difficile non schierarsi dalla parte dell’ONU, di cui tra l’altro l’Italia è
membro, che sicuramente ha perseguito l’obiettivo più giusto: riconsegnare la
libertà e l’indipendenza ad un popolo oppresso, colpevole - probabilmente -
soltanto di avere giacimenti di petrolio nel proprio territorio.
Solo un interrogativo sorgerà: l’intervento occidentale si sarà limitato al
raggiungimento di tale scopo, o piuttosto non si sarà spinto oltre, fino al
tentativo di annientare l’Iraq e di rendere inoffensivo Saddam Hussein?
INTRODUZIONE
Le relazioni tra gli Stati nel diritto internazionale
- divieto dell’uso della forza
Le relazioni tra gli Stati nel diritto internazionale sono oggetto della
Dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottata
mediante consensus con risoluzione n.2625 (XXV) del 24 ottobre 1970. Ai
sensi di tale risoluzione:
«Ogni stato ha il dovere di astenersi, nelle sue relazioni internazionali, dal
ricorrere alla minaccia o all’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o
l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera
incompatibile con i fini delle Nazioni Unite(...)».
La risoluzione dell’Assemblea generale richiama l’art.2 par.4 della Carta
delle Nazioni Unite che stabilisce il divieto non solo dell’uso, ma anche della
minaccia dell’uso della forza agli Stati membri. È proprio la sopra citata
risoluzione dell’Assemblea generale che fa in modo che l’art.2 par.4 non vada
interpretato semplicemente come una norma di diritto convenzionale, e come
tale riferita ai soli membri dell’ONU. Esso corrisponde ad una norma
generale che ha ormai assunto un carattere consuetudinario.
Quanto detto è riaffermato da una successiva Dichiarazione
dell’Assemblea generale, anch’essa adottata mediante consensus, con
risoluzione n. 42/22 del 18 novembre 1987, la quale sancisce l’universalità del
«principio del non ricorso alla forza o alla minaccia della forza nelle relazioni
internazionali» senza distinzioni legate al sistema politico, economico, sociale
o culturale di ciascun Stato o alle loro alleanze. Sebbene le risoluzioni
dell’Assemblea generale non avrebbero di per se stesse carattere vincolante, e
come tali non imporrebbero alcun obbligo agli Stati, la circostanza che queste
siano state adottate tramite consensus, ovvero con l’approvazione di tutti gli
Stati partecipanti all’ONU, viene riconosciuta come dato attestante l’opinio
juris, cioè come uno dei due elementi costitutivi della consuetudine (l’altro è
la diuturnitas).
- obbligo di soluzione pacifica delle controversie
Nel caso di una controversia internazionale gli Stati membri dell’ONU
sono posti di fronte all’obbligo di ricercare una soluzione pacifica ai sensi
dell’art.2 par.3 della Carta. Anche tale obbligo si è progressivamente
trasformato in un obbligo di diritto internazionale consuetudinario. Ciò risulta
dalla Dichiarazione di Manila sul regolamento pacifico delle controversie
internazionali, adottata dall’Assemblea generale con risoluzione n. 37/10 del
15 novembre 1982. L’obbligo della risoluzione pacifica è espresso in maniera
ancor più rigorosa lì dove viene imposto a tutti gli Stati il ricorso esclusivo a
mezzi pacifici.
La Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 27 giugno 1986
(Nicaragua c. Stati Uniti), afferma che l’esistenza di una controversia in grado
di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale richiede agli Stati
coinvolti una soluzione con mezzi pacifici.
Rapporto preesistente tra Iraq e Kuwait
Il 4 ottobre del 1963, a Baghdad, i due stati avevano concluso un Accordo,
in virtù del quale la Repubblica dell’Iraq riconosceva l’indipendenza e la
sovranità del Kuwait. L’attuale governo iracheno avrebbe tuttavia ritenuto già
nel 1990 tale accordo non valido per violazione delle norme costituzionali
interne irachene.
Motivazioni dell’attacco
Le motivazioni dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq sono legate sia
alla stessa nascita del Kuwait come stato indipendente, che ad episodi più
recenti. Per ciò che concerne il primo aspetto, c’è da considerare che fin dalla
sua partecipazione alla Società delle Nazioni, l’Iraq cominciò a rivendicare
l’accesso al mare, negatogli proprio dall’esistenza del Kuwait ad occidente e
dell’Iran ad oriente. Il governo iracheno ha affermato come sin dall’acquisto
dell’indipendenza del Kuwait ottenuta nel 1961, aveva chiesto la sua
annessione, in quanto parte del proprio territorio, o quanto meno una
revisione dei suoi confini.
A questo punto ci si deve chiedere se durante l’occupazione irachena il
Kuwait non abbia perso la qualità di soggetto di diritto internazionale. La
Comunità internazionale di fatto sembra aver riconosciuto in quel periodo al
Kuwait lo status di soggetto di diritto internazionale, non contestando il suo
diritto di legazione, quanto meno attivo. Inoltre il fatto che i reparti delle forze
aeree kuwaitiane abbiano partecipato alle ostilità, dovrebbe essere letto come
il riconoscimento del perdurare della sovranità. Vi è tuttavia un aspetto da
considerare. Gli elementi costitutivi dello Stato sono tre: popolo, governo,
territorio. Nel caso del Kuwait mancherebbe l’elemento territoriale, dal
momento che si tratta di un governo in esilio. Di per sé un governo in esilio è
una struttura di governo che opera al di fuori del proprio territorio, di solito a
causa di eventi bellici.
A tal proposito Arangio Ruiz1 ha affermato come il territorio o la
popolazione di un soggetto possono mutare ed anche estinguersi, ma ciò che
davvero conta è l’esistenza e la continuità dell’apparato di governo. Il governo
può vivere al di fuori dello Stato per un certo periodo di tempo, purché
continui ad esercitare in modo effettivo la potestà di governo. Un fattore da
considerare nella valutazione dell’esistenza o meno di un governo in esilio
che sia in grado di svolgere la potestà dipende dall’atteggiamento degli altri
Stati, vale a dire dal riconoscimento degli Stati terzi e dal trattamento che il
soggetto riceve nello Stato ospitante. Il Kuwait sembrava destinato a
riacquistare il proprio territorio grazie all’intervento degli Stati della
coalizione.
Fra le cause possibili dello scoppio della crisi vi è da annoverare anche la
questione del petrolio. Da più lati, infatti, si è parlato di una guerra per il
petrolio, che non avrebbe lasciato spazio al compromesso. Nel Golfo sono
presenti gran parte delle riserve di petrolio del pianeta.
1
A. Ruiz, in A. Miele, La guerra irachena secondo il diritto internazionale. Articoli - Saggi - Documenti,
Cedam, Padova, 1997, II ed., p.47.
Proprio in riferimento alle vicende più recenti, riguardanti il prezioso
combustibile, l’Iraq ha accusato il governo kuwaitiano di rubare il petrolio
situato nei giacimenti a ridosso della frontiera e di sovraccaricare il mercato
mondiale con un eccesso di produzione superiore alle quote assegnate
dall’OPEC. Questa politica, provocando l’abbassamento del prezzo, avrebbe
danneggiato soprattutto l’Iraq impegnato nell’operazione di risanamento del
proprio bilancio, fortemente indebitato dopo la lunga guerra contro l’Iran. A
questo proposito erano in corso delle negoziazioni tra il vicepresidente
dell’Iraq e il principe ereditario del Kuwait, sospese, tuttavia il 1° agosto.
Inoltre il governo iracheno riteneva che le decisioni in materia petrolifera
del Kuwait rientrassero in una sorta di complotto coordinato dagli Stati Uniti.
Tale supposizione sembrerebbe legata all’ipotesi, fomentata dal Salio,2
concernente la tesi della “trappola”, ovvero il tentativo americano di
scatenare una reazione militare per ridimensionare le mire e la potenza
irachene.
Quanto detto deriverebbe da un atteggiamento in qualche modo passivo e
disinteressato dell’ambasciatore americano Glaspie in relazione alla disputa
confinaria con il Kuwait da parte dell’Iraq, secondo quanto afferma
2
G. Salio, Le guerre del Golfo e le ragioni della nonviolenza, Gruppo Abele, Torino, 1991, p.36.
Napolitano.3 Lo stesso autore ha rimarcato come la Comunità internazionale
abbia probabilmente sottovalutato le minacce di Saddam Hussein, abile e
capace nel presentarsi alle popolazioni più diseredate come leader religioso,
ed in grado di scatenare nell’arco di dieci anni ben due guerre, aventi lo scopo
di ampliare, prima ad est, e poi ad ovest, il proprio “spazio vitale” al mare.
I due autori precedentemente citati hanno inoltre osservato come la guerra
del Golfo si presenti come il primo conflitto fra Nord e Sud del mondo, dove
il primo è apparso più forte del secondo. La fine della Guerra Fredda sembra
quindi aver comportato un rovesciamento degli equilibri, e l’emergere di una
nuova dimensione conflittuale che non è più quella fra Est ed Ovest.
Falk4 ha rilevato come la guerra del Golfo ha rivalutato il ruolo delle
Nazioni Unite, che durante tutto il periodo della Guerra Fredda avevano
svolto la parte dello spettatore. L’intervento del Consiglio nella questione
irachena, dove l’aggressore mostrava chiare intenzioni di volersi annettere
un membro dell’ONU, appariva come una risposta a quanti denunciavano la
paralisi politica dell’Organizzazione.
Tornando alla crisi del Golfo c’è da notare come, in seno al dibattito
tenutosi il 2 agosto 1990 davanti al Consiglio di sicurezza, il delegato
3
A. Napolitano, in M. Panebianco (a cura di), La crisi del Golfo, Elea, Salerno, 1991, pp.7 ss.
iracheno ha tra l’altro sostenuto che l’invio delle proprie truppe nel
territorio del Kuwait era dovuto alla richiesta di un nuovo governo kuwaitiano
che aveva destituito il precedente, e che una volta ristabilito l’ordine queste
truppe sarebbero state ritirate.
Quest’ultima affermazione venne però immediatamente smentita
dall’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq quale diciannovesima provincia.
Per ciò che concerne le altre ragioni, queste non possono in alcun modo
giustificare l’operato iracheno e costituiscono pertanto una chiara violazione
del già citato art.2 par.4 della Carta delle Nazioni Unite.
Nelle prime ore dell’invasione si prospettava l’idea di una soluzione
regionale della crisi, ritenendo che il problema rientrasse negli affari arabi.
Ma la conquista di uno Stato membro dell’ONU da parte di un altro Stato
è di per sé un affare troppo grave perché la Comunità internazionale ne resti
disinteressata. D’altra parte la Lega Araba era parsa impotente di fronte ad
una tale violazione del diritto internazionale. La riunione del 10 agosto del
1990 al Cairo mostrò la divisione circa l’atteggiamento da adottare da parte
dei membri dell’Organizzazione regionale, confermata dalla debole
4
R. Falk, A proposito del mandato operativo delle Nazioni Unite nelle operazioni del Golfo, in Pace, diritti
dell’uomo, diritti dei popoli, anno IV, n.3, 1990, p.25.
maggioranza raggiunta nel condannare l’invasione e nell’approvare l’invio di
forze arabe nella zona di crisi.
Misure di cui dispone il Consiglio di sicurezza
Il divieto della minaccia e dell’uso della forza implica poteri specifici
affidati al Consiglio di sicurezza al fine di mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale in seguito ad una sua minaccia o violazione o un atto
di aggressione.
A tal fine la Carta delle Nazioni Unite attribuisce al Consiglio il potere di
adottare diverse tipologie di atti.
- raccomandazioni
L’art.39 consente al Consiglio di Sicurezza di deliberare sia misure
coercitive previste agli artt.41 e 42, sia di fare raccomandazioni. Nonostante
esso rientri nel capitolo VII della Carta, permette di emanare
raccomandazioni di contenuto analogo a quelle previste dal capitolo VI
relativo alla «soluzione pacifica delle controversie». In sostanza il Consiglio
di Sicurezza può svolgere la funzione conciliativa, suggerendo agli Stati
procedure e metodi di regolamento (simili a quelli regolati dagli artt.33 par.2
e 36) o termini di regolamento (simili a quelli regolati dall’art.37). La
differenza considerevole tra la funzione conciliativa del capitolo VI e quella
dell’art.39 è di natura procedurale: consiste nel fatto che solo nel primo caso
c’è l’obbligo di astensione del voto per il membro del Consiglio direttamente
interessato.
- misure provvisorie
Le misure provvisorie sono previste dall’art.40 della Carta. La
provvisorietà è collegata allo scopo perseguito e ai limiti del loro contenuto.
Lo scopo è soltanto quello di prevenire un successivo aggravarsi della
situazione; i limiti consistono nel non «pregiudicare i diritti, le pretese o la
posizione delle parti interessate».5
Sebbene le misure provvisorie nascano come misure d’urgenza e
preliminari rispetto alle altre delibere adottabili ai sensi del capitolo VII,
come risulta dallo stesso art.40, è errato pensare che vi sia un obbligo per il
Consiglio di ricorrervi sulla base di un principio cronologico.
- misure non implicanti l’uso della forza
5
Art. 40 Carta delle Nazioni Unite.
L’art.41 enuncia le misure non implicanti l’uso della forza. Esse hanno
carattere sanzionatorio e sono adottate dagli Stati membri dell’ONU su
richiesta del Consiglio. L’elenco contenuto all’art.41 è solo esplicativo e non
tassativo, e pertanto permette al Consiglio di deliberare qualsiasi altra misura
avente scopo sanzionatorio, purché non comporti l’impiego di forze armate.
Inoltre vale la pena ricordare che anche un comportamento interno ad uno
Stato può spingere il Consiglio a decretare le misure di cui all’art.41, essendo
queste escluse dal limite della domestic jurisdiction (art.2 par.7).
- misure implicanti l’uso della forza
Gli artt.42 e ss. hanno per oggetto l’eventuale decisione da parte del
Consiglio, nel qual caso «le misure previste nell’art.41 siano inadeguate o si
siano dimostrate inadeguate»,6 di intervenire con la forza contro uno Stato
colpevole di aggressione, o di minaccia o di violazione della pace, o
all’interno di uno Stato, dal momento che anche l’art.42 si sottrae dal limite
del dominio riservato.
6
Art. 42 Carta delle Nazioni Unite.
L’art.42 attribuisce all’Organizzazione il potere di agire direttamente,
tramite l’utilizzazione di contingenti armati nazionali sotto un comando
internazionale facente capo al Consiglio di sicurezza.