a trattare con Ezio e Valentiniano II con la mediazione del
vescovo Germano di Auxerre, il quale, stando alla testimonianza di Costanzo di Lione, autore della
biografia del vescovo, si sarebbe fisicamente frapposto tra l’esercito alano e il popolo da lui protetto.
Pare che il suo intervento, che culminò con un viaggio a Roma, portò i bacaudae a un’alleanza
militare con l’impero, la quale sembra confermata da Giordane (Getica 36, 191), che testimonia la
4
presupposto che i popoli barbarici fossero pienamente consapevoli della propria
“germanicità”, cosa altamente improbabile in questo periodo. Si finiscono così per
ignorare sia le trasformazioni che si erano realizzate nelle società barbariche a
contatto col mondo romano, sia come pure quest’ultimo si andasse modificando a
contatto con queste popolazioni
6
. Tale linea di pensiero è stata seguita in parte da
Herwig Wolfram
7
per il quale, al pari di Wenskus, era un nucleo ristretto di famiglie
nobili a definire ciò che era goto e ciò che non lo era, non i grandi gruppi che
scendevano in battaglia. Per Wolfram i Goti del periodo della migrazione erano da
considerarsi più un insieme di eserciti che un popolo. Chiunque combattesse nei loro
eserciti poteva divenire goto, indipendentemente dalle proprie effettive origini
etniche.
Le posizioni dei due precedenti studiosi sono state più recentemente
estremizzate da Wolf Liebeschutz, per cui i Goti al seguito di Alarico nel periodo
395-411, che avrebbero finito per costituire i successivi Visigoti, avevano ben pochi
legami con altri gruppi goti: “gota” era piuttosto la loro ideologia, un costrutto
alquanto superficiale, essendo questi Goti più un esercito di mercenari che un popolo
etnicamente definito. Il loro numero era piuttosto ridotto, avevano poche donne con
sé, preferivano il denaro alla terra e soprattutto non misero in atto una rivolta gota nel
presenza di “Armoricani” nelle truppe di Ezio in occasione della fatidica battaglia dei Campi
Catalaunici del 451 contro gli Unni. Anche la penisola iberica fu interessata dal fenomeno dei
bacaudae, i quali anche qui erano stanziati nelle regioni nordoccidentali, da sempre poco toccate dalla
romanizzazione rispetto al sud e alle zone costiere, ma si manifestò in modo sporadico nonché in
ritardo rispetto alla Gallia, cioè dalla metà del V secolo, con dure repressioni da parte imperiale,
soprattutto da parte del visigoto Teoderico per conto di Valentiniano III nel 454. L’emergere di questi
elementi pre-romani mostra che “…l’antico ethnos celtico aveva in sé la vitalità necessaria per reagire
allo sfacelo dell’Impero universale romano seguendo vie autonome”, S. Gasparri, Prima delle nazioni.
Popoli, etnie e regni fra Antichità e Medioevo (Roma 1998), v. p. 55.
6
Sorprende come il secondo punto dell’analisi di Wenskus ricordi quella assai successiva di Eric
Hobsbawm – il quale la mutua dichiaratamente da Miroslav Hroch, autore di Social Preconditions of
National Revival in Europe: A Comparative Analysis of the Social Composition of Patriotic Groups
among the Smaller European Nations (Cambridge 1985) –, secondo cui la costruzione delle moderne
identità nazionali si potrebbe suddividere in tre fasi successive: nella prima vi è una rielaborazione dei
tratti cosiddetti “protonazionali” e dell’eredità letteraria, artistica e culturale nel loro complesso da
parte di ristretti gruppi animati da particolari interessi intellettuali provenienti dalla classe dominante;
segue la fase in cui tali elaborazioni iniziano a intrecciarsi con specifiche rivendicazioni politiche e
nazionali, le quali per ora rimangono proprie degli strati più alti e colti della società; l’ultimo stadio
vede un consenso “di massa” all’idea nazionale. È evidente che il passaggio cruciale sta tra la fase B e
la fase C, quando la manifestazione di un’adesione all’idea di nazione si estende dall’élite a strati
sempre più ampi di popolazione, E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi in Europa dal 1780.
Programma, mito, realtà (Torino 2002) v. pp. 14-15.
7
Wolfram, “Origo et Religio. Ethnic Traditions and Literature in the Early Medieval Texts”, Early
Medieval Europe 3 (1994) pp. 19-38.
5
376: piuttosto iniziarono a giungere, all’interno dei confini imperiali, singoli
individui e piccoli gruppi, che potevano costituire aggregati più grandi su iniziativa
di un leader particolarmente abile.
8
Altrettanto importanti, per quanto spesso discusse, sono le conclusioni di Peter
Heather, per il quale il concetto di nucleo di tradizione è parzialmente accettabile a
condizione di considerare i vari nuclei composti da un alto numero di persone e non
da gruppi ristretti, i quali facevano risalire la propria “goticità” al IV secolo, come
risultato sia di contrapposizioni tra diversi gruppi goti sia di processi di
riconoscimento reciproco tra individui appartenenti allo stesso gruppo. Furono
soprattutto, per Heather, le circostanze e i pericoli derivanti dalla necessità di
sopravvivere e integrarsi nell’Impero e nelle sue strutture a determinare l’unione di
grandi associazioni di uomini, partendo da piccoli gruppi di Goti. Heather sottolinea,
tra coloro che già si possono definire Visigoti, la presenza di elementi non goti, che
venivano di volta in volta assimilati. Per quanto fossero verosimilmente un piccolo
gruppo, la loro presenza era irrilevante per la maggioranza, tanto che quest’ultima
continuò a definirsi gota. Heather stima che circa il 25 per cento dei Visigoti aveva
origine non gote, ma a dispetto di questo dato si possono considerare tali, poiché
avevano accettato di combattere nell’esercito dei Goti.
9
Un altro interrogativo che
Heather si pone, di grande rilevanza, è il ruolo dei re nella creazione dei Visigoti.
Partendo dalla testimonianza di Giordane,
10
secondo cui i Goti erano stanziati
nell’attuale Ucraina ed erano governati dall’amalo Ostrogota – mentre all’arrivo
degli Unni si sarebbero divisi in due rami al servizio di due famiglie dominanti, i
Visigoti al seguito dei Balti e gli Ostrogoti degli Amali – anche Heather mostra di
nutrire seri dubbi in merito alla tesi del nucleo di tradizione nei termini in cui la
impostano Wolfram e Wenskus i quali, per Heather, si sarebbero lasciati fuorviare
dalla presenza di elementi non goti in queste recenti formazioni politiche (Visigoti e
Ostrogoti), ipotizzando così l’esistenza di un piccolo gruppo dominante portatore di
un’identità gota valida anche per coloro che non fossero goti. Agli occhi di Heather
ciò è insostenibile poiché è verosimile la notizia di Giordane secondo cui i Goti
8
J.H. Liebeschuetz, Barbarians and Bishops. Army, Church, and State in the Age of Arcadius and
Chrysostom (Oxford 1990).
9
P. Heather, “The Creation of the Visigoths”, cfr. p. 53.
10
Jordanes, Getica 5, 42.
6
erano suddivisi in due rami al servizio di due famiglie reali ben prima dell’irruzione
degli Unni nel loro spazio insediativo. Esisterebbe quindi una certa continuità storica
tra il periodo pre e post-migrazione.
11
Per Heather venne meno la continuità dinastica
tra i Balti e quelli che domineranno i Visigoti nel corso del V secolo: nel ventennio
successivo l’attraversamento del Danubio erano in azione più linee familiari nobili in
competizione fra loro per il predominio di un nuovo gruppo, piuttosto che una
famiglia preminente rispetto alle altre.
12
La formazione dei Visigoti ebbe così luogo
soprattutto a partire da risistemazioni socio-politiche tra e all’interno di più gruppi di
Goti preesistenti.
Heather non considera pienamente soddisfacente la teoria del nucleo di
tradizione anche immaginandolo più vasto di quanto ritenessero Wolfram e
Wenskus. Lo studioso inglese ritiene che l’essere al seguito di una famiglia reale
fosse un fattore di forza non sufficiente per far sì che un gruppo esteso di persone si
considerasse durevolmente come goto: così Heather sostiene che l’identità gota fosse
preesistente alla formazione dei Visigoti. Le condizioni per il mantenimento di
questa identità erano l’esercizio di diritti e la partecipazione all’interno del gruppo
proprie sì di un’élite, ma di uomini liberi assai più grande del “Traditionskerne” di
Wenskus e Wolfram. Heather fonda il suo pensiero sulle testimonianze contenute nel
De bello Gothico di Procopio di Cesarea – anche se i riferimenti sono a proposito
degli Ostrogoti –, dove l’autore descrive una ben definita e riconoscibile èlite tra
questi, a proposito della quale utilizza tre termini precisi: λόγιμος, δόκιμος –
entrambi col significato di onorevole, degno di stima – e άριστος – cioè il migliore –
tutti riferiti a Goti tra loro assimilabili quanto al ruolo rivestito. Essi designano di
volta in volta individui particolarmente importanti
13
; un piccolo gruppo alleato o in
11
P. Heather, “The Creation of the Visigoths”, cfr. pp. 67-68.
12
Giordane invece afferma in più punti della Getica che gli Amali erano molto più importanti dei
Balti (29, 146; 33, 174-5).
13
Procopius, De bello gothico I 4, 13: “Tratti a sé i parenti, numerosi e fra coloro assai ragguardevoli,
dei Goti fatti da lei (Amalasunta) uccidere…”; II 1, 36: “Quelle guardie, non potendo non fidarsi del
valentissimo (Chorsamante) fra le lance spezzate di Belisario, gli aprirono le porte e lo lasciarono
andare dove volesse”; II 20, 14: “…Albila, loro comandante, uomo molto illustre tra i Goti, li nutriva
di vane speranze”; III 1, 46: “Ed un giorno (Vila) che era presso di lui (Ildibado) di guardia, mentre
aveva con sé a tavola gli ottimati goti, compì l’opera meditata…”; III 18, 26: “Fra i Goti vi era un
certo Recimundo, uomo distinto, che Totila aveva preposto al presidio del Bruzio con alcuni soldati
goti ed anche romani e mauretani, perché con questi custodisse lo stretto di Scilla insieme alla
spiaggia e nessuno potesse salpare di là per la Sicilia né dall’isola lì approdare.”; IV 26, 4: “Quindi
Ragnari, valente Goto che comandava il presidio di Taranto, e Morra, che comandava la guarnigione
di Acherontia, per volere della loro gente, vennero a trattative con Pacurio, figlio di Geranio,
7
opposizione al re goto, coinvolto in rilevanti decisioni politiche
14
; alle forze militari
gote nel loro complesso
15
. Immediatamente viene da pensare a una classe di nobili,
ma il loro numero porta ad escluderlo: Heather infatti fa notare come questo tipo di
élite “allargata” abbia forti somiglianze con le classi dei “liberi” così come emergono
dai codici di leggi barbariche derivate dalle leggi del diritto romano involgarito del
settimo secolo. Sulla base di queste testimonianze comunque Heather arriva ad
affermare che i “liberi” tra i Visigoti costituissero di fatto un’oligarchia. Anche se
risulta molto difficoltoso stabilirne le esatte proporzioni sul totale della popolazione,
a suo avviso i liberi dovevano essere circa un quinto della popolazione totale e
godevano di pieni diritti di partecipazione sociale e politica; costituivano così il
gruppo che prendeva le decisioni politiche cruciali, come accettare eventualmente
l’unione di nuove componenti politiche coi Visigoti.
Infine, un’analisi estremamente interessante che per certi aspetti si discosta da
quella di Heather è quella proposta dallo spagnolo Gúzman Armario, quindi più
direttamente interessato alla questione visigota. Anche lui concorda nel sostenere che
i Visigoti, al momento dell’attraversamento del Danubio, fossero ben lungi dal
costituire un popolo dall’identità nazionale definita e portatore di un certo grado di
complessità politica. Armario concorda con Liebeschutz nell’affermare che Alarico
comandante dei Romani che erano ad Otranto, dove, ricevuta solenne promessa d’incolumità
dall’imperatore Giustiniano, venne loro intimato di arrendersi ai Romani insieme alle loro truppe ed
alle fortezze di cui erano a guardia.”
14
I 13, 26: “Udito ciò, i maggiorenti dei Goti lo trovarono conveniente, e vollero che si effettuasse
(l’alleanza coi Franchi); II 9, 8: “(Vitige) tenne consiglio coi maggiorenti goti circa l’agguato, e i
Romani che stavano di guardia presso la porta Pinciana il giorno seguente rammentavano fra di loro il
sospetto concepito circa il lupo.”; II 28, 29: “E così Belisario strinse a suo vantaggio a Ravenna Vitige
e i maggiorenti goti.”; III 1, 46 vedi n. sopra (mentre aveva con sé a tavola gli ottimati goti); III 24,
27: “Allora tutti i maggiorenti goti, venuti innanzi a Totila, iniziarono a vituperarlo e a tacciarlo
duramente di stoltezza, poiché dopo aver preso Roma non l’aveva distrutta, in modo che il nemico non
potesse riprenderla e neppure la occupasse, e quel che essi avevano operato con molto tempo e fatica,
lui l’aveva sciupato con leggerezza.”; IV 35, 33: “Alla fine però i barbari mandarono alcuni
maggiorenti a Narsete, dicendogli di essersi ormai accorti che Dio era contro di loro…”.
15
I 13, 15: “Per tale ragione un numeroso presidio di Goti, e dei più valorosi, capitanati da Marcia
erano lì stanziati…”; II 20, l2: “…perciò quell’ingresso fu anticamente fornito dai Romani di un muro
poco esteso, nel quale vi è una porta, che era allora guardata dai Goti.”; II 23, 8: “Là Vitige aveva
posto a presidio un gruppo scelto di Goti, ben prevedendo che i Romani, se non l’avessero presto
espugnata, non avrebbero mai osato marciare su Ravenna.”; II 28, 29: “Costoro, avendo saputo che le
loro dimore erano state prese, immediatamente abbandonato l’esercito dei Goti, decisero di andare con
Giovanni.”; IV 23, 10: “Dopo che i duci dei Goti appresero ciò, riempirono dei migliori fra i Goti le
quarantasette lunghe navi in loro possesso, e lasciato il resto dell’esercito all’assedio del castello, si
mossero subito contro i nemici.”; IV 26, 21: “…Totila, scelto il meglio dell’esercito goto cui pose a
capo il goto Teia, militare di gran valore, lo mandò nella città di Verona, soggetta ai Goti, perché
impedisse qualunque possibilità di avanzare all’esercito romano.”
8
non mostrò mai la pretesa di essere re dei Goti poiché il suo stesso seguito non era
costituito da individui che formavano una “nazione”, bensì da un esercito: in qualità
di ufficiale di un’unità federata sotto Teodosio, approfittò dei dissapori tra questi e
l’usurpatore Eugenio per svincolarsi dal foedus e dirigersi col suo esercito nella
Tracia rimasta abbandonata e da qui, non incontrando opposizione alcuna, si diresse
in Italia nel 401, senza alcun progetto “nazionale” in mente né propositi di costruire
una monarchia personale. Armario considera la cosiddetta “monarchia gota” una
leadership di tipo elettivo; bisognerà aspettare il lungo mandato di Teoderico I (418-
451) perché effettivamente si consolidi una stirpe reale che possa definirsi
un’istituzione monarchica a pieno titolo. Ciò si manifesterò ancor più con Eurico, il
quale cominciò a manifestare velleità d’indipendenza verso l’Impero, dal quale
pretese maggior libertà sul piano giuridico rispetto al trattato del 418: questo iniziò a
connotare la nascita del regno visigoto in Occidente. È solo con lo stanziamento in
Aquitania che si può cominciare a parlare della tendenza a unificarsi sotto un potere
personale forte.
Armario sottolinea inoltre come l’identità germanica dei Visigoti fosse così
debole che, una volta a contatto con gli abitanti ispano-romani della penisola iberica,
finirono per abbandonare la propria lingua germanica in favore del latino. Vero è che
inizialmente prevalse la dualità tipica della gestione dell’amministrazione pubblica –
apparato militare in mano barbarica – burocrazia civile latina – e della legislazione,
ma col tempo non poté che vincere la forza della convivenza e la tendenza sempre
più accentuata da parte dei barbari ad adottare gli usi romani. Il dualismo
istituzionale fu per lo più transitorio, prefigurando così la fusione con la popolazione
locale: le nuove formazioni politiche barbariche non misero affatto in atto, tranne
forse al momento del primissimo impatto, delle pratiche di isolamento rispetto ai
provinciali a difesa della propria “germanicità”. Come se non bastasse, la classe
senatoria romana mantenne i propri privilegi, così come persistette il sistema fiscale
romano. In Gallia il ceto senatorio continuò ad esercitare le proprie prerogative
politiche, in assoluta tranquillità e in un clima di armonia all’interno della
componente popolare latina e gota. Per non parlare della situazione – argomento che
si tratterà in seguito – in cui i Visigoti si trovarono in Gallia e nella penisola iberica,
essendo in assoluta minoranza rispetto alla schiacciante maggioranza provinciale.
9
L’integrazione tra le due componenti era quindi ineluttabile, portando a una fusione
più o meno rapida a tutti i livelli sociali.
Armario afferma che in definitiva il peso specifico delle popolazioni
germaniche che entrarono nell’Impero fosse insignificante e le tracce che lasciarono
dietro di sé furono minime, a causa della sistematica adozione della cultura romana,
in particolare nel caso dei Visigoti nella Francia meridionale, dei Vandali nel nord
Africa così come, riferendosi alla penisola iberica, fu il caso degli Svevi e degli
Alani.
16
Ciò che più distingue la posizione dello studioso spagnolo da quella di
Heather è la convinzione che i Goti che attraversarono il Danubio nel 376, così come
i Visigoti che giunsero a Tolosa nel 418, fossero del tutto privi di tratti culturali ben
definiti: non una nazione in armi, ma un’accozzaglia di migranti, di contadini,
mercenari e in generale uomini alla ricerca di prospettive di vita migliori, se non
della sola sopravvivenza quotidiana. Il fatto che si definissero Goti non sarebbe altro
che il permanere del ricordo storico del loro luogo d’origine, la Gotha.
17
Armario considera probabile che i Visigoti abbiano sviluppato dei tratti comuni
nel periodo anteriore al loro stanziamento in Aquitania, ma la pressione militare
romana e l’acculturazione che ne conseguì finirono per diluire i caratteri germanici,
rendendoli simili a quelli dei provinciali romani. In tal senso l’attraversamento del
Danubio è per Armario da considerarsi frutto di un accordo preciso: in particolare la
pars Orientis dell’Impero seppe giocare bene le proprie carte, volgendo la situazione
a proprio vantaggio, usando la tattica della presa per fame dei “nemici” e riuscendo
sempre a concludere trattati favorevoli per l’Impero, nonché approfittando di
eventuali alleanze o fomentando divisioni tra i mal organizzati Goti. Essi comunque
riuscirono spesso a guadagnarsi i favori dell’élite di possidenti terrieri provinciali,
che videro i nuovi arrivati come uno strumento per evitare la fiscalità centrale, così
come si sopperiva attraverso contingenti barbarici alla difesa delle frontiere da altri
barbari, evitando la coscrizione obbligatoria dei cittadini, pratica sempre più invisa
16
Infatti assai correttamente osserva che: “Solo i Franchi, proprio il popolo dalle origini più oscure
nonché ultimo arrivato, riuscirono ad esercitare un’influenza profonda e duratura nella storia
occidentale”, F.J. Guzmán Armario, “¿Germanismo o romanismo? Una espinosa cuestión en el
transito del mundo antiguo a la Edad Media: el caso de los Visigodos”, Anuario de Estudios
Medievales 35 I (2005), pp. 3-23, cit. p. 19.
17
È ancora aperto il dibattito tra chi la colloca tra la Russia meridionale e l’Ucraina attuali, come
Armario stesso, e in Scandinavia come ritiene più probabile Goffart, il quale non esclude l’ipotesi di
una migrazione dalla penisola nordica all’est europeo, W. Goffart, “Jordanes’ Getica and the
Disputated Authenticity of Gothic Origins from Scandinavia”, Speculum 80/2 (2005).
10
da questi ultimi. Armario avanza una sua proposta quanto al tema della disgregazione
dell’Impero romano: questa fu probabilmente il risultato della strana alleanza tra
gruppi politico-economici romani e i barbari, nella quale i secondi sostennero i primi
nell’evasione del fisco e nell’esimersi dai propri obblighi istituzionali, contribuendo
al collasso della parte occidentale dell’Impero. Solo così le élites, anche in seguito
all’insediarsi definitivo dei barbari nei propri territori, mantennero le proprie
prerogative di potere regionali, nonché, come si è già visto, i propri privilegi,
comprese ampie possibilità di mediazione con le corti dei re germanici.
A partire dagli anni Sessanta, ulteriori studi hanno spazzato via le tesi,
sostanzialmente tardo-ottocentesche, che riguardavano l’identità etnica e il
sentimento d’appartenenza: in particolare gli antropologi hanno evidenziato il fatto
che l’identità sia una percezione soggettiva e variabile a seconda delle circostanze in
cui l’individuo viene a trovarsi. L’identità etnica, come senso di appartenenza a un
gruppo da parte del singolo, visibile dall’esterno attraverso la comunanza di lingua,
valori e comportamenti, non sono altro che modi di autodefinirsi da parte di un
gruppo verso altri gruppi.
Alcune interpretazioni dell’identità etnica sono state fornite in particolare da
autori di lingua inglese, come Cohen,
18
fautore della visione “strumentale”
dell’identità etnica, secondo la quale questa non sarebbe altro che un costrutto
simbolico utile per conferire unità a un gruppo impegnato nella lotta per la difesa o la
conquista di un territorio con annesse risorse.
19
Una pecca dell’analisi strumentalista
sarebbe però da individuarsi nello scarso rilievo conferito a quegli elementi affettivo-
solidali, da non sottovalutare nello studio della storia della costituzione delle
comunità. Contrapposta vi è la tesi sostenuta da Epstein,
20
quella situazionalista, per
la quale l’identità etnica verrebbe attivata, in determinate circostanze, attraverso
simboli e immagini tesi allo scopo di rafforzare il sentimento identitario. Ciò dipende
18
A. Cohen, “La lezione dell’etnicità,” Questioni di etnicità, a cura di V. Maher (Torino 1994), pp.
135-151.
19
W. Pohl, “The Construction of Communities”, cfr. p. 12.
20
A.L. Epstein, L’identità etnica. Tre studi sull’etnicità (Torino 1983); cito i seguenti studi molto
interessanti: Ethnic Groups and Boundaries: The Social Organization of Cultural Difference, a cura di
F. Barth (Oslo, London 1969); P. Berger, T. Luckmmann, The Social Construction of Reality (New
York 1966); A.D. Smith, Le origini etniche delle nazioni (Bologna 1992).
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dal fatto che, come evidenziato da tempo dall’antropologia, i gruppi umani tendono a
definire in maniera positiva il proprio sé collettivo, mentre di riflesso riservano
definizioni negative per gli altri. Spesso – come dimostrato anche da studi condotti
su società cosiddette “primitive” – ciò comporta un’autodefinizione traducibile con
termini quali “uomini” (che è proprio il caso dei nostri Goti) o con aggettivi indicanti
qualità positive del proprio gruppo (è per esempio il caso dei Franchi, termine che
non significa altro che “coraggiosi”), mentre gli altri gruppi vengono appellati con
definizioni che addirittura ne negano l’umanità. Fabietti
21
riporta un esempio per noi
interessante, quello dell’origine del termine slavo, con cui oggi si definiscono i
popoli dell’area linguistico-culturale dell’Europa orientale, il quale sta a significare,
come intuibile, schiavo, derivando dal latino sclavus: com’è noto, quell’area era
fondamentale per l’economia schiavistica dell’Impero romano, che là poteva trovare
manodopera numerosa e a basso costo. Questo è solo un esempio possibile a
dimostrazione di come spesso i nomi dipendano fortemente dalla posizione del
gruppo interessato, il quale può, a seconda della propria predominanza o meno,
imporre il proprio nome all’esterno o addirittura assegnarlo ad altri, tanto che, pur
con un significato evidentemente spregiativo, esso può conservarsi e venire utilizzato
da coloro cui è stato imposto, senza che siano consapevoli di come questo sia potuto
accadere: “…i nomi dei gruppi, dei popoli, delle etnie sono spesso il risultato di una
rappresentazione esterna, frutto di una elaborazione culturale da parte di un gruppo
dominante”.
22
Un’ulteriore posizione molto interessante e spesso a mio avviso non
sufficientemente presa in considerazione – forse più calzante per avvenimenti e
periodi storici di epoche successive a quella di nostro interesse – ma che rappresenta
un prolungamento ideale della teoria situazionalista come definizione negativa e
disumanizzante dell’altro, è quella di Liah Greenfeld:
23
secondo la studiosa, la
costruzione e il rafforzamento delle identità etniche, così come i meccanismi di
21
U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco (Roma 2005).
22
U. Fabietti, L’identità etnica, cit p. 18.
23
L. Greenfeld, Nationalism: Five Roads to Modernity (Cambridge 1994); Greenfeld applica il
concetto di risentimento in particolare alle prime reazioni nazionaliste, che si manifesterebbero in una
generale frustrazione da parte di un popolo, come senso d’inferiorità di fronte al successo di un popolo
vicino. Gli esempi da lei forniti sono costituiti da quello dell’identità spagnola, la quale si sarebbe
rafforzata al momento di affrontare gli invasori musulmani, e di quella francese, a suo parere
letteralmente scoperta al momento di fronteggiare l’invasione inglese durante la guerra dei Cent’anni.
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identificazione collettiva sono innescati da quello che è il risentimento di un gruppo
nei confronti di un altro, il quale può improvvisamente apparire come nemico a
seguito di un traumatico evento storico. Quella del risentimento mi pare una
concezione poco considerata nello studio della nascita delle identità etniche (o
nazionali), nonostante quello della scoperta del vicino nelle vesti di invasore e
devastatore sia stata un’esperienza piuttosto frequente nel processo di rivelazione dei
popoli a se stessi: sarebbe quindi l’odio ad aver ispirato in maniera preponderante
l’esigenza di definire un territorio etnoculturale proprio.
Ciò che gli studi degli ultimi trent’anni hanno chiarito riguardo lo studio dei
Visigoti è l’impossibilità di vedere una continuità tra i Goti della fine del quarto
secolo, quei Tervingi in fuga dall’invasione unna, e quelli del quinto secolo inoltrato,
vale a dire i Visigoti. Inizierei proprio ad occuparmi del momento che portò i Goti
entro i confini dell’Impero romano e di come si evolsero i rapporti tra le due entità,
senza dimenticare i contatti precedenti la data del 376.
2. L’ingresso dei Goti nell’Impero.
Due ondate successive di Goti, in fuga dai propri territori interessati
dall’espansione unna, si diressero verso l’Impero romano: i Tervingi di Fritigerno e
Alavivo e i Greutungi di Alateo e Safrace, si presentarono sul Danubio nel 376,
24
chiedendo asilo all’imperatore Valente, che intendeva cogliere l’opportunità di
espandere le sue forze armate. Ad essere ammessi nell’Impero furono i soli Tervingi,
portati al di qua del Danubio con una serie di barche. I Greutungi al contrario
vennero tenuti dalle truppe imperiali a nord del Danubio.
24
La nostra fonte principale è Ammiano Marcellino (XXXI 4 I); H. Wolfram, Storia dei Goti, v. pp.
207-8; P. Rousseau, “Visigothic Migration and Settlement, 376-418: Some Excluded Hypotesis”,
Historia XLI/3 (1992), pp. 345-61; L. Pellicciari, Sulla natura dei rapporti tra Visigoti e Impero
Romano al tempo delle invasioni del V° secolo (Milano 1982), v. pp. 3-4; P. Heather, “The Creation
of the Visigoths”, v. p. 46; M. Cesa, Impero tardoantico e barbari: la crisi militare da Adrianopoli al
418 (Como 1994), v. p. 18; P. Heather, Goths and Romans 332-489 (Oxford 1991), v. pp. 116-17; P.
Heather, “La diplomazia romana e il problema goto: 376-418 d.C.”, Romani e barbari. Incontro e
scontro di culture, Atti del Convegno tenutosi a Bra, 11-13 aprile 3002, a cura di S. Giorcelli Bersani
(Torino 2004), v. pp. 160 e 165; A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero
romano (Roma, Bari 2006), v. pp. 132-137.