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L’esigenza sempre più sentita nel corso degli ultimi decenni di formare
personale sanitario “ad hoc” ha spinto e favorito la formalizzazione di
iniziative atte ad istruire figure in grado di gestire correttamente il
percorso di educazione terapeutica dei malati cronici. L’educazione
terapeutica è infatti un processo di apprendimento sistemico centrato sul
paziente, che prende in effettiva considerazione i suoi bisogni reali o
potenziali, espressi o meno, ed i suoi peculiari meccanismi di
adattamento alla malattia. È un processo continuo, “in fieri”, che deve
essere costantemente adattato alle diverse esigenze e che è parte
integrante dell’assistenza e del trattamento. Richiede una strutturazione
consapevole mediante l’utilizzo di metodologie e strumenti appropriati
che permettano di spaziare dall’informazione, all’addestramento, alle
strategie motivazionali; deve sempre prevedere, inoltre, la valutazione
del processo di apprendimento attuato e dei risultati ottenuti.
Trattandosi di un concetto di recente introduzione l’educazione
terapeutica è un approccio ancora in via di sviluppo in ambito
oncologico. Nonostante il termine sia largamente in uso, è utile
precisarne il concetto e valutarne l’efficacia in maniera accurata.
Oltre all’approccio curativo, l’educazione terapeutica mira a rinforzare il
coinvolgimento del paziente nella gestione della propria malattia e dei
relativi trattamenti.
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Sviluppatasi inizialmente nell’ambito delle malattie croniche (diabete,
asma), tale disciplina si pone a metà strada tra la medicina e le scienze
umane e sociali. Essa parte dal presupposto che i comportamenti
necessari per convivere al meglio con una malattia cronica possono
essere discussi con i pazienti, attraverso processi di apprendimento
proposti contemporaneamente alle cure.
Il fondatore dell’educazione terapeutica, il medico diabetologo ginevrino
Jean Philippe Assal, con le sue pubblicazioni ha diffuso in Europa i
concetti di educazione terapeutica, nel rapporto tra paziente e medico,
dapprima nel confronto del diabete e poi estendendola alle altre
patologie croniche. Jean Philippe Assal osserva che “…i pazienti cronici
reinterpretano le prescrizioni del medico: sbagliano, certamente,
ma è proprio colpa loro? L’educazione terapeutica è l’arte di seguire
il paziente cronico nel percorso che va dallo shock della diagnosi
all’accettazione della terapia”.
I fattori che contribuiscono allo sviluppo dell’educazione terapeutica in
ambito oncologico e la conseguente evoluzione del rapporto curante –
assistito, sono in prevalenza determinati dall’aumento progressivo,
correlato ai recenti progressi terapeutici, della durata della vita dei
pazienti affetti da cancro che hanno in definitiva l’obiettivo di conferire a
tale peculiare patologia i caratteri di malattia cronica. Alcuni esperimenti
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condotti, riguardanti l’educazione allo stoma care, gli effetti indesiderati
della chemioterapia, i comportamenti alimentari e la presa in carico dei
pazienti con dolore, hanno dimostrato come tali programmi fossero in
grado di migliorare la qualità di vita dei pazienti e di diminuire gli effetti
collaterali dei trattamenti. Il successo di tali programmi è legato a diversi
fattori:
o il prendere in considerazione le modalità di concepimento e di
organizzazione dei programmi educativi secondo la prospettiva
dei pazienti, che sono i principali responsabili della propria salute;
o la formazione di équipe pluridisciplinari istruite e coinvolte in
azioni educative iterative;
o l’importanza della prevenzione delle complicanze della malattia e
delle terapie antitumorali che vanno valutate anche in base ai
nuovi trattamenti con farmaci target;
o il ricorso ad un assistenza metodologica per valutare l’impatto dei
programmi attuati.
In conformità con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità, in Italia si sono iniziate a sviluppare azioni di ricerca al fine
di elaborare, disporre e valutare i benefici derivanti dai programmi di
educazione del paziente specifici all’ambito oncologico. In particolare, si
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stanno diffondendo alcuni programmi di educazione incentrati sul
dolore, sulla fatigue, sull’alimentazione.
La sfida è quella di affiancare con gradualità la persona affetta da tumore
con l’obiettivo di sostenerla, informarla e incoraggiarla, fino ad arrivare
ad un’azione educativa più ampia che conduca la persona e i suoi
caregiver a farsi carico dei problemi di salute che li riguardano, per
quanto possibile in ambito oncologico.
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Capitolo I
LA CRONICITÀ IN ONCOLOGIA
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1.1 CON-VIVERE CON IL TUMORE
Cancro: una parola che fa paura.
Nel XXI secolo, l’epoca della nanotecnologia, della completa decodifica
del genoma umano e del superamento della velocità della luce, questa
patologia ci lascia ancora deboli ed insicuri, non solo perché continua a
mietere vittime nonostante i grandi progressi della medicina, ma
soprattutto per il fatto che nell’immaginario collettivo venga considerata
la più grande sciagura che possa capitare ad un individuo e alla sua
famiglia; tutto questo nonostante il fatto che la prima causa di morte in
assoluto nella nostra società siano le malattie cardiovascolari.
Cosa contribuisce a dare questa fama negativa al tumore?
Succede spesso di sentir dire ad un paziente affetto da cancro che la
diagnosi gli ha cambiato la vita, non solo per le grandi difficoltà ad
adattarsi ai tempi e agli effetti collaterali delle cure, ma anche perché la
scoperta di avere un tumore gli ha fatto scoprire di essere vulnerabile ed
impotente di fronte a certe situazioni.
In Italia, dopo le malattie cardiovascolari, i tumori, sono al secondo
posto fra le grandi cause di morte. Ogni anno si ammalano di tumore in
Italia circa 250.000 persone e 150.000 ne muoiono. Complessivamente
un milione e mezzo sono le persone affette da questa malattia,
includendo i nuovi casi, i pazienti guariti o in trattamento. L’incidenza
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della patologia tumorale è però in costante aumento, principalmente a
causa dell’invecchiamento della popolazione, dell’allungamento della
vita media, ma anche dell’esposizione a fattori di rischio e a sostanze
cancerogene, note o meno.
Il cancro ha quindi una grande rilevanza sociale e un formidabile impatto
emotivo a livello individuale. La diagnosi di cancro non tocca solo il
malato, ma anche il suo nucleo familiare e la sua vita di relazione. L'idea
- presunta o reale - di un futuro di sofferenza e morte è certamente
destabilizzante per l'equilibrio psicofisico sia del malato che dei suoi
mentali positive. Inoltre, non è infrequente che, anche nei casi di
guarigione, i controlli clinici si protraggano per il resto della vita. In altri
termini, quando il granchio ti prende, non ti molla più! Tutto ciò
condiziona pesantemente la qualità della vita di chi ne è colpito. Nel
documento dell'Oms dedicato all'educazione terapeutica (1998) viene
fornito un elenco di malattie in cui sarebbe auspicabile lo sviluppo di
attività di educazione terapeutica del paziente. L'elenco comprende,
ovviamente, anche il settore oncologico (es. pazienti mastectomizzate,
portatori di stomie). Gli interventi di educazione terapeutica di tipo
formale del paziente oncologico sono tuttavia in una fase iniziale di
sviluppo e le esperienze significative riportate in letteratura sono ancora
molto poche.
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L'impatto negativo della diagnosi di cancro, con i frequenti meccanismi
di difesa e di negazione, uniti ai sentimenti di perdita di significato e di
progettualità per il futuro, favoriscono un ruolo passivo e di dipendenza
del paziente; il malato si trova poi spesso a vivere in uno stato di cronica
crisi, che altera le sue capacità decisionali. La relazione è
inevitabilmente asimmetrica e sbilanciata a favore del curante, che
quindi tende a preferire attività destinate a istruire il paziente secondo un
approccio centrato sul medico; molto più difficile è realizzare interventi
di educazione terapeutica progettati secondo un approccio centrato sul
paziente. A tale scopo, oltre a definire la problematica bio-clinica (che
cosa ha il paziente?), è utile avvalersi di appositi strumenti di diagnosi
educativa per esplorare la sfera cognitiva (che cosa sa il paziente?),
psico-affettiva (chi è?) e socio-professionale (che cosa fa?). Inoltre è
importante capire quali possano essere le barriere e gli ostacoli al
coinvolgimento attivo e quali possano essere i fattori e i momenti più
favorevoli all'apprendimento; valutare le potenzialità di apprendimento, i
punti forti e i punti deboli del paziente, cercando inoltre di scegliere, tra
le persone che gli vivono accanto, chi possa essere di maggiore aiuto.
L'indagine psicologica dovrebbe integrare quella pedagogica.
L'intervento psicologico, individuando idee, paure, pregiudizi e
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aspettative del paziente, può servire a creare le condizioni più favorevoli
all'apprendimento.
In conclusione, qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle
terapie, non esistono tumori di scarsa rilevanza. Il cancro infatti
rappresenta sempre, per il paziente e per la sua famiglia ma anche per i
terapeuti, una prova esistenziale sconvolgente. Questa prova riguarda
tutti gli aspetti della vita: il rapporto con il proprio corpo, il significato
dato alla sofferenza, alla malattia, alla morte, così come le relazioni
famigliari, sociali, professionali. Il trattamento del paziente oncologico
deve avere tra gli obiettivi quello di migliorare la qualità della vita e di
limitare il rischio di conseguenze psicopatologiche tali da condizionare
la vita futura del malato.
Molto spesso il paziente malato di cancro esprime dei bisogni
apparentemente secondari che non sono riconducibili alla cura della
malattia ma che trascendono l’atto medico/infermieristico in senso
stretto.
Va tenuto presente che per almeno la metà dei pazienti in cura presso un
reparto di oncologia non si potrà considerare la guarigione come
l’obiettivo primario, e che le terapie antiblastiche più recenti ed efficaci
hanno come obiettivo precipuo la “cronicizzazione” della malattia
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cancro; risulta evidente che l’approccio globale al paziente deve quindi
tener conto anche di molti altri aspetti, come una corretta alimentazione,
un adeguato stile di vita, sino alle esigenze più soggettive o spirituali che
possono necessitare di tecniche di rilassamento, fisioterapia riabilitativa,
massaggi, aromaterapia finanche alla musicoterapia.
1.2 IL MALATO ONCOLOGICO E I SUOI FAMILIARI
La scoperta e l’avanzamento della malattia neoplastica, oltre a produrre
gravi ripercussioni psicologiche sull’ammalato, determina un profondo
coinvolgimento emozionale nei familiari. è frequente che il familiare
risenta di:
• uno stato di profondo abbattimento per la futura morte del malato;
• un senso di colpa legato all’impotenza per non riuscire ad arrestare
la progressiva evoluzione della malattia;
• preoccupazioni per i possibili cambiamenti economici;
• un isolamento da parte di amici, conoscenti, vicini;
• un crollo psicofisico causato dall’assistenza estenuante.
L’assistenza deve rispettare le decisioni della famiglia e quindi evitare
comportamenti che insinuino dubbi e perplessità nel malato. Nel caso del
paziente consapevole di tutto, ci si trova di fronte ad una persona che
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mette in atto diversi meccanismi di difesa
fin tanto che non arriverà
all’accettazione della diagnosi di cancro. I meccanismi che possono
essere messi in atto, per quanto riguarda l’ambito oncologico in genere,
sono il rifiuto, la collera, il venire a patti cioè la ricerca di compromessi,
la depressione dapprima reattiva poi preparatoria, l’accettazione e infine
la speranza.
Quindi è chiaro che anche la famiglia subisce gli effetti sia della
prognosi infausta sia della reazione del malato-familiare. Il nucleo stretto
deve ricercare un nuovo equilibrio che non escluda il malato, ma che
permetta ai parenti di proseguire una vita “normale”. L’operatore si trova
ad assistere il paziente e la sua famiglia su due livelli diversi uniti però
nel percorso comune di lotta contro il tumore. L’infermiere, o un altro
membro dell’equipe, deve essere in grado di fornire supporto e offrire la
propria competenza e professionalità per una relazione d’aiuto efficace,
che permetta l’espressione dei bisogni e dei disagi, allo scopo di
accompagnare nel migliore dei modi il paziente durante il decorso della
malattia. Trasmettere empatia non significa compatire il malato e la sua
famiglia, ma significa comprenderli ed esprimere loro la propria
vicinanza, la propria disponibilità e il proprio essere loro vicino in questo
difficile momento.
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1.3 RELAZIONE D’AIUTO COME PRATICA DELL’ASSISTENZA
INFERMIERISTICA
La relazione d’aiuto è una relazione professionale nella quale una
persona viene assistita per operare un adattamento personale a una
situazione verso cui l’individuo non è riuscito ad adattarsi normalmente.
Affinché ciò si realizzi è necessario che chi aiuta sia in grado di
comprendere il problema nei termini e nei modi in cui si pone per quella
persona, e di guidarlo nel raggiungimento di un miglior adattamento
all’ambiente familiare e sociale.
Elemento fondamentale della relazione d’aiuto è la relazione empatica.
Per empatia si intende la capacità di porsi in comunicazione emotiva con
l’altro, di immedesimarsi nello stato d’animo o nella situazione vissuta
da un’altra persona, con poca o nessuna partecipazione emotiva: in
poche parole è la capacità di sentire e vedere la realtà come la sente e la
vede il soggetto con cui si viene a stretto contatto.
La relazione empatica è alla base dell’assistenza infermieristica, poiché
l’infermiere instaura fin dall’accoglienza una relazione con il paziente: il
cercare di comprendere fino in fondo il paziente è fondamentale per
capire i suoi bisogni e fornire un’assistenza adeguata.