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PREMESSA
L’ingresso del servizio sociale nel sistema penitenziario ha contribuito a
cambiare il quadro dell’esecuzione penale, tradizionalmente legato a una logica
di esclusione del condannato dal contesto sociale e al suo contenimento fisico
in carcere.
La disponibilità di un servizio professionalmente qualificato e ispirato al
riconoscimento e alla valorizzazione dell’uomo ha consentito una più concreta
attuazione delle previsioni costituzionali sui contenuti riabilitativi della pena,
sino a prevedere, per determinati casi e in certi limiti, forme di esecuzione
alternativa a quella detentiva. La riforma dell’Ordinamento penitenziario,
Legge 26 luglio 1975 n° 354 ha espresso un valore fortemente innovativo
rispetto alla realtà penitenziaria dell’epoca ribaltando la politica del codice
Rocco del 1931 e orientando l’esecuzione penale verso il reinserimento sociale
e la rieducazione, come prevede l’art. 27 della Costituzione. Il principio del
trattamento individualizzato e della diversificazione della pena in funzione del
grado di adesione del condannato alle offerte di attività trattamentali ha fatto sì
che il condannato diventasse soggetto attivo dell’esecuzione penale, nel senso
che gli viene riconosciuta la possibilità di incidere sulla qualità e sul quantum
della pena.
Per rendere comprensibile la portata dei cambiamenti accennati, ho diviso
l’elaborato in quattro capitoli: nel primo, tramite un excursus legislativo, viene
presentata la riforma del sistema penitenziario nei suoi tratti essenziali, con
particolare riferimento ai contenuti principali delle normative (“Legge
Gozzini” e “Legge Simeone-Saraceni”) che hanno ampliato le misure
alternative alla detenzione e alla nascita dei Centri di Servizio Sociale per
Adulti, oggi Uffici di Esecuzione Penale Esterna. Il cambio di denominazione
è uno degli effetti che la “Legge Meduri” del 2005, anch’essa affrontata in
questo capitolo, ha avuto sul Servizio Sociale, al cui interno potrebbe anche
inserirsi la Polizia penitenziaria con funzioni di controllo, ad integrazione
dell’attività svolta dagli assistenti sociali, specie per quanto attiene la verifica, in
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via prioritaria, del rispetto delle prescrizioni imposte dal Giudice di
Sorveglianza ai soggetti ammessi ad una misura alternativa, competenza che
già spetta ad altri organi.
Nel secondo capitolo, dopo una panoramica sui provvedimenti giurisdizionali
nel loro complesso e dopo aver chiarito il concetto di “alternativo alla
detenzione”, vengono prese in considerazione le principali modifiche
apportate sul sistema delle misure alternative alla detenzione dalle leggi
“Gozzini” e “Simeone-Saraceni”.
In seguito sono dettagliatamente presentate le misure alternative alla
detenzione, come disciplinate nel Titolo I, Capo VI della legge 354/75:
affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in prova in casi
particolari, detenzione domiciliare, semilibertà. Per ognuna sono descritti i
destinatari, le modalità, i requisiti, i limiti, le restrizioni per la concessione, le
cause di revoca e, in ultima battuta, le innovazioni introdotte dai vari interventi
legislativi.
Nell’ultimo paragrafo del capitolo sono delineati gli aspetti critici delle misure
alternative e i problemi operativi per il Servizio Sociale penitenziario e si dà
spazio alla nuova preoccupazione che grava su di esso a seguito della Legge
Meduri.
Nel corso del terzo capitolo ho cercato di esplicitare il ruolo del Servizio
Sociale penitenziario, soffermandomi sulle competenze all’interno degli Istituti
di pena, nei rapporti con la Magistratura di Sorveglianza e nell’esecuzione delle
misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento all’affidamento
in prova al servizio sociale, misura alternativa per eccellenza, del quale il
Servizio Sociale viene individuato come titolare ed affidatario della esecuzione.
Un intero paragrafo è stato dedicato alla funzione di aiuto e controllo
esercitata simultaneamente dall’assistente sociale nell’esecuzione
dell’affidamento.
Nel capitolo quarto, ho presentato l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di
Perugia all’interno del quale ho svolto il mio tirocinio e ho “raccontato” la mia
esperienza, con particolare riferimento alle misure alternative, riportando
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alcuni frammenti dei due diari che mi hanno accompagnato durante il
percorso.
Nell’ultimo paragrafo, di riflessione sulla mia esperienza di tirocinio, ho colto
l’occasione per ringraziare quanti, all’interno dell’Ufficio, mi hanno sostenuto
in questo lavoro; sento il bisogno, in questo spazio, di ringraziare il mio
Relatore, la Professoressa Domenica A. Gristina, per il grande aiuto offertomi,
sia a livello professionale che umano, nella stesura di questo elaborato, il quale
senza la sua pazienza, la sua disponibilità e flessibilità, la sua precisione e i suoi
preziosi spunti non sarebbe venuto alla luce.
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CAPITOLO I
QUADRO GIURIDICO
1. LA RIFORMA PENITENZIARIA DEL 1975
1. 1 ITER E FILOSOFIA
Il 1975 segnò una data storica per lo sviluppo dell’intero sistema delle carceri
italiane, sottolineando per la prima volta, sul terreno esecutivo, il salto di
qualità operato dalla Carta costituzionale.
Entrò in vigore, infatti, la Legge n°354/75 “Norme sull’ordinamento penitenziario e
sulle misure privative e limitative della libertà personale”, passata alla storia come “la
riforma penitenziaria del 1975”, “grande riforma”, “il nuovo ordinamento
penitenziario della Repubblica Italiana”, la quale, insieme al successivo d.P.R
del 29 aprile 1976 n°431 con il quale venne approvato il "Regolamento di
esecuzione" della legge, mise in discussione sia la centralità e l’esclusività del
carcere come modalità di esecuzione penale, sia il concetto di pena come
“segregazione” e spostò l’attenzione verso l’esterno, in una dimensione
comunitaria e territoriale.
L’ordinamento penitenziario veniva alla luce in un periodo di profonda
trasformazione della società italiana, caratterizzato da numerose riforme
legislative in campo sociale e da un mutamento nel modo di concepire i
rapporti tra cittadini e Stato, che richiedeva maggiore attenzione alle tematiche
riguardanti i “diritti sopravviventi dei detenuti” e le “garanzie” per i cittadini
sottoposti a misure privative o limitative della libertà (cfr. Anna Muschitiello
1
1
Anna Muschitiello è assistente sociale coordinatore presso il Centro di servizio sociale per adulti di
Milano, segretaria nazionale del Coordinamento assistenti sociali della Giustizia (CASG) e consigliera
dell’Ordine regionale assistenti sociali della Lombardia;
,
2003). Tra i principali interventi normativi ricordiamo la legge n°151, “Riforma
del diritto di famiglia”, con cui venne riconosciuta la parità dei coniugi, si
abrogò l’istituito della dote, venne riconosciuta ai figli naturali la stessa tutela
prevista per i figli legittimi, si istituì la comunione dei beni come regime
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patrimoniale legale della famiglia e la patria potestà divenne di entrambi i
genitori (cfr. www.wikipedia.it). Nel 1978, invece, la legge n°833 “Riforma
sanitaria”, istituisce il Sistema Sanitario Nazionale (SSN
2
www.nannimagazine.it
), muta l’approccio
alla malattia mentale (che viene depenalizzata), regolamenta il trattamento
sanitario obbligatorio in un quadro di tutela dei diritti del paziente, tramite la
chiusura degli ospedali psichiatrici, favorisce il recupero sociale e disincentivata
la cronicizzazione del ricovero manicomiale. Viene suggerito un modello
assistenziale territorialmente allargato, fondato sull’ interazione
interdisciplinare di più figure professionali e di interventi integrati, facilmente
accessibile a tutti gli utenti (cfr. Foschi S., 2008 in ).
Negli anni di gestazione della riforma il sistema penitenziario era caratterizzato
dall’arretratezza delle strutture e dei programmi verso la popolazione detenuta,
orientati alla sua sola custodia.
Un primo passo in direzione della riforma è rappresentato dalla costituzione,
nel 1947, di una Commissione ministeriale cui venne affidato l’incarico di
studiare lo stato delle istituzioni penitenziarie e la relativa normativa, ai fini di
una prima valutazione della situazione e formulazione di proposte di
adeguamento.
Di particolare rilievo in questa fase, fu il ruolo dell’Amministrazione
penitenziaria, grazie soprattutto alla competenza del Magistrato Giuseppe di
Gennaro.
Nel 1960 il Ministro di Grazia e Giustizia Guido Gonnella presentò un primo
progetto di legge in materia penitenziaria, in cui veniva proposto un riassetto
generale del sistema, contenente le innovazioni più importanti che avrebbero
caratterizzato la legge del 1975: trattamento rieducativo individualizzato,
attività di osservazione, istituzione di nuovi ruoli di personale educativo e di
servizio sociale.
Da questo momento in poi l’iter legislativo della riforma venne attraversato da
numerose vicende, che vanno dalla decadenza dei progetti per fine legislatura,
2
Come enunciato dall’art. 1 del d.lgs. 502/1992, il Servizio Sanitario Nazionale è il complesso delle
funzioni e delle attività assistenziali svolte dai servizi sanitari regionali, dagli enti, da istituzioni di
rilievo nazionale e dallo Stato, volte a garantire la tutela della salute come diritto fondamentale
dell'individuo ed interesse della collettività, nel rispetto della dignità e della libertà della persona
umana;
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a parziali approvazioni, a revisioni di consistente rilievo, fino al passaggio
fondamentale avvenuto nel 1972, quando sempre su iniziativa del Ministro
Gonnella, fu ripresentato al Senato un testo già approvato nella precedente
legislatura e poi decaduto senza che la Camera dei Deputati avesse potuto
pronunciarsi a riguardo.
La discussione fu lunga e dibattuta, furono proposte numerose modifiche e,
alla fine, il Senato approvò il testo così come restituito dalla Camera, tenendo
anche conto delle pressioni esercitate dall’opinione pubblica e dai detenuti,
affinché si giungesse ad un risultato, nel tempo aggiustabile (cfr. Breda R.,
Coppola C., Sabattini A., 1999).
L’attuazione di tutti i punti della legge 354/75 non è stata immediata sono,
infatti, dovuti passare molti anni prima che si desse avvio ad una reale, quanto
lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli edifici,
alcuni addirittura di epoca rinascimentale, fino al personale qualificato e al
trattamento stesso delle pene e dei detenuti (cfr. Gozzini M., 1988).
Le novità introdotte dalla Riforma non riguardarono solo l’ordinamento
penitenziario in senso stretto, (organizzazione e gestione degli istituti dove
veniva scontata la pena) ma anche lo status dei detenuti, le misure alternative
alla detenzione, gli organi giudiziari, il personale di servizio sociale e di
educazione coinvolto nell’esecuzione.
La Riforma rappresentò una svolta dal punto di vista della legislazione
penitenziaria, per il fatto che proponeva un’esecuzione penale capace di
guardare all’uomo ed alle sue vicende esistenziali “distinguendo il momento statico
del giudizio, focalizzato sul fatto commesso e sulle circostanze, da quello dinamico
dell’esecuzione della condanna, focalizzato invece sul reo e sulle circostanze che ne
cambieranno la vita”, (Breda R., Celso C., Sabattini A., 1999, 62) e sostituiva
definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931.
Fino a quel momento il carcere era stato concepito come un luogo isolato dalla
società libera e i rapporti con l’esterno si limitavano a colloqui, corrispondenze
e visite dei prossimi congiunti, tutte modalità tra loro accomunate dall’avere un
carattere restrittivo ed aleatorio, legato al sistema delle ricompense e delle
punizioni.
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Con la riforma, la permanenza in carcere non è più vista come esclusione del
soggetto dalla società civile, bensì come una fase della vita durante la quale
poter attingere alle opportunità di responsabilizzazione e di presa di coscienza
offerte. Si afferma quindi l’idea del carcere come luogo di opportunità che,
grazie all’appoggio di specifici servizi, può permettere la realizzazione di un
progetto di recupero sociale sostenuto anche dalla solidarietà di tutte le forze
sane e vive della comunità, mettendo finalmente in pratica un principio
costituzionale, contenuto nel terzo comma dell’art. 27
3
(cfr. Tartaglione G., 1990 in
della Costituzione,
rimasto per molto tempo non attuato: la pena deve essere tendenzialmente
rieducativa e tendere al reinserimento sociale del detenuto.
L’impianto dell’ordinamento penitenziario pone quindi alla base del
trattamento i valori dell’umanità e della dignità della persona, ai quali fa da
collante il principio della assoluta imparzialità nei riguardi di tutti i detenuti.
Ai detenuti viene assicurata una parità di condizioni di vita negli Istituti
penitenziari (art. 3, ord. pen.) e nessuno “può avere, nei servizi dell’Istituto,
mansioni che comportino un potere disciplinare o consentano una posizione
di preminenza sugli altri”.
Il rispetto per la persona si esprime anche nella previsione per cui “i detenuti e
gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome” (art. 1, 4° comma, ord.
pen.) e non più, come era prassi del regolamento del 1931, con il numero di
matricola.
Ad una così radicale trasformazione della filosofia dell’esecuzione penale non
si accompagnò però alcun mutamento della struttura burocratica rigidamente
centralizzata e verticistica dell’amministrazione penitenziaria
www.rassegnapenitenziaria.it).
3
Art. 27 Cost: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla
condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”;
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1. 2 IL TRATTAMENTO RIEDUCATIVO
La riforma, fin dall’art. 1
4
Nel trattamento individualizzato può rintracciarsi il criterio ispiratore della
riforma: per la prima volta, a prescindere da qualsiasi considerazione sul suo
passato e sulla sua pericolosità sociale, si riconosce al detenuto una propria
soggettività “sostanziale in quanto il detenuto viene identificato e definito quale titolare di
, pone al centro dell’attenzione la specificità del
carcerato, da considerare come soggetto partecipante e non più destinatario
passivo degli interventi punitivi, rispondendo “…ad un obbligo di adempimento
costituzionale indicato all’art. 27 della Costituzione repubblicana, con il suo precetto relativo
all’umanizzazione delle pene e alla finalità rieducativa cui le pene stesse devono
necessariamente tendere”, (Di Gennaro, Breda e La Greca, 1997, 1).
Il principio fondamentale è quello dell’individualizzazione del trattamento
sanzionatorio che, secondo quanto descritto nell'art. 13 dell'ordinamento
penitenziario, consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è
rappresentato dai bisogni della personalità del soggetto, dalle carenze, dalle
cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal
reinserimento sociale, la modalità è costituita dall'osservazione scientifica a fini
diagnostici, compiuta all’inizio dell’esecuzione e permanente nel suo corso, e
dall’offerta di interventi garantiti dall’ Amministrazione penitenziaria.
I dati raccolti con l’osservazione e gli sviluppi del trattamento dovranno essere
riportati su una cartella personale (art. 16 ord. pen.) che servirà come guida sia
nella formulazione di un programma iniziale dell’opera rieducativa, sia nelle
successive specificazioni e modificazioni (cfr. www.ambientediritto.it).
4
Art 1 della l. n° 354/1975: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve
assicurare il rispetto della dignità della persona.
Il trattamento é improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità,
razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.
Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni
non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini
giudiziari.
I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.
Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono
considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.
Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che
tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il
trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni
dei soggetti.”;
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diritti ed aspettative, ed è formale in quanto egli viene legittimato all’agire giuridico, almeno
in relazione a determinate questioni, proprio in riferimento alla condizione di ristretto” (La
Greca, 1995, 875).
Il trattamento rieducativo viene inteso come aiuto diretto al condannato a farsi
capace di gestire correttamente i ruoli sociali di sua competenza.
Al fine del reinserimento sociale, viene formulato ed attuato un programma
individualizzato che comprenda i vari impegni ed interventi in cui si articola il
percorso di recupero e solleciti la partecipazione al progetto di recupero che lo
riguarda, condizione indispensabile per conseguire reali risultati.
La finalità rieducativa e risocializzante della pena riconduce ad un
collegamento costante e duraturo con le varie realtà di provenienza e con il
territorio di esecuzione penale (cfr. Zeppi A., 2005 in www.ambientediritto.it).
1.3 LA NASCITA DELLE MISURE ALTERNATIVE ALLA
DETENZIONE
L’istituzione delle misure alternative alla detenzione (così possono
denominarsi solo quelle disciplinate nel Titolo I, Capo VI della legge 354/75)
risponde sostanzialmente al principio di individualizzazione della pena e
rappresenta un importante ampliamento delle forme di espiazione, che
vengono rese il più possibile funzionali ad un’effettiva riabilitazione e
recupero.
Le misure alternative, nella loro configurazione originaria, si ponevano non
come misure sostitutive delle pene detentive brevi, bensì come veri e propri
“passaggi non obbligatori” del percorso di risocializzazione, caratterizzato da
momenti di intervallo nell’esecuzione della sanzione carceraria, allo scopo di
un reinserimento graduale nella vita sociale esterna. Tutto ciò si realizzava
all’interno di un sistema di garanzie e controlli operati sia dagli organi giudiziari
che dai servizi sociali, nel quale la persona del detenuto era centrale e la sua
condotta, rappresentava la base per l’applicazione delle misure alternative (cfr.
D’Onofrio M., Sartori M., 2004).