null null null Introduzione.
null Ogni volta che leggo o prendo atto di un fatto di cronaca di suicidio, provo
immediatamente un senso di rammarico, delusione e incredulità.
Più di tutto attribuisco alla società il fallimento. La società intera ha fallito.
Ritengo che un suicidio sia sempre un fallimento: della politica, della cultura,
della società, dell'assistenza, e nel caso di un suicidio adolescenziale anche - ed è la
cosa più dura da ammettere - dell'amicizia e degli affetti.
Il suicidio diventa così una forma ancor più violenta e temibile di morte che,
implodendo, atterrisce e sgomenta e davanti alla quale ogni difesa dell’uomo vacilla.
Ancora più violento e disarmante è dunque il suicidio compiuto da
adolescenti, considerati da tutti esseri spensierati, felici e sempre pronti a costruire e
ricostruire il proprio futuro. Futuro, però, che alcuni scelgono di non avere, di non
vedere e di non vivere. La domanda forse più banale e allo stesso tempo più naturale
che sorge e attanaglia l’opinione comune è: perché? Perché alla sua età?
Domande alle quali non sempre si riesce a dare risposta e che spesso
rimangono velate. Che sia esso una fuga o una macabra provocazione, il suicidio,
rimane comunque un progetto unico e singolare che annulla, nel momento stesso in
cui si compie, ogni altro progetto di vita.
Quando decisi l’argomento della mia tesi e cominciai a parlarne con amici,
familiari, colleghi di università, mi trovai spesso nella condizione di dover
rispondere a una frequente domanda: perché proprio il suicidio?
Mi domandavano il motivo della scelta di un argomento così triste e del quale
peraltro si ha paura di parlare, avvolto dal tabù del silenzio e del non dire.
Per parecchio tempo sono stata portata a colludere con i loro timori e le loro
angosce riguardanti un evento così insondabile, ma, del resto, era proprio questo ad
affascinarmi: il fatto che potesse apparire incomprensibile, enigmatico e che
difficilmente potesse essere svelato. Si brancola nel buio delle congetture, delle
ipotesi, senza però essere mai sicuri di trovare la risposta a ciò che è successo. Non
avevo mai riflettuto abbastanza sul fenomeno del suicidio e decisi che ne avrei
intrapreso uno studio approfondito capace di fornirmi nuovi strumenti conoscitivi.
Misconoscevo i possibili motivi che potessero condurre l’uomo ad arrendersi
di fronte alle difficoltà esistenziali; mi domandavo se il gesto suicida potesse essere
null null null anticipato e in che modo potesse essere fatto; soprattutto mi interrogavo su come la
società intera potesse fungere da fattore di protezione al rischio di suicidio. Nello
specifico decisi di accostarmi all’argomento considerando una circoscritta fase
evolutiva: l’adolescenza.
L’adolescenza, si sa, è il periodo della vita dell’individuo, in cui si verificano
importanti cambiamenti sia a livello fisico sia psicologico, durante il quale il
soggetto mette in discussione la propria identità, il proprio ruolo nell’ambiente
familiare e nei confronti delle amicizie; è durante l’adolescenza che si struttura il
concetto di sé. Sono frequenti sentimenti di dubbio, incertezza, che accompagnano
comportamenti di reattività e impulsività e l’adolescente deve affrontare e superare
molti compiti evolutivi. Deve riuscire a costruire una buona autostima, crearsi una
forte identità, attribuire un valore positivo alle proprie esperienze, incamminarsi
verso l’autorealizzazione, stabilire rapporti soddisfacenti con gli altri, esser capace di
autonomizzarsi dalla famiglia senza però smarrirla durante il cammino di crescita.
Per far fronte a tutti questi compiti evolutivi da adempiere, l’adolescente può
avvertire un senso più o meno marcato di incapacità, di bassa autostima, ritiro sociale
e cadere in una profonda disperazione. Gli adolescenti si trovano a fronteggiarsi in
una situazione paradossale: da un lato possiedono una notevole capacità
d’introspezione e una certa consapevolezza delle imperfezioni di questo mondo, ma
dall’altro, sono poco robusti emotivamente per affrontare le numerose sollecitazioni
dettate dai vari ruoli che li aspettano. Per il mondo degli adulti è molto difficile
riuscire a ipotizzare che nella mente dei ragazzi si possano annidare dolori così
grandi e ingestibili; poi si cresce, ci si abitua e si impara, ma gli adolescenti sono
ancora dei debuttanti nella gestione del dolore mentale.
A queste riflessioni, in me, se ne aggiunsero di nuove: perché oggi alcuni
adolescenti giungono al suicidio? Cosa manca e cos’è mancato nelle loro vite perché
esso non si possa evitare? In qualità di ragazza, non più adolescente, e con
formazione pedagogica, non volevo che tali quesiti rimanessero ancora dentro di me
senza le dovute risposte. Nel frattempo si presentò per me l’occasione di frequentare
il secondo semestre del mio secondo anno di formazione specialistica in Finlandia.
Onestamente conoscevo poco la realtà finlandese, ma molti, compresa me, ne
conoscevano e ne conoscono da sempre la fama di leader europeo in termini di
null null null incidenza del fenomeno suicidario. L’esperienza si sarebbe potuta rivelare per me
l’occasione impareggiabile per affrontare l’argomento ed estenderlo in chiave
comparativa con la realtà italiana.
Anche se per un tempo limitato, ho vissuto personalmente quelle condizioni
climatiche e atmosferiche che tanti rigettano e dalle quali si allontanano, ma che
conferiscono a quei luoghi tutta la magia e il fascino che li contraddistingue.
Le settimane prima della partenza, pianificai il mio viaggio e immaginai più e
più volte le difficoltà che avrei potuto incontrare: sopportare il freddo pungente, le
ore di buio che avrebbero potuto inficiare sul mio buonumore e sullo studio, la
mancanza di casa e dei miei affetti più cari che avrebbero sicuramente compromesso
le tante occasioni ed esperienze di vita di indipendenza. Preparavo l’occorrente,
completavo le pratiche burocratiche e intimamente speravo di farcela. Ero motivata,
entusiasta e curiosa di quanto mi aspettava.
Le difficoltà di adattamento, il freddo e il buio, la nostalgia di casa,
puntualmente come previsto, non sono mancate. Ho fatto fede a tutte le mie forze e
quando esse stentavano a resistere, la mia famiglia era sempre pronta a infondermene
di nuove senza mai dare segni di cedimento. Passavano i giorni e cominciavo ad
abituarmi alla Finlandia. Iniziai così a fare ricerche, mi procurai il materiale per
approfondire l’aspetto e mi documentai. Alimentavo le mie conoscenze e con esse la
mia motivazione. Sono stati cinque mesi indimenticabili.
Per la trattazione mi sono servita di materiale statistico, reperito dai siti
nazionali, italiani e finlandesi, in particolare pubblicati negli annuari dell’Istituto
Nazionale di Statistica e del Tilastokeskus, nonché mondiali, quale ad esempio
l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ho condotto ricerche di tipo quantitativo,
analizzando materiali e comparando risultati provenienti da fonti diverse, ricerche e
teorie sociologiche, psicologiche e psicometriche, risultati attesi da test e
sperimentazioni, materiale informativo proveniente dagli archivi della Polizia di
Stato e medico-legali, e di tipo qualitativo, consultando studi approfonditi di casi,
fatti di cronaca e testimonianze raccolte mediante la somministrazione di interviste a
familiari condotte negli anni e nelle varie culture da specialisti del settore.
Le descrizioni delle statistiche, ampiamente presenti nella mia ricerca
soprattutto nel primo capitolo della trattazione, potranno apparire, al lettore, aride e
null null null talvolta irritanti. Ho sempre ritenuto che copiose cifre e percentuali da sole non
bastino mai, non spiegano niente della persona, non dicono nulla del dramma
vissuto, dei sogni infranti, di quanto la famiglia avesse costruito e immaginato un
futuro per lei. Sono solo numeri. Numeri per capire, dai quali avviare una ricerca di
significati, perché si costruisca una rete sociale attorno al problema del suicidio e del
tentato suicidio in adolescenza, perché si attuino progetti educativi di prevenzione e
protezione vincenti. La trattazione, nelle sue parti iniziali, si concentra sulle
definizioni del suicidio nella storia, accennando soprattutto alla filosofia e alla
letteratura, per informare il lettore di come le considerazioni sociali e culturali
costruite attorno al suicidio abbiano da sempre interrogato l’uomo e di come siano
cambiate nel corso dei secoli. Si prosegue con la presentazione del fenomeno
analizzato a livello mondiale, per fornire una panoramica generale dell’incidenza del
fenomeno e delle sue variabili socio-demografiche: l’età, l’isolamento sociale, i
dettami della religione, il tema della perdita nelle sue più svariate declinazioni e,
particolare enfasi, è posta sulle differenze intrinseche tra uomo e donna, tradotte
nelle diverse pratiche del suicidio e del tentato suicidio. Nello specifico l’attenzione
è in seguito posta alle correlazioni tra il suicidio e la fase adolescenziale, dunque:
quali aspetti sociologici e psicologici caratterizzano il soggetto in questa delicata fase
di sviluppo e quali possono essere le costanti dell’avvento del gesto suicidario?
La prima parte si conclude con l’analisi approfondita delle due nazioni
protagoniste: l’Italia e la Finlandia e ne sono presentati e confrontati i dati
concernenti il numero dei suicidi e dei tentati suicidi registrati nel corso dell’anno
2010; la distribuzione geografica degli stessi su territorio italiano e finlandese, che
riflette differenze sociali, culturali ed economiche per ciascun Paese; le modalità e i
mezzi di esecuzione mediante i quali si realizza il gesto suicida.
Il secondo capitolo si snoda attraverso la presentazione dei fattori di rischio.
Ci si interroga su quali possano essere le cause precipitanti e predisponenti all’atto
suicida in adolescenza: dinamiche familiari difficili che impediscono uno sviluppo
sano dei figli? Personalità adolescenziali fragili, narcisiste o emotivamente instabili?
Esperienze scolastiche fallimentari, relazioni amicali e affettive inesistenti o
soffocanti? Può essere annoverato a essi anche l’abuso di sostanze?
null null null Si noterà che un peso rilevante può essere dato dalle stereotipie mediatiche
che alimentano le condotte imitative, ma anche i precedenti tentativi di suicidio
compiuti dal soggetto; come dunque riconoscere i gruppi giovanili ad alto rischio?
Nel caso specifico della Finlandia ampio spazio è dedicato alla depressione
stagionale: il freddo e il buio possono davvero essere complici nell’ideazione
suicidaria?
Esiste a oggi molta ignoranza sul suicidio. Non solo la gente comune, ma
molti operatori della salute spesso si riferiscono all’argomento con termini e
modalità improprie e fasulle. Sono qui presentate le verità sul suicidio e le pratiche di
lettura dei segnali di allarme. Imparare a leggere e a capire gli indizi di rischio
significa aprirsi alla sofferenza altrui e condividere anche le nostre difficoltà
nell’attribuire un senso alla vita. Come fare a cogliere questi segnali? Quali sono gli
atteggiamenti più consoni? Come rispondere, in definitiva, al grido d’aiuto?
Il terzo capitolo cerca di indagare quali siano le strategie in atto nelle nazioni
considerate; nello specifico il lettore sarà accompagnato attraverso l’analisi e la
comparazione della situazione italiana e finlandese in merito alle principali agenzie
educative: la famiglia, la scuola, le attività ricreative e di tempo libero, la Chiesa,
insistendo sul ruolo protettivo esercitato dalle stesse, ma come agiscono in
definitiva? Quali sono i progetti elaborati? Quali gli obiettivi nazionali atti ad
arginare il fenomeno?
Si procede con la valutazione delle abitudini giovanili nei confronti
dell’alcool e delle nuove politiche normative atte a circoscriverlo. Infine sono
presentati i nuovi mezzi di comunicazione preferiti dagli adolescenti di oggi, quali,
Facebook, Twitter, i cellulari, le chat. Il lettore sarà stupito dal modo in cui essi
saranno valutati in chiave rinnovata, fungendo così da fattori di prevenzione.
Il quarto e ultimo capitolo si apre al tema del senso della vita in netta antitesi
alla scelta di morire. Non è sufficiente dunque una spinta biologica per vivere, ma
una forte motivazione esistenziale, e purtroppo, ancora ad oggi, si conoscono troppi
modi per morire ma non per vivere. La vita, ciascuna vita, è un dono unico e
prezioso, e bisogna progettarla creativamente e sentirsene gli autori protagonisti. Il
progetto di vita suscita la speranza che è l’attesa di cose buone della propria
esistenza. Disegna il sorriso sul volto. Riempie lo sguardo di entusiasmo. Crea
null null null miglioramento continuo. Quello che manca al suicida è l’attesa di una vita degna di
essere vissuta e i migliaia di giovani che giungono ad elaborare ideazioni suicidarie o
che giungono al suicidio sono testimoni incisivi di quanto sia necessario rieducare
l’uomo adulto e la società intera alla riscoperta di valori sopiti, a partire dalla gioia
autentica del vivere e del sentire. Ma come? Emerge così a gran voce la necessità da
parte dell’adolescente di incontrare adulti che siano delle persone interessanti di per
sé, punti di riferimento, persone che non hanno smesso di camminare. Il pedagogista,
spesso sottovalutato e poco interpellato, diventa in questo senso professionista
dell’educazione e solida presenza formativa; quali dunque i suoi interventi? Come
coinvolgerlo maggiormente nella vita dei nostri ragazzi?
Parte della trattazione è dedicata all’importanza attribuita ai gruppi di auto-
aiuto costituiti da familiari, amici e compagni, partner che hanno fatto esperienza
indiretta della morte perché legate affettivamente al giovane suicida. I partecipanti
sono accomunati da rimorsi simili, sovraccarico emotivo e cercano insieme lo stesso
conforto; eppure la cosa più difficile è accedere al dolore di questi individui che
tendono a rigettare ogni forma di contatto nelle prime fasi della tragedia. Si
indagheranno le forme di sostegno presenti sul territorio italiano e finlandese
ponendo enfasi sull’importanza di un intervento pedagogico globale.
Il capitolo, quindi la trattazione, termina con la presentazione di alcune storie
di vita: giovani che hanno scelto di raccontarsi a distanza di tempo dall’aver tentato il
suicidio. Ogni storia è un dramma diverso, ciascuna di esse è però testimone di un
positivo epilogo. Queste e tutte le altre storie che seguiranno vorrei portassero il
lettore a riflettere sulle profende ferite che lacerano le pieghe dell’anima, anche di
quelle ancora giovani e che si consideri ogni vicenda unica e ogni suo protagonista
inimitabile, abbandonando ogni inutile pregiudizio e ogni arida stereotipia perché,
come ricordano le splendide parole di Bruner, “Ogni storia è la storia di qualcuno”
1
.
null null nullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnull nullnullnullnullnullnullnullnull null 1
Bruner Jerome, The Culture of Education (1996) - (trad. it. La cultura dell'educazione,
Feltrinelli, Milano, 2000).
null null null 1. Il suicidio nella storia e le sue definizioni.
Il termine “suicidio” corrisponde all’atto volontario di porre termine alla
propria vita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1999 ha
considerato il suicidio come problema non ascrivibile ad una sola causa o ad un
preciso e circoscritto motivo. Tale “scelta” autodistruttiva è, in genere, indotta da
circostanze, interne o esterne, che la persona suicida avverte e considera come
assolutamente insopportabili, tanto da preferire il suicidio come l’unico mezzo di
liberazione o come la “migliore soluzione possibile”.
Erwin Stengel
2
rileva la presenza di una forte ambivalenza nel suicida nei
confronti della morte e afferma: “La maggior parte delle persone che compie atti
suicidi non vuole né morire né vivere; vuole fare le due cose nello stesso tempo, di
solito una più dell’altra o molto più dell’altra”.
La persona che ricorre al suicidio non vuole morire, ma vivere una vita
diversa. Arthur Schopenhauer
3
parla così di “volontà di vivere” che anima il suicida,
che si uccide perché non accetta di vivere “questa” sua vita intollerabile o
insostenibile. Il suicidio è il risultato di un processo psicologico molto stratificato,
generato da un groviglio di fattori, che presenta i seguenti tre elementi: l’idea della
morte come liberazione, l’intenzione deliberata e ragionata di morire e, infine, un
comportamento autodistruttivo fatale.
La parola “suicidio” appare tardivamente in tutte le lingue e sembra sia stata
utilizzata per la prima volta dall’abate Desfontaines nel 1737. Egli, scrivendo uno
degli articoli per la Grande Enciclopèdie, usò il termine suicide (dal latino sui-caedo,
sui genitivo del pronome personale di terza persona e caedo sostantivo del verbo
“uccidere”): uccisore di sé, il termine piacque ed entrò nell’uso corrente.
La definizione di suicidio contenuta nell’espressione “uccisore di se stesso”
delimita bene l’accadere degli eventi suicidari in rapporto alla persona, eliminandone
ogni riferimento ambiguo relativo sia all’omicidio che all’ eventuale accidentalità
della morte.
nullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnull null 2
Stengel E, Il suicidio e il tentato suicidio, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 29.
3
Schopenhauer A., Il mondo come volontà e rappresentazione (titolo originale: Die Welt als
Wille und Vorstellung),1819, secondo volume, 1844.
null nullnull Le posizioni che le varie culture hanno assunto e gli atteggiamenti della
società desunti dalla letteratura, dalle leggi e dalla condanna espressa dalla religione,
consentono di approfondire e meglio comprendere le reazioni collettive ancora oggi
presenti davanti alla scelta di morire volontariamente.
Tale excursus storico permette di cogliere l’evoluzione della nostra
percezione del suicidio che è passata dal ritenerlo, in tempi molto lontani, un gesto
accettato e degno di ammirazione, al trattarlo come peccato o crimine, per
concepirlo, in tempi più recenti, come conseguenza di circostanze avverse o di stati
mentali patologici.
L’evoluzione della storia del pensiero ha comportato profonde trasformazioni
nei giudizi che hanno accompagnato il gesto del suicidio.
Aristotele
4
affronta il problema da una prospettiva giuridica, e considera il
suicidio un atto che la legge vieta; come diretta conseguenza, chi lo commette si
macchia di un’ingiustizia verso se stesso e verso la “polis”. Già il suo maestro
Platone
5
non ammetteva il suicidio se non per una necessità assolutamente
ineluttabile. Egli espone i motivi che portano la scuola pitagorica a proibire il
suicidio: la ragione di questa proibizione deriva dal ritenere che gli dèi abbiano
collocato le anime degli uomini nei corpi e, di conseguenza, il suicidio violerebbe il
loro stesso volere.
Lo stoicismo (Atene, 300 a.C.) è forse uno degli esempi più noti in filosofia
che accetta il suicidio. I suoi seguaci, infatti, considerano la filosofia come l’arte del
corretto vivere e del morire bene sostenendo che ogni uomo deve essere libero di
decidere quando porre termine alla propria vita.
Seneca
6
, nella Lettera LXX, sostiene che morire al momento giusto è una
dimostrazione di libertà morale, purché la scelta sia fatta razionalmente.
Coerentemente con le sue affermazioni, egli ha posto fine alla propria vita con un
atto volontario. Nel III secolo d.C. Plotino scrive un trattato sul tema del suicidio; la
vita stessa, nel suo pensiero, è concepita in senso divino, quale prodotto ultimo della
processione di Dio. Il suicidio provoca allora un danno all’anima, che viene espulsa
dal corpo in maniera del tutto innaturale.
nullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnull null null null Aristotele, 384-322 a.C., Etica Nicomachea. null 5
Platone, 428-348 a.C., Fedone.null 6
Seneca, 4 a.C.-65 d.C., Lettera LXX.