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Introduzione
Le chiacchiere su gay e lesbiche riempiono quotidianamente i salotti dei talk-show;
Signorini risponde col classico cliché dell‟omosessuale effeminato e Cecchi Paone
stupisce tutti dichiarandosi gay. L‟allora governatore del Lazio, Marrazzo, sconvolge
l‟Italia con le sue relazioni con alcuni trans.
Ma da dove nascono queste chiacchiere? Da dove nasce tutto questo stupore? Nascono
forse dall‟ignoranza del mondo omosessuale? Nascono forse da una cultura italiana
intrisa di implicazioni religiose?
Rimane comunque da constatare che il divario tra quanto si dice degli omosessuali e
quanto realmente si conosce di essi è molto profondo.
Nel primo capitolo di questa tesi tenteremo di spiegare come si realizza il processo di
costruzione dell‟identità in gay e lesbiche e come avviene il percorso di coming-out
degli omosessuali. Affronteremo quindi gli aspetti politico-legislativi legati
all‟omosessualità: esistono infatti paesi in cui i diritti degli omosessuali sono calpestati,
paesi in cui la pena di morte è ancora praticata per chi ha relazioni con persone dello
stesso sesso.
Il discorso che affronteremo sui diritti ci porterà a parlare delle situazioni nelle quali gli
omosessuali sono oggetto di stereotipi (“I gay sono tutti effeminati, le lesbiche sono
camioniste”) e pregiudizi, che portano, purtroppo spesso, a esperienze di omofobia,che
si esprimono sia con atti di violenza psicologica sia con atti di violenza fisica.
E se le chiacchiere sugli omosessuali riempiono i salotti dei talk show, non sono da
meno le chiacchiere sulle famiglie omogenitoriali.
È giusto che due uomini o due donne crescano un figlio? Come può crescere questo
figlio all‟interno di una coppia omosessuale? Quali problematiche potrà incontrare un
bambino cresciuto da due donne o da due uomini? Il figlio di una coppia omosessuale
sarà diverso dal figlio di una coppia eterosessuale?
Nel secondo capitolo di questa tesi analizzeremo le più recenti riflessioni teoriche
sull‟omogenitorialità.
Cercheremo infine, attraverso una breve rassegna di alcune ricerche internazionali, di
confutare la tesi secondo cui gli omosessuali non sono in grado di crescere un figlio
sano.
Chi sostiene l‟inadeguatezza delle coppie omosessuali di crescere un figlio, lo fa
adducendo diverse motivazioni: c‟è chi sostiene che i figli di omosessuali diventino
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omosessuali a loro volta; c‟è chi sostiene che gli omosessuali siano emotivamente
instabili e incapaci di portare avanti una relazione, e quindi incapaci di dare un giusto
supporto al figlio; c‟è chi sostiene che un bambino (o una bambina) cresciuto da una
coppia omosessuale sia maggiormente predisposto all‟emergere di malattie mentali; c‟è
infine, chi sostiene che gli omosessuali siano più portati ad abusare sessualmente dei
propri figli.
Tenteremo attraverso l‟analisi di diverse ricerche di dimostrare come questi timori siano
infondati.
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Capitolo 1
Omosessualità: tra coming out e omofobia
1.1. Costruzione dell’identità
“La nozione di Sé non nasce, nel bambino, da un‟essenza interna, relativamente
indipendente dal mondo sociale, ma da un‟esperienza maturata in un mondo di
significati, di immagini, di rapporti sociali, in cui ognuno si trova inevitabilmente
coinvolto” (Bruner,1990; trad. it. 1992, 53, cit. in “Psicologia dello sviluppo sociale”
Molinari, 2002, p. 50).
Quando si parla di identità, si parla del Sé e di come questo si costruisca. Cultura, geni,
società? Chi conta? Chi o cosa influisce sulla nascita del Sé? Chi o cosa collabora nel
rendere l‟individuo ciò che è?
Le parole di Bruner ci suggeriscono che il Sé non sia una struttura innata; ciò che una
persona è si costruisce nel mondo sociale, attraverso interazioni sociali, grazie
all‟utilizzo di significati condivisi che il bambino giorno dopo giorno apprende. E come
può il bambino apprendere tali significati se non dall‟interazione con l‟Altro? Il
bambino non può conoscere se stesso senza conoscere gli altri, quindi le prime fonti
della conoscenza del Sé (ossia i processi attraverso i quali l‟individuo arriva a possedere
tale conoscenza) sono rappresentate dai gruppi ai quali il bambino appartiene e nei quali
avviene l‟interazione sociale (la famiglia, la squadra sportiva, il gruppo religioso, ecc).
La costruzione del Sé è, quindi, un processo sociale e culturale: sociale perché avviene,
come detto, attraverso rapporti sociali, attraverso una dinamica interattiva fondamentale
alla creazione di un senso di Sé; culturale perché non avviene nel vuoto, ma all‟interno
di una data cultura, di un dato contesto, in una data condizione storica, e di tutto ciò non
si può non tener conto.
L‟influenza della cultura è ben visibile se pensiamo a bambini cresciuti ed educati in
Paesi diversi. Ponendo, infatti, a confronto le descrizioni fatte da bambini cresciuti in
Paesi occidentali e bambini cresciuti in Paesi orientali (o, per meglio dire, confrontando
culture individualiste e culture collettiviste) troveremo tra di esse sostanziali differenze,
che riconducono a un modo diverso di vedere se stessi. Come abbiamo accennato, le
culture di paesi come America, Europa, Canada, prettamente individualiste, sono molto
diverse da quelle di paesi come Cina, India, Messico, paesi in cui, al contrario, troviamo
culture tipicamente collettiviste.
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Tali differenze culturali si rifletteranno sugli stili educativi, volti nei paesi con cultura
individualista a sviluppare autonomia, indipendenza, successo personale; l‟educazione
nei paesi a cultura collettivista sarà invece improntata allo sviluppo di caratteristiche
quali obbedienza, cooperazione, dipendenza. Tutto ciò è visibile nelle descrizione fatte
dai bambini. Un bambino occidentale descriverà se stesso in termini di attributi (sono
biondo, sono simpatico, sono timido, ecc…); un bambino orientale descriverà invece se
stesso in termini di ruoli sociali (sono uno studente, sono messicano, sono un fratello)
[Ip, Bond, 1995; Ma, Schoeneman, 1997, cit. in “Psicologia sociale”, Mannetti, 2002].
In poche parole possiamo dire che la cultura influenza lo sviluppo del Sé poiché
influenza le teorie ingenue sullo sviluppo e le pratiche educative che chi si prende cura
dei bambini utilizza (Greenfield, 1994, in “Psicologia sociale”, Mannetti, 2002)
Parlando del Sé e della sua costruzione non possiamo non parlare di George Herbert
Mead.
Mead (1934), considerato il fondatore dell‟interazionismo simbolico, diede una
spiegazione della relazione tra individuo e società, consentendo di superare le sterili
polemiche tra realismo e nominalismo. Mead, infatti, in contrapposizione con il
comportamentismo, riteneva che mente e comportamento fossero necessariamente
legati, e che l‟origine della mente individuale andasse cercata nella società.
Ma non solo; secondo gli interazionisti simbolici la condotta degli individui si
costruisce mentre gli individui stessi interagiscono; quindi è vero che la società e la
cultura forniscono uno schema alla condotta umana, ma è altrettanto vero che sono il
prodotto di tale condotta. Questo ci porta ad affermare che la sviluppo dell‟identità
personale e la formazione della società siano due facce della stessa medaglia, fasi dello
stesso processo.
Secondo l‟interazionismo simbolico, infatti, sono le relazioni sociali a dare una base per
lo sviluppo della persona, della sua capacità di riflessione e di rappresentazione della
realtà; è attraverso le interazioni sociali che diamo significato alle nostre azioni e a
quelle degli altri. È grazie all‟interazione sociale, quindi, che acquisiamo una mente e
un sé.
Questa progressiva acquisizione comincia con quella che Mead definisce
“conversazione di gesti” (Mead, 1934); tale conversazione, che si attua tra il bambino e
gli adulti che di lui si prendono cura, prelude all‟uso del linguaggio. È la
sintonizzazione tra i gesti dell‟adulto e del bambino che aiuta lo sviluppo della
conoscenza di sé e anche degli altri, conoscenza fondamentale per conoscere se stessi.
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Ovviamente, in un primo tempo, il bambino non sarà in grado di padroneggiare con
abilità i gesti, ma gli adulti risponderanno ai suoi gesti come se questi avessero già un
senso. In questo modo gli attori coinvolti nella conversazione daranno ad ogni gesto un
significato particolare in un‟azione che coinvolge entrambi.
Gradualmente, il bambino interiorizzerà le combinazioni di gesti e il loro significato, e
sarà così in grado di comunicare e partecipare all‟azione sociale (Mead, 1934, in
“Psicologia dello sviluppo sociale”, Molinari, 2002).
È in questo modo che emergeranno quelle che Mead (1934) definisce fasi di un
processo; infatti, per Mead, il Sé non è una struttura ma un processo in due fasi, Io e
Me, che creano e ricreano il Sé.
L‟Io è il soggetto che esegue l‟azione, la fase impulsiva di questa, che agisce e produce
conoscenza; il Me è l‟oggetto, la fase riflessiva e di valutazione sul significato che le
proprie azioni possono avere in una specifica situazione, il Me che può essere
conosciuto e controllato (Mead, 1934, in “Psicologia sociale”, Mannetti, 2002).
Come già detto Mead vede il Sé come prodotto dell‟interazione sociale e ne segue lo
sviluppo, individuando due fasi, play e game. Nella fase play il bambino “fa finta che”,
gioca assumendo ruoli diversi e impara così a vedersi e a vedere il proprio
comportamento attraverso gli occhi di “altri” particolari, specifici; nella fase game, il
bambino è più grande e partecipa a giochi organizzati, con regole; sono questi giochi
che aiutano il bambino a rispondere alle reazioni di molti “altri” (Mead, 1934, in
“Psicologia sociale”, Mannetti, 2002).
È a questo proposito che Mead parla di “altro generalizzato” (Mead, 1934, in
“Psicologia sociale” Mannetti, 2002)
Assumere il ruolo dell‟altro non significa soltanto dare un significato alle proprie e alle
altrui azioni, significa prevedere il significato che i nostri gesti e le nostre parole
assumeranno per il nostro interlocutore, partendo dal significato che essi hanno per noi.
Questo implica l‟esistenza di significati condivisi; e il mezzo migliore per condividere,
tramandare, modificare questi significati condivisi è sicuramente il linguaggio: in poche
parole il linguaggio è alla base della capacità di agire. Quindi assumere il ruolo
dell‟altro implica la capacità di immaginare il significato che probabilmente le nostre
azioni assumeranno agli occhi degli altri, e valutare come il nostro ruolo si sintonizzi
con quello degli altri in una data situazione sociale.
Questo ci consente di affermare che l‟identità di un individuo non è scolpita
perennemente sulla pietra, ma è una costruzione fragile, soggetta a cambiamenti; il Sé è
quindi frutto di un processo di negoziazione sociale.