5
un contesto altamente competitivo, è opportuno capire se questa politica deve essere:
proseguita, rinnovata, quali energie dedicarvi e quale ruolo devono avere le istituzioni
locali. Questo ruolo deve essere ricercato all’interno di uno scenario dove lo sviluppo
economico si diffonde, in parte a causa dei differenziali salariali tra paesi ricchi e
poveri, con la conseguente riduzione della disuguaglianza nella distribuzione mondiale
della ricchezza. Ma, considerando che il livellamento non può avvenire esclusivamente
verso l’alto, per contrastare la possibile diminuzione di ricchezza i paesi avanzati
devono continuare a conquistare vantaggi competitivi non imitabili dai paesi a bassi
salari, legati alla innovazione dei prodotti e dei processi realizzabile attraverso un
sistema produttivo altamente sofisticato. Non si tratta di produrre solamente nei settori
ad alta tecnologia, bensì di innalzare il livello tecnologico di tutte le produzioni nelle
quali si vuole continuare ad operare.
Si rende quindi necessario promuovere la realizzazione di politiche coordinate di
sviluppo locale con una promozione dei territori, quest’ultimo pensato come prodotto
da usare, da mantenere e da sviluppare. Tali iniziative hanno come obbiettivo primario
il miglioramento del benessere locale, sia dal punto di vista economico, ambientale e
sociale.
Da queste considerazioni possiamo iniziare un’analisi dello sviluppo economico
dell’area modenese con particolare attenzione alla politica delle aree. Per non limitare
il discorso ad un semplice resoconto storico, si è suddiviso il documento in tre parti.
Una prima parte introduttiva, con un primo capitolo dove si verifica il percorso di
sviluppo dell’industria nazionale e locale. Una seconda parte, di tipo storico, che si
riferisce alla politica delle aree dal dopoguerra ad oggi. Infine, la terza parte riguarda le
possibilità degli enti locali di incentivare la qualità, l’innovazione e il rispetto
dell’ambiente. Questo sempre in relazione alle possibilità dell’ente locale di condurre
una politica di controllo sulla gestione delle aree produttive.
6
PRIMA PARTE
LO SVILUPPO INDUSTRIALE IN ITALIA
8
Cap. 1 PICCOLA INDUSTRIA E SPECIFICITA’ DELL’AREA
MODENESE
1. Alcuni elementi dello sviluppo economico Italiano
Molti autori ricordano che nel secondo dopo guerra l’Italia ha avuto uno sviluppo
economico considerevole
3
, non sembrano esserci dubbi che questo sia stato
condizionato dalla situazione di partenza dell’economia Italiana. Il divario tra le
strutture produttive, tecnologiche e socio istituzionali Italiane e quelle dei paesi di più
antica industrializzazione, all’indomani del secondo conflitto mondiale, era rilevante
4
.
Alcuni autori lo hanno stimato in circa venti anni
5
, mentre altri lo hanno legato a quello
ancora più grande, con il quale lo sviluppo industriale dell’economia Italiana è iniziato.
Come cita Paolo Sylos Labini “In Italia il moderno processo di sviluppo, trascinato
dall’industria, comincia molto più tardi che in Inghilterra (circa un secolo dopo); e in un
primo momento tale processo si svolge prevalentemente nel Nord, ed anzi in poche
regioni settentrionali”
6
.
Uno degli aspetti chiave legati alla situazione di ritardo dell’economia italiana è
quello associato alla presenza di dualismo geografico, dimensionale e settoriale. Vera
Lutz ne ha fornito una spiegazione individuando come fattore determinante le
imperfezioni del mercato del lavoro Italiano
7
. Secondo la Lutz la forza dei sindacati era
molto superiore a quanto le condizioni del mercato del lavoro consentisse, ciò provoco
livelli salariali superiori a quelli di equilibrio. La forza sindacale si esprimeva soprattutto
nella grande industria, per questo, secondo l’autrice, si formò un differenziale salariale
che ostacolò la crescita della grande impresa. In base a questo schema interpretativo,
3
A.Rinaldi, “Distretti ma non solo L’industrializzazione della provincia di Modena (1945-1995)”, 2000 - M. Di
Palma, M.Carlucci, “L’evoluzione dei principali aggregati economici nell’ultimo cinquantennio, in M.Arcelli (a
cura di)“Storia, economica e sociale in Italia 1947-1997” 1997 -
4
D.Archibugi-R.Evangelista “Tecnologia e sviluppo economico in Italia” 1993, in Economia e Politica Industriale,
Rassegna trimestrale diretta da Sergio Vacca.
5
Fuà G. (a cura di), “Lo sviluppo economico in Italia: storia dell’economia italiana negli ultimi cento anni ” 1969.
6
Sylos Labini P. “Problemi dello sviluppo economico” 1970, p.164.
9
la grande impresa avrebbe trovato negli alti salari un vincolo alla espansione, ed un
incentivo alla adozione di tecnologie ad alta intensità di capitale. La grande impresa
sarebbe quindi giunta ad elevati livelli di efficienza tecnologica, ma con una situazione
di fatto incoerente con il contesto economico dei primi anni del dopoguerra, dove si
trovava scarsità di capitali e abbondanza di manodopera. L’eccedenza di forza lavoro
si sarebbe riversata nelle piccole medie industrie, provocando un abbassamento dei
livelli salariali e l’ingresso nel mercato di imprese marginali per dotazione tecnologica.
Altri autori come Fuà
8
e Sylos Labini, sottolineano che i fenomeni del dualismo
sono presenti nelle fasi iniziali dello sviluppo industriale di qualsiasi paese. Inoltre
Sylos Labini individua alcune particolarità del dualismo nei paesi che iniziano in ritardo
il processo di industrializzazione. In particolare tale autore sottolinea “le economie
ritardatarie nello sviluppo si trovano di fronte a vantaggi e svantaggi di tipo particolare
nell’avviare un processo di espansione industriale. I vantaggi sono rappresentati dalla
facilità di accedere immediatamente a tecnologie e a metodi organizzativi efficienti e
moderni, ai quali le regioni e i paesi ora sono pervenuti attraverso una costante
evoluzione. Gli svantaggi sono rappresentati da tre ordini di “salti”. Il salto tecnologico,
il salto del mercato ed il salto che potremmo chiamare imprenditoriale”
9
.
Kindleberger
10
sostenne che la possibilità che si ebbe in Italia di aumentare la
manodopera nel settore industriale (moderno), senza aumento del costo del lavoro, fu
dovuta dalla forza lavoro in eccesso nel settore agricolo (tradizionale). Nel settore
tradizionale, secondo Kindleberger, produttività marginale del lavoro era pari a zero ciò
provocò una rapida industrializzazione, con l’aumento di forza lavoro per il settore
moderno senza incremento di costo.
7
V.Lutz “Italy: a study in economic development”, 1962.
8
Fuà G. “Sviluppo ritardato e dualismo” 1977
9
Sylos Labini P. “Problemi dello sviluppo economico” 1970, p165
10
C.P.Kindleberger “Lo sviluppo economico europeo e il mercato del lavoro” 1968
10
Altri sostennero che la crescita della domanda globale dipese dagli investimenti,
Ackley pensa agli investimenti statali
11
mentre Silva e Targhetti agli investimenti
privati
12
.
Graziani individuò come elemento fondamentale dell’industrializzazione le
esportazioni. Descrivendo due tipi di produzione, una rivolta al mercato interno con
beni tradizionali, l’altra al mercato esterno con beni tecnologicamente avanzati per
soddisfare la domanda dei paesi più sviluppati
13
.
Dopo gli anni settanta si comincia però a considerare una situazione Italiana più
diversificata, rispetto al sistema duale. Bagnasco e Messori
14
individuano una terza
Italia, diversa sia dal sud arretrato sia dalle regioni che compongono il triangolo
industriale. Secondo gli autori lo sviluppo di questa terza Italia può essere spiegato
con la teoria del ciclo di vita del prodotto. Le produzioni mature si sarebbero spostate
dal triangolo industriale, che si specializza nelle produzioni avanzate, verso le regioni
centrali.
Lo studio delle regioni centrali e della così detta terza Italia ha avuto un contributo
importante da Giacomo Becattini
15
. Egli individuò una relazione di questi sistemi
produttivi con il distretto industriale Marshalliano, dove, per alcuni settori, le economie
di scala diventano poco rilevanti. Si riscontravano molti più vantaggi nell’avere un
raggruppamento di imprese specializzate, dove si riscontrava una rapida circolazione
delle idee innovative e delle informazioni importanti per la realizzazione degli scambi,
rispetto alla produzione attraverso grandi fabbriche.
11
Investimenti nel settore agricolo, edilizio e dei trasporti. G.Ackley “Un modello econometrico dello sviluppo
italiano nel dopoguerra” 1963
12
Soprattutto con la diffusione in Italia di nuovi beni di consumo che necessitavano di produzioni ad elevata
intensità di capitale. F.Silva F.Targhetti “Politica economica e sviluppo economico in Italia 1945-1971” in
Monthly Review
13
A.Graziani (a cura di) “lo sviluppo di un’economia aperta” 1969
14
A.Bagnasco, M.Messori (a cura di) “Tendenze dell’economia periferica” 1975
15
G.Becattini “Riflessioni sul distretto industriale Marshalliano come concetto socio economico” 1989
11
Negli anni 90, come ci ricordano Bramanti e Maggioni
16
, si affacciarono idee di
possibili crisi dell’organizzazione distrettuale. Tale crisi si pensava che si evidenziasse
nei distretti incapaci di governare i processi di internazionalizzazione. Gli studiosi si
spostano, quindi, ad una visione di presenza simultanea delle due dimensioni locale e
globale, in questa nuova dimensione, gli autori sopracitati vedono un possibile
superamento del modello distrettuale.
Con il distretto industriale il ruolo del territorio è centrale, ed in questa centralità è
necessario per i sistemi produttivi locali, essere competitivi con la propria area a livello
internazionale. Competitività del territorio intesa nel senso ampio del termine, tenedo
conto di tutte le risorse economiche, sociali ed etiche che il sistema locale riesce ad
esprimere.
2. Sistemi locali
Il contributo delle piccole imprese alla crescita, alla innovazione e alla creazione di
posti di lavoro
17
è notevole, non possiamo dunque parlare di sviluppo ritardato, ma di
sviluppo diverso rispetto a quello neoclassico. L’importanza delle piccole medie
industrie è riconosciuta anche a livello internazionale, gli accordi comunitari di
Maastricht e dal Libro Bianco di Jacques Delors tra le altre cose assumono
esplicitamente l’obbiettivo di favorire la crescita dei sistemi di piccole e medie imprese.
Recentemente, nella conferenza di Bologna i ministri e i rappresentanti di 46 paesi
hanno adottato il 15/06/2000 “La carta di Bologna sulle politiche concernenti le PMI”
dove si riconosce un ruolo centrale delle piccole medie imprese per la crescita
economica.
16
A. Bramanti M.A. Maggioni “Struttura e dinamica dei sistemi territoriali: un’agenda di ricerca per l’economia
regionale” 1997 in A.Bramanti M.A. Maggioni (a cura di) “La dinamica dei sistemi produttivi territoriali: teorie,
tecniche, politiche”
17
Negli ultimi cinque anni le PMI sono state all’origine di oltre l’80% dei nuovi posti di lavoro (European SME
co-ordination unit, CEC, 1999).
12
Nella crescita dei distretti industriali le specificità locali sono l’elemento
indispensabile per capirne i percorsi di sviluppo. E’ possibile definire dei punti
fondamentali dello sviluppo dei sistemi locali, rimandando alla letteratura di riferimento,
ovvero agli scritti di Brusco, Becattini, Bagnasco, Sabel, Rullanti e Vacca, per
un’analisi approfondita di un dibattito molto ampio. Tali punti riguardano gli equilibri
che si creano in ogni distretto tra il sapere scientifico e il sapere operativo, tra
competizione e collaborazione fra imprese, fra conflitti con i lavoratori e partecipazione
dei lavoratori.
Il primo punto sottolinea che non solo il sapere teorico, cioè quello codificato,
racchiuso in un linguaggio definito nelle riviste scientifiche e nei libri di testo, è alla
base dell’innovazione, ma anche quello pratico, cioè quello tacito che deriva
dall’esperienza delle persone che sono capaci di produrre merci e servizi vendibili.
Il secondo equilibrio riguarda un sistema basato sulla concorrenza tra imprese, che
nel processo produttivo di un bene coinvolge più aziende con diverse specializzazioni
o che si rivolgono a mercati diversi, instaurando rapporti che in certi casi diventano
collaborativi e duraturi.
Infine, il coinvolgimento della risorsa umana nel processo produttivo è
fondamentale per lo sviluppo aziendale, nella qualità e innovazione dei prodotti. Tale
coinvolgimento è possibile in un contesto sociale che riconosce l’uguale dignità delle
persone, dove le opportunità di lavoro sono molte e ci sono possibilità di intraprendere
attività di lavoro autonomo.
Non dobbiamo pensare ad un sistema ideale, ma ad un sistema dove ci sono forze
di segno opposto alla ricerca di un continuo equilibrio, sulla base di regole di
comportamento definite dalla storia passata.
A questi elementi deve essere aggiunto che in Italia sia la sinistra che la
democrazia cristiana hanno a lungo difeso, soprattutto nella legislazione civilistica e
13
fiscale, le piccole imprese
18
. La sinistra, che vedeva in queste entità minori degli alleati
contro il capitale monopolistico, e, la democrazia cristiana che considerava la piccola
impresa come l’espressione della operosità della società civile, delle comunità locali e
delle famiglie, dove sopravvivono i valori tradizionali, da difendere contro la
modernità
19
.
Definito che i distretti non sono sistemi economici arretrati, ma diversi, e che il
cambiamento più radicale del panorama economico della fine del 20° secolo è stato
probabilmente il passaggio dell’attività economica dalla sfera locale o nazionale, a
quella internazionale o mondiale. Ci si chiede quale percorso di sviluppo devono
seguire i sistemi locali. Le strategie da seguire da parte dei paesi con elevati costi di
produzione di fronte alla maggiore competitività di costo di alcuni paesi emergenti sono
di cinque tipi
20
:
1 non cambiare nulla e incorrere in perdite di redditività e di quote di mercato;
2 ridurre i salari e altri costi di produzione a livelli tali da competere con i produttori
esteri a bassi costi;
3 sostituire la manodopera con attrezzature e tecnologie per aumentare la
produttività;
4 delocalizzare la produzione verso i centri più vantaggiosi;
5 passare ad attività economiche di know-how.
Se la prima strategia ha evidentemente degli effetti negativi, anche strategie di
ristrutturazione che hanno optato per le alternative 2, 3 e 4 hanno risvolti socialmente
non condivisibili. La riduzione salariale permette di mantenere, o per lo meno di ridurre
al minimo, le perdite di posti di lavoro. Tuttavia, il prezzo da pagare sono livelli di
18
Art.2083-2202-2214-2221 del Codice Civile; L.443 del 08/08/1985 “Legge quadro sull’artigianato”
19
Brusco S. e Paba S. (1997) “Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni
novanta” in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi.
20
Conferenza dei Ministri – Bologna 12 e 15 giugno 2000 – workshop 1 “Innovazione delle PMI nell’economia
globale” redatto da Bénédicte Callan e Jean Guinet
14
qualità della vita inferiori. La sostituzione di manodopera con capitale o tecnologia e la
delocalizzazione, producono disoccupazione. Tra il 1979 e il 1995 negli Stati Uniti tali
ridimensionamenti sono costati 43 milioni di posti di lavoro
21
.
Dato lo spostamento del vantaggio competitivo verso un’attività economica basata
maggiormente sulle conoscenze, sembrerebbe logico che le piccole e medie imprese
siano destinate a scomparire. In realtà però, la quota dell’attività economica di
competenza delle piccole e medie imprese è aumentata
22
. Vi sono quindi le possibilità
per le piccole e medie imprese di adottare strategie rivolte all’innovazione atte a
mantenere, o addirittura a migliorare, la propria competitività in un’economia globale.
3 Modena
All’interno del quadro nazionale, la provincia di Modena è inserita nel contesto
geografico produttivo formato dalle regioni del Centro-Nord, che hanno avuto una
crescita industriale rapida e di vaste proporzioni. Questo sviluppo ha raggiunto ormai
da alcuni anni livelli paragonabili al bacino produttivo tradizionalmente più forte,
rappresentato dal cosiddetto triangolo industriale (Lombardia, Piemonte, Liguria). In
particolare l’Emilia Romagna aveva già nel 1991 indici di industrializzazione che la
collocavano tra le regioni definite forti ad evoluzione positiva nel sistema nazionale
23
.
In questo contesto si trovano ad operare diversi settori industriali, alcuni
classificabili come distretti industriali. L’Istituto di Promozione Industriale classifica
ventiquattro distretti industriali in Emilia Romagna, di cui cinque in provincia di
21
“The Downsizing of America,” New York Times, 3 marzo, 1996, p. 1 citato in. Bénédicte Callan e Jean Guinet
workshop 1 “Innovazione delle PMI nell’economia globale” Conferenza dei Ministri – Bologna 12 e 15 giugno
2000.
22
Negli ultimi cinque anni le PMI sono state all’origine di oltre l’80% dei nuovi posti di lavoro (European SME
co-ordination unit, CEC, 1999).
23
G.Bianchi “Requiem per la terza Italia?”, in atti della XIII Conf. Italiana di scienze regionali, 1992
15
Modena. Di questi cinque quello numericamente più imponente è il distretto meccanico
del capoluogo con un numero di addetti e di unità locali superiore a tutti gli altri
24
.
Per una definizione più puntuale delle attività svolte nella provincia, possiamo
individuare cinque tipologie di industrie
25
: l’industria agro-alimentare, l’industria
metalmeccanica, l’industria ceramica, l’industria biomedicale, l’industria tessile e
dell’abbigliamento. Lo sviluppo di queste attività industriali deve essere ricercato nelle
sue connessioni con le attività manifatturiere preindustriali.
Queste connessioni sono considerate dagli studiosi in maniera diversa e non
conclusiva, possiamo quindi riportare soltanto alcune considerazioni.
Paci
26
, individuò nelle capacità imprenditoriali sviluppate dai mezzadri il principale
elemento che consentì l’industrializzazione della Terza Italia. Ma come ci fa notare
Rinaldi
27
, questa teoria non è applicabile alla situazione modenese, dove le attività
imprenditoriali vennero intraprese soprattutto da ex operai.
Anche la tesi di F.Mendels, richiamata da Rinaldi (2000), con un processo di
industrializzazione diviso in due fasi, è applicabile solo in alcuni settori dell’area
Modenese. Mendels individuò: una fase di proto-industrializzazione e una fase con la
fabbrica organizzata. La base della teoria è quindi la manifattura a domicilio, che sotto
la spinta dei costi di trasporto e di controllo, si trasforma in lavorazione in fabbrica.
Nell’area modenese la teoria può essere applicata solo al settore tessile di Carpi, il
quale deriva dalla esperienza preesistente della lavorazione del trucciolo
28
.
Quindi, come vedremo nei capitoli successivi, è stata fondamentale l’esistenza di
un sistema di valori comuni, maturato con la lotta di liberazione, con i successivi
consigli di gestione delle fabbriche e con l’adesione ad una politica di rinnovamento
24
Elaborazione IPI su dati ISTAT, Distretto meccanico di Modena 36.086 addetti con 4.028 unità locali ; Distretto
ceramico di Sassuolo 34.067 addetti con 2.069 unità locali.
25
A.Rinaldi, “Distretti ma non solo – L’industrializzazione della provincia di Modena (1945-1995)”, 2000
26
M.Paci “La struttura sociale Italiana,costanti storiche e trasformazioni recenti” 1982
27
A.Rinaldi, “Distretti ma non solo – L’industrializzazione della provincia di Modena (1945-1995)”, 2000
16
portata avanti dal PCI locale.Questi elementi portano alla formazione di un ceto
imprenditoriale di estrazione popolare, con legami stretti con l’ambiente locale
29
.
Oltre a queste considerazioni dobbiamo ricordare che Modena ha avuto uno
sviluppo caratterizzato, non solo dai distretti industriali, ma piuttosto, dalla presenza
dai sistemi produttivi diversi che interagivano e interagiscono tra loro.
Sarebbe quindi, più corretto parlare di localismo, cosi come ci ricorda Carminucci,
responsabile del settore economico del Censis, nella tavola rotonda sui distretti
industriali tenutasi a Modena nel 1993
30
. Localismo che Becattini definisce come una
categoria concettuale probabilmente più larga rispetto a quella di distretto industriale
marshaliano, il localismo vuole sottolineare l’elemento di integrazione territoriale tra i
diversi sistemi, culturale, sociale, istituzionale e produttivo. Nella formazione di questo
sistema integrato uno degli elementi è la politica degli enti locali e delle altre istruzioni
intermedie. A Modena, come vedremo e come ci ricorda Pinto
31
, già dal dopo guerra il
comune ha attivato, da un lato delle iniziative per migliorare i servizi sociali, per
garantire un livello accettabile di benessere a tutti; dall’altro degli interventi più specifici
a sostegno della piccola media impresa. Nello specifico sono state intraprese politiche
delle aree e delle infrastrutture che hanno anticipato di circa venti anni i primi interventi
legislativi sui PIP (Piani Insediamenti Produttivi).
28
L.Cicognetti M.Pezzini “Dalle paglie alle maglie. Carpi la nascita di un sistema produttivo” in D’Attore
V.Zamagni (a cura di ) “Distretti”
29
A.Rinaldi, “Distretti ma non solo – L’industrializzazione della provincia di Modena (1945-1995)”, 2000
30
Comune di Modena “Distretti Produttivi e politiche pubbliche” Atti della tavola rotonda insediamenti produttivi
e sviluppo economico “il caso Modena” 1993
31
Comune di Modena “Distretti Produttivi e politiche pubbliche” Atti della tavola rotonda insediamenti produttivi
e sviluppo economico “il caso Modena” 1993
18
SECONDA PARTE
POLITICA DELLE AREE E SVILUPPO LOCALE
20
Cap. 2 PIANIFICAZIONE E ACQUISIZIONE DELLE AREE INDUSTRIALI
1. Pianificazione urbana e sviluppo delle aree industriali artigianali
In Italia solo da qualche decennio si è presa coscienza della necessità di affrontare
i complessi problemi di pianificazione urbanistica con un lavoro di équipe, con
urbanisti, economisti, giuristi e sociologi. Il piano urbanistico è lo strumento che
attraverso documenti grafici e normativi, pianifica lo sviluppo socio - economico di una
comunità, per questo, il processo evolutivo dei metodi di pianificazione urbanistica è
pervenuto ad un grado di maturazione tale da non poter prescindere dai molti
condizionamenti economici, sociologici, culturali e giuridici, che, sarebbe un gravissimo
errore sottrarre in sede operativa. La creazione di aree industriali ha sperimentato, nel
nostro paese procedure e strumenti diversi. Sino al 1942, anno di promulgazione della
legge urbanistica nazionale (L.1150/42), manca ogni strumento idoneo alla istituzione
di una zona industriale. Le città che volevano affrontare in senso più moderno i loro
problemi di assetto e sviluppo, procedono con un azzonamento funzionale con piani
che dovevano essere approvati con leggi speciali. Nello stesso periodo (1928 –1941)
nascono delle zone industriali di ispirazione economica, finalizzate alla soluzione di
problemi di sottosviluppo economico, attraverso l’insediamento di nuove aziende
industriali. Lo strumento di queste zone è un piano approvato con legge speciale, che
individua un area da assoggettare ad esproprio e su cui realizzare le attrezzature e i
servizi necessari. Chiaramente, queste zone realizzate attraverso leggi speciali, non
sono rette da principi istituzionali e di pianificazione uniformi.
Con l’entrata in vigore della L.1150/42 il ricorso a leggi speciali non cessa del tutto,
ma ha ancora qualche sporadica applicazione, sempre in ordine al raggiungimento di
specifici obbiettivi di sviluppo economico. Nelle maglie concettuali della Legge
urbanistica nazionale, lo sviluppo delle attività produttive viene preordinato attraverso
21
la semplice destinazione d’uso del suolo, e non sempre, anzi in un primo periodo
raramente, pianificata con strumenti urbanistici attuativi che definiscano le esigenze di
organizzazione e di attrezzatura dell’area prescelta.
Praticamente fino al 1967 con la Legge 765 e il D.I. 02/04/68 non si può parlare di
pianificazione di zone industriali. La zona industriale in questo contesto si sviluppa
essenzialmente per iniziativa privata, nelle maglie di una disciplina non sempre
esauriente.
Con l’emanazione della Legge 865/71, viene fornita la base giuridica per la
programmazione spaziale delle zone industriali e per la loro attuazione pubblica. Infatti
con l’art.27 della Legge 865 vengono abilitati i comuni, dotati di piano urbanistico
generale, ad attuare un piano insediamenti produttivi previa autorizzazione Regionale.
Quindi il comune si trova nelle condizioni di poter attuare le zone industriali, avendo il
potere di espropriare i proprietari delle aree interessate dal piano degli insediamenti e
il potere di assegnare i lotti industriali.
L’attuazione pubblica e la gestione delle assegnazioni, consente, di poter scegliere
le attività più idonee rispetto alle esigenze locali. Si può quindi affermare che, solo con
la L.n.865/71 si è affrontato concretamente e compiutamente il problema di realizzare
insediamenti produttivi, con lo scopo di incentivare lo sviluppo industriale e artigianale
di una zona, attraverso una corretta pianificazione tecnica, una vantaggiosa attuazione
economica e una attenta semplificazione procedurale.