tecnologia delle comunicazioni, che, in varie epoche, ha
accompagnato l’evoluzione stessa della società fino a
permearla in ogni sua espressione.
Nel primo capitolo, prima di affrontare l’argomento
“comunicazione”, abbiamo ritenuto opportuno delineare,
seppur con una visione dall’alto, il concetto di “società di
massa”, partendo dalla nascita della massa operaia della
prima rivoluzione industriale del secondo Ottocento, sino
all’avvento della società di massa contemporanea, sempre
più caratterizzata da un’immagine “narciconsumista“.
Il secondo capitolo descrive l’evoluzione delle principali
teorie delle comunicazioni di massa offrendone, seppur in
poche pagine, una lettura il più possibile chiara ed
esaustiva.
Il terzo capitolo è dedicato agli aspetti hardware della
comunicazione multimediale e, in particolare, al
fenomeno Internet, di cui si fornisce un’inedita intervista
in videoconferenza con Nicholas Negroponte.
Nella quarta parte si cercherà di chiarire il significato
del concetto “multimedialità” - troppo spesso oggetto di
“fraintendimenti” -, il suo rapporto con la formazione, la
scuola ed il mondo del lavoro. In chiusura, un cenno alla
new economy, sintomo evidente della rivoluzione digitale.
Gli aspetti pedagogici della relazione uomo-
comunicazione multimediale verranno illustrati nel
quinto capitolo, ove viene esaminato non solo il rapporto
nuove tecnologie comunicative-giovani ma anche quello,
viepiù emergente, con la terza età.
Nelle conclusioni, partendo dall’esame delle
considerazioni di taluni autori, con il supporto
dell’esperienza maturata nel corso degli studi, forniremo
un personale punto di vista sull’argomento.
CAPITOLO PRIMO
L’AVVENTO DELLA SOCIETÀ COMPLESSA
1.1 Società e cultura di massa
Quando l’inglese John Kay, nel 1733, brevettò la
navetta volante per il telaio - il meccanismo che aumentò
considerevolmente la velocità di tessitura - non
immaginava, probabilmente, quali sarebbero state le
conseguenze sociali del primo passo verso la
meccanizzazione.
La spirale economico-industriale che si sviluppò dalla
metà del secolo XVIII favorì il graduale inurbamento di
una moltitudine di persone che costituivano i singoli
gruppi sociali (le varie classi) determinati sia
dall'evoluzione del mercato, in particolare del mercato del
lavoro, sia dai rapporti di produzione e di scambio.
Il primo affacciarsi delle masse sulla scena delle
società europee indusse gli intellettuali e studiosi di fatti
sociali a formulare le teorie più diverse, sovente
contrastanti.
Il termine “massa” fu inizialmente associato ai concetti
di amorfo, magmatico, imprevedibile, pericolosamente
instabile; si trattava di un coacervo indefinito, facilmente
soggetto ad ogni sollecitazione, pronto a seguire intriganti
demagoghi recependone istintivamente le parole d’ordine
abilmente propalate.
La grande maggioranza degli intellettuali borghesi del
secondo Ottocento era preoccupata e non nascondeva il
timore che “…l’avvento delle masse potesse sconvolgere in
modo irreparabile l’ordine costituito, facendo entrare in
crisi la cultura tradizionale…”
1
.
Ne conseguì la trasformazione dei giudizi culturali in
una vera e propria critica politico-ideologica pregiudiziale
contro l’ascesa delle masse tout court, insieme con
l’esaltazione della cultura tradizionale e dei modelli di
comportamento della ordinata società borghese, in
contrapposizione alle potenzialità distruttive che l’avvento
delle masse sembrava comportare.
1
Statera G., Società e comunicazioni di massa, Palumbo, Palermo,
1993, pag. 3.
Il termine “massa” ebbe invece una connotazione
fondamentalmente positiva fra quanti, in vario modo,
rifacendosi a concezioni di tipo socialista, intravedevano
le potenzialità progressive e rivoluzionarie insite nelle
nuove condizioni sociali e strutturali, che sembravano
favorire l’avvicinamento di vasti strati di popolazione
dall’estrema periferia verso la città.
La contrapposizione fra denigratori ed esaltatori della
“massa” si perpetua nel Novecento, trasferendosi
progressivamente nell’area delle “teorie della società di
massa” e, quindi, nelle diverse prospettive di ricerca
empirica intorno alla comunicazione di massa, alle sue
caratteristiche e ad i suoi effetti.
Le dinamiche che delineano la società di massa sono
fondamentalmente di tipo strutturale, ma sono gli aspetti
culturali e psicologici che la caratterizzano.
Se l’industrializzazione e l’economia di mercato hanno
favorito la società di massa, per una definizione più
approfondita bisogna tenere presente, in primo luogo, la
cultura, i modelli di comportamento e quindi quelle
motivazioni all’agire conformi alle prescrizioni della
cultura societaria.
La cultura, quindi, diviene modello definente della
società di massa, fattore casualmente rilevante in
rapporto all’evoluzione delle strutture sociali stesse, in
particolare nei riguardi dei consumi e del conformismo.
La Arendt sostiene che “…la principale differenza fra
società e società di massa consiste forse nel fatto che la
società voleva cultura, valutava e svalutava gli oggetti
culturali traducendoli in vantaggi sociali, ne usava ed
abusava in funzione delle proprie esigenze, ma non li
‘consumava’. Anche nelle forme più abusate, questi
oggetti restavano oggetti; non venivano ‘consumati’ e
dissipati, ma mantenevano la loro propria oggettività
universale. La società di massa, invece, non vuole cultura
ma svago; e le merci offerte dall’industria dello svago
vengono consumate come ogni altro bene di consumo…”
2
.
2
Arendt H., Society and Culture, in N. Jacobs (ed.), Culture for the
Millions. Mass Media in Modern Society, Beacon Press, Boston,
1959, p.46.
1.2 Il “Welfare”
Nel 1960 l’Italia ha 50.045.000 abitanti, di cui il 38,7%
(19.367.000) attivi (di questi, il 29,1% in agricoltura, il
40,6% nell’industria, il 30,3 % nei servizi).
E' l'anno del "miracolo economico" dove gli occupati
nell'industria hanno già superato, da tempo, e per la
prima volta, gli addetti all'agricoltura ed un nuovo
settore, quello dei servizi, si affaccia all’orizzonte. Il PIL (+
8,3) è il più alto della storia d'Italia.
E' anche il periodo della migrazione interna massiccia,
che provoca nel Sud squilibri demografici epocali. Milioni
di persone in età da lavoro, la migliore risorsa umana,
abbandonano le campagne e spopolano i paesi per salire
nel triangolo industriale del Nord e nella Capitale.
Parallelamente, si verifica una forte emigrazione
all’estero.
L’Italia che lavora è anche l’Italia del “Welfare”, dei
primi viaggi in “Cinquecento” o in “Seicento”, oppure in
“Vespa”: tutti sono liberi di muoversi e di respirare quel
clima di diffuso “benessere”. Gli stessi emigranti, quando
fanno ritorno nei paesi d’origine per trascorrere le
vacanze, portano con sé la “cultura” dello svago e del
consumo.
Ed è proprio l’industria dello svago e dei beni di
consumo su larga scala che, negli anni ’60, diviene
volano di sviluppo economico e di condizioni di vita
migliori.
Essa è indirizzata verso una sola direzione: acquistare
auto, moto, scooter, frigo, TV, radio, mobili, (il possesso
della TV nelle famiglie italiane passa dal 12% al 50%, del
frigorifero dal 12% al 58%, della lavatrice, dal 3% al 25%,
il numero delle automobili da 300.000 a 4.800.000,
quello dei motocicli da 700.000 a 5.000.000) e correre al
mare in vacanza, dove gli “albergatori”, offrono una
pensione completa a 600 - 1000 lire al giorno”
(www.cronologia.it). All'albergo “Nuova Rimini” di Corso
XXIII settembre, si paga 600 lire, e ancora nel 1972 un
giorno di pensione costa appena 1200 lire (Dall' Annuario
Enit).
Tutto ciò si verifica sullo sfondo di un “modello
americano” che, dopo la seconda guerra mondiale, ha
influenzato per lungo tempo lo sviluppo della società
moderna italiana.
Le trasmissioni dei programmi della RAI-TV
raggiungono già un folto pubblico. “Il 16 agosto 1960,
Antonio Ciampi, direttore della Siae, fa conoscere con un
annuario di statistica che gli italiani hanno aumentato la
spesa per gli spettacoli del 130 per cento negli ultimi
dieci anni, e che le famiglie italiane comperano in
quell’anno 1500 televisori al giorno” (www.cronologia.it).
Chi non dispone ancora di un televisore segue i
programmi o in locali pubblici o a casa di amici. Nel ’69,
le immagini in diretta dell’astronauta americano Neil
Armstrong, il primo uomo a calpestare il suolo lunare,
commentate da Tito Stagno, fanno vivere a tutti intense
emozioni. Quelle immagini sono già un segnale forte di
quello che sta per accadere.
Mentre l’Italia continua a seguire l’”esempio
americano”, è già sotto gli occhi di tutti l’enorme distanza
tra il modello di riferimento e la realtà. Quella distanza è
sempre aumentata, fino a far scomparire all’orizzonte un
obiettivo impossibile da conseguire.
Dal ’68 in poi, gli anni sono segnati dal difficile
momento attraversato dagli USA (la sconfitta in Vietnam,
la stagnazione economica, la paura dell’esaurimento delle
risorse naturali) che si riflette anche in Europa.
Il ’68 è un anno detonatore per tutto il mondo. La
contestazione giovanile si propaga contagiando tutta
l'Europa, travolgendo le vecchie strutture e i sistemi di
pensiero acquisiti.
Sono gli anni della "rottura" anche in Italia. Riformismi
malaccorti, cedimenti a interessi corporativi e
comportamenti, anche irrazionali, poggianti su un
utopistico marxismo-maoismo determinano una generale
atmosfera antindustriale e provocano notevoli mutazioni
psicologiche nelle realtà sociali.
La grande industria conosce la sua crisi fra scioperi,
sabotaggi, occupazioni, con mobilitazioni e forti
contestazioni.
Proprio in questo periodo si profila un senso di sfiducia
nel futuro, la paura apocalittica della “fine di tutto”
attraversa la società: si affaccia la crisi della modernità.
1.3 Il Postmoderno
La presa di coscienza della crisi della modernità, a
partire dagli anni ’60-‘70, è dovuta ad una serie di
trasformazioni storiche e socioculturali configurate da
una serie di rivoluzioni tecnologiche che segnano l’avvio a
forme di organizzazione sempre più complesse: in
particolare, il passaggio dall’industria meccanica a quella
fondata sull’elettronica e, segnatamente, alla moderna
industria della telecomunicazione e dell’informatica,
induce una vera trasformazione della società e della
cultura, comportando una radicale ristrutturazione del
lavoro, del sapere, del modo di vivere. Il postmoderno è la
riflessione di questo nuovo modello di società, sulle sue
basi materiali e sui prodotti culturali.
Il mito del progresso “necessario e infinito” era stato
prefigurato dalla modernità in varie forme; una di esse, la
dimensione oggettivante, scientifica e tecnica che
attraverso il progresso tecnologico doveva guidare il
mondo si rivela, però, un’utopia. Vengono messe in
discussione la fiducia nel progresso e la capacità
dell’uomo di assumere, attraverso la tecnologia, il ruolo di
guida e di controllo del mondo.
L’ecologismo, ad esempio, è un movimento tipico della
società postmoderna, in quanto reazione alle
degenerazioni distruttive del dominio tecnologico sulla
natura.
E’ proprio in questo periodo che la riscoperta di valori
legati alla natura, alla spiritualità, all’armonia con
l’Universo, si affermano fino a diventare, negli anni ’80,
una nuova religione, la New Age.
Contro la cultura uniformante, il postmoderno
prospetta un modello di società fondato sulla differenza e
sul pluralismo, facendo della diversificazione e della
molteplicità il baluardo contro i rischi della pianificazione
e dell’omologa-zione sociale della modernità.
A partire dagli anni ’80, se da una parte il
postmoderno è ritenuto un mondo dall’equilibrio difficile,
in cui l’uguaglianza non cancelli la differenza (secondo
Gianni Vattimo: “il massimo dell’uguaglianza è la
possibilità di essere diversi”)
3
, in cui sia possibile una
eterogeneità senza gerarchia, dall’altra viene accusato di
essere l’ideologia del nuovo ordine economico-sociale che
si andava affermando.
Le connotazioni di tale evoluzione, secondo l’americano
Fredric Jameson sono “…in primo luogo la riduzione di
qualsiasi prodotto a merce, la generalizzazione del valore
di scambio fino alla scomparsa della memoria di qualsiasi
valore d’uso, e il conseguente affermarsi di una società
con uno stile di vita consumistico che domina gusto e
moda, una cultura dello spettacolo che giunge a una
dissoluzione del senso della realtà riducendo tutto a
feticcio, simulacro, immagine…”
4
.
Il “nastro trasportatore” di questa estrema pervasività
del mercato e delle forme economico-culturali, sempre
secondo Jameson, è costituito dai mass-media, grazie ai
quali si afferma la cultura dello spettacolo e il
consumismo culturale.
3
Chiurazzi G., Il Postmoderno, Paravia scriptorium, Torino,
1999, pag. 21.
4
Chiurazzi G., ibidem, pag. 24.