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INTRODUZIONE
A chi si accosti, per motivi di studio, di riflessione o di ricerca spirituale al
tema dell’ahiṃ sā, la possibilità di una condotta di vita, nelle interazioni sociali e
nel rapporto con sØ stessi, ispirata da e informata su una totale e radicale non-
violenza, può apparire arduo e difficile, se non utopistico, irrealizzabile, un mero
modello ideale, qualcosa di affascinante ma talmente diverso dal vissuto
quotidiano, dalle norme sociali e dall’esperienza intra-psichica da essere percepita
come lontana, impossibile, vaga: una favola bella, ma inattuabile: un’utopia.
Siamo ormai talmente abituati ed assuefatti alla violenza da non esserne piø
consapevoli, da non riuscire piø neanche ad immaginare la possibilità di un agire
non violento e tanto piø di una qualità non violenta del vivere, dell’esserci nel
mondo. Un famoso regista immaginò l’inizio dell’intelligenza umana, con un atto
di violenza omicida; in molte cosmogonie l’universo ha inizio con un atto violento
compiuto dalla divinità che, dopo aver ucciso l’antagonista, impersonificazione
del Male, o il gigante/mostro primordiale, simbolo del Caos, ne utilizza il corpo
per plasmare il mondo; i piø nobili tentativi di progresso delle società sono
incentrati su atti di violenza e su ideologie violente; per contrastare il terrore della
guerra si dichiara guerra al terrore; la nostra stessa comunicazione, verbale e non,
nasconde molte forme e contenuti inconsapevoli di violenza; ci colpevolizziamo e
castighiamo per semplici errori o mancanze.
Eppure, piø di 2500 anni fa, nella pianura alluvionale del Gange, in un
contesto di grandi trasformazioni sociali e culturali unitamente ai primi processi di
inurbamento, la possibilità di una qualità non violenta dell’essere-agire, non solo
era pensata reale, ma veniva perseguita con determinazione e fiducia.
«A rigor di termini, nessuna attività e nessuna occupazione è possibile senza
un certo grado, per quanto limitato, di violenza. La stessa vita è impossibile senza
un certo grado di violenza. Ciò che dobbiamo fare è limitare questa violenza per
quanto è possibile. In effetti la stessa espressione “non-violenza”, un’espressione
negativa, sta ad indicare uno sforzo diretto ad eliminare la violenza che è
inevitabile nella vita. […] Ma poichØ ogni attività in una certa misura implica la
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violenza, tutto ciò che possiamo fare è ridurre al minimo tale violenza. Questo
non è possibile senza una fede profonda nella non-violenza. Pensate ad un uomo
che non commette nessun vero e proprio atto di violenza, che lavora per
guadagnarsi da vivere, ma che è continuamente divorato dall’invidia per la
ricchezza e il benessere degli altri. Questo uomo non è un non-violento. Una
occupazione non-violenta è un’occupazione che sia fondamentalmente libera dalla
violenza e che non implichi lo sfruttamento o l’invidia nei confronti degli altri».
1
La violenza, in ogni sua forma, è in effetti un prodotto culturale. Accanto e
sopra a quella violenza insita negli stessi processi biologici della vita, quella
violenza che possiamo dire naturale, nei millenni, è proliferata una violenza tutta
culturale, questa si, evidentemente, eliminabile, oltre che contenibile. Non si tratta
evidentemente di una rimozione metafisica della Violenza dalla Natura, ma di un
lavoro lento e costante, concreto, realizzabile qui ed ora, sulla violenza nella
nostra mente, nelle nostre interazioni sociali e nella cultura. I maestri indiani che
nel VI-V sec. a.e.v. si misero alla ricerca di una via che liberasse l’uomo dalla
intrinseca insoddisfazione del vivere, videro nell’ahimsa un dovere morale
supremo (ahiṃ sā paramo dharmaḥ ) e uno strumento indispensabile al processo di
trasformazione-liberazione dell’essere umano tanto nel suo rapporto col proprio
universo psichico quanto nelle sue interazioni sociali.
Da dove nasce l’ahiṃs ā? In quale il contesto storico-sociale-culturale?
Quali gli approcci filosofico-religiosi in cui origina e matura? Quali forme e quali
contenuti particolari essa assume nelle varie “visioni” filosofico-religiose? Queste
le domande a cui si è cercato di rispondere.
Nel Capitolo I, dopo aver svolto una analisi etimologica del termine
ahiṃs ā, ne delineiamo i caratteri generali (“volontà/atteggiamento mentale”;
anga di un piø complesso percorso spirituale; tripartizione pensiero, parola,
azione) ed una prima definizione introduttiva, assieme ai concetti di etica di
liberazione, “visioni”, sacrum esse.
Abbiamo poi cercato di ricostruire il contesto storico, sociale e culturale in
cui l’ahiṃs ā origina e si sviluppa. Per farlo abbiamo ritenuto utile ricostruire, nel
1
Gandhi, Mohandas K., Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi, Torino, 1996, pp. 77-8.
6
Capitolo II, alcuni elementi della religiosità vedica (sacrificio rituale
cosmopoietico, concezione anima, morale) anteriori a quei movimenti religiosi
riformatori che, nell’India del VI-V sec. a.e.v., dell’ahimsa sono i sostenitori.
Nel Capitolo III analizziamo il contesto storico e sociale in cui l’ahiṃs ā
prende piene, ovvero quel profondo mutamento delle strutture del pensiero, della
visione del mondo e della morale che in India si attesta intorno al VI-V sec. a.e.v.,
coestensivamente ai primi processi di inurbamento, e che Jaspers definì “epoca
assiale”
2
. Abbiamo cercato inoltre di ricostruire a grandi linee il processo di
sviluppo storico che dall’invasione della Valle dell’Indo da parte dei popoli Ārya
a tali profondi mutamenti conduce.
Il Capitolo IV è dedicato all’analisi delle prime occorrenze del termine e del
concetto di ahiṃs ā nei testi sacri ortodossi (Upanishad, Manu Smriti, Bhagavad
Gita), analisi che rivela un processo che abbiamo definito di “brahmanizzazione
dell’ahimsa”, ovvero una sua rielaborazione e trasformazione, efficace alla sua
armonizzazione col pensiero ufficiale e allo stesso tempo utile a smorzarne la
portata innovativa. Pur essendo queste dottrine cronologicamente posteriori alle
innovazioni del jainismo e del buddhismo, e anzi costituendo frequentemente una
reazione a queste, le trattiamo prima perchØ presentano una concezione ancora
parziale dell’ahimsa e un processo di interiorizzazione del sacrificio incompleto e
non lineare.
I Cap. II, III e IV, cha vanno a costituire la Parte I del presente lavoro,
rappresentano per così dire gli antefatti, o il passaggio dal sacrum facěre al
sacrum esse, dal sacrificio rituale cruento al sacrificio simbolico e interiore.
La Parte II, dopo aver presentato, nel Cap. V, le varie ipotesi di origine del
concetto di ahimsa e aver definito il concetto di sacrum esse e quello di etica di
liberazione, analizza i contenuti specifici che l’ahimsa assume all’interno delle
dottrine eterodosse: Jainismo (Cap. VI), con la sua impostazione prevalentemente
meccanicistica-materialistica e pan-jivaista che sfocia da un lato in una
precettistica minuziosa e dall’altro in un sovrumano sforzo di non nuocente
inazione e di «paralisi psichica intenzionale»
3
, convertite in prosieguo di tempo
2
Cfr. Jaspers, Karl, Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1965.
3
Zimmer, Heinrich, Filosofie e Religioni dell’India, Mondadori, Milano, 2001, p. 219.
7
nell’“amicizia” verso tutte le creature viventi e nella rivalutazione della volontà di
non nuocere; Buddhismo (Cap. VII), con la concezione pragmatica e psicologica
del duhkha e del processo di liberazione che porta a concepire l’ahimsa come
mezzo etico-psicologico abile alla cessazione della sofferenza.
Nelle Conclusioni cerchiamo di delineare, partendo dall’analisi precedente,
un concetto ideltipico di ahimsa sviluppato nei suoi elementi principali e in quelli
che possiamo considerarne i presupposti.
Nota: i termini sanscriti e pali verranno trascritti correttamente solo la prima
volta che si presenteranno nel testo, nelle le successive adotteremo una
traslitterazione semplificata.
8
I
Alcune precisazioni introduttive.
Il termine sanscrito ahiṃ sā viene generalmente tradotto con “non-
violenza”, alle volte con “innocenza”, o “innocuità”. In realtà il termine ha una
sfumatura di significato piø articolata che rimanda evidentemente ad un modello
concettuale e ad un universo culturale altrettanto articolati e complessi. Una breve
analisi etimologica, ci permetterà di cogliere meglio il vero significato del termine
e di iniziare a far luce sul senso piø profondo di quelle concezioni che vi sono alla
base.
Ahiṃ sā è forma sostantivata (s.f.) composta dalla “a” negativa e da “hiṃ s”,
a sua volta forma desiderativa della radice verbale “han”, “ferire, uccidere,
nuocere, arrecare danno, colpire” ma anche “gettare, abbandonare, punire”.
Letteralmente quindi ahiṃ sā va resa con “assenza di volontà di nuocere” o
“volontà di non nuocere, uccidere, danneggiare”.
L’uso del desiderativo è indicativo, rimanda infatti all’implicazione della
volontà e degli atteggiamenti e processi mentali, e alla necessità di una loro
modificazione sostanziale. L’attenzione, quindi, non è posta solo sulla azione e sui
suoi effetti, ma anche, e prima di tutto, sul mondo intrapsichico e sulle sue
strutture piø profonde. Come vedremo, infatti, il buddhismo dà grande importanza
all’intenzione e all’atteggiamento mentale, e non solo in relazione all’ahimsa,
laddove il Jainismo, inizialmente piø legato ad una visione fisica e
“meccanicistica”, accoglie in seguito questa posizione, sia come sostegno
all’ahimsa, sia come una sorta di “limite riconosciuto”, di excusatio: a causa del
decadimento morale e spirituale dell’attuale epoca (kalpa) del mondo, l’agire non
può essere totalmente non-violento nelle sue molteplici ed imponderabili
conseguenze, e pertanto ciò che conta in ultima istanza è appunto l’intenzione, la
(buona) volontà.
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Altra nozione che è bene introdurre subito, è la tripartizione dell’azione in
mentale, vocale e fisica-corporea (tutte sullo stesso piano) tipica del pensiero
indiano. Essa è in realtà un momento classificatorio assai antico, originatosi nella
cultura indoeuropea e da qui passato, oltre che in India, anche ad esempio al
mondo indoiranico, come testimonia la classificazione zoroastriana in “buoni
pensieri” (humata), “buone parole” (hūkta), “buoni atti corporei” (huvaršta). Ciò
significa che parlare di ahimsa equivale a focalizzarsi non solo sulle azioni che
compiamo fisicamente, in cui la violenza è piø esplicita e visibile, ma anche sulle
nostre parole (la menzogna, le calunnie, le offese o l’alzare la voce per imporsi,
ecc.) e sui nostri atteggiamenti mentali, sul nostro universo intrapsichico (odio,
avversione, invidia, ecc.). Queste modalità dell’azione vanno considerate non solo
come rivolte agli altri, ma anche a se stessi. In tal senso la non-violenza
comprende anche un rapporto pacificato e amorevole con se stessi.
Per il pensiero indiano ciò che conta non è la speculazione filosofica fine a
se stessa, nØ la conoscenza che sia in grado di agire sulla natura e trasformarla ad
uso e consumo dell’esigenze dell’uomo, ciò che conta davvero è piuttosto la
conoscenza in grado di agire sull’uomo stesso e di favorirgli una trasformazione,
una metamorfosi. «L’India ha sempre coltivato l’idea che la conoscenza (vidyā)
sia potere purchØ (e questo è un “purchØ” che deve essere tenuto a mente) permei,
trasformi, controlli e modelli l’intera personalità. […] il pensiero stesso deve
essere convertito in vita, in carne, in essere, in azione pratica. E piø alta sarà la sua
realizzazione, maggiore sarà il suo potere».
1
E l’unico degno fine a cui la
conoscenza deve tendere è quello soteriologico, è la trasformazione-liberazione
dell’uomo. La conoscenza, dunque, è tanto piø efficace e valida quanto piø
consenta all’uomo di affrancarsi dalla prigionia del mondo fisico, dalla sofferenza
sperimentabile nella quotidianità o dalla implicita insoddisfazione della vita e
dell’esperienza psichica: dalle Upaniśad ai giorni nostri, il vero fine di tutta la
speculazione indiana nelle sue varie articolazioni e visioni, è proprio quello di
produrre quella conoscenza teorico-pratica in grado di tradursi in un processo di
trasformazione-liberazione dell’uomo.
1
Zimmer, Heinrich, Filosofie e religioni dell’India, Mondadori, Milano, 2001, p. 74.
10
¨ in questa ottica che occorre analizzare l’ahimsa. La non-violenza, infatti,
così come è stata concepita dal pensiero indiano, ha valore, sostanza e fondamento
solo all’interno di un piø ampio percorso spirituale di trasformazione-liberazione.
Non è qualcosa di astratto, di calato dall’alto, nØ di un mero ideale: non vi è
alcuna intenzione metafisica; quel che interessa è il comportamento concreto, il
lavoro pratico sugli atteggiamenti mentali e sui modelli comportamentali, è un
percorso, qualcosa che va realizzata e compresa giorno per giorno, momento per
momento, sbagliando e imparando dai propri errori, con continui aggiustamenti e
correzioni, una pratica che necessità di energia, fiducia, impegno ed inventiva, ma
che porta gradualmente ad una sempre maggiore attuazione di un essere-agire non
violento.
Prendendo a prestito una topica metafora del pensiero indiano, consideriamo
l’ahimsa come un aṇ ga, “membra” del corpo, dove il corpo è il processo di
trasformazione-liberazione, ed ogni membra di tale corpo è parte indispensabile,
attiva e connessa con le altre membra e col corpo tutto. Ciò significa che l’ahimsa
va intesa come elemento e esito di un piø ampio e complesso percorso, e sia allo
stesso tempo essa stessa di per sØ un percorso, un processo di trasformazione.
Si potrebbe dire che, trattandosi appunto di un processo, si passi dal
riconoscimento degli atteggiamenti e delle azioni violente, alla volontà di
correggerle per non nuocere ad altri e a se stessi; dal lavoro concreto su queste
espressioni violente, all’assenza della volontà, del comportamento e degli
atteggiamenti mentali violenti; fino all’agire per il proprio bene e per quello di
tutte le creature viventi. Precisando però che tale linearità del percorso di
addestramento all’ahimsa è puramente astratta e idealtipica.
Lungi dal voler eliminare la violenza tout court dall’esistenza, quella che
potremmo definire l’intrinseca “violenza della/nella natura”, nell’addestramento
all’ahimsa ci si concentra esclusivamente su quella violenza sulla quale si può
agire concretamente: la violenza dei pensieri e degli atteggiamenti mentali, la
violenza delle interazioni sociali, verbali e non, la violenza del rapporto uomo-
natura, la violenza del rapporto col proprio mondo intra-psichico, ecc.: in
definitiva quella violenza che nei millenni è cresciuta e sovrapposta, la “violenza
della/nella cultura”. A ben guardare, infatti, la questione, in termini generali,
11
riguarda la natura culturale della violenza e la sua traduzione in una cultura non-
violenta.
Si vedrà in seguito come i riferimenti alla volontà, alla processualità, e alla
tripartizione dell’azione si sostanzino nella pratica e si articolino variamente nelle
differenti pratiche e visioni, per ora basti tenere a mente che con ahimsa ci si
riferisce ad un processo di modificazione qualitativa ad un tempo e delle strutture
del pensiero e dell’agire, verso se stessi e verso il mondo esterno.
Altra precisazione preliminare è la distinzione che operiamo fra morale,
etica ed etica di liberazione. Non volendo qui addentrarci in questioni filosofiche
complesse che esulano dal nostro lavoro, abbiamo semplicemente voluto marcare
una differenza fra la normatività anteriore e quella posteriore alla profonda
trasformazione socio-culturale verificatasi in India attorno al VI-V sec. a.e.v.. Con
etica ci riferiamo, infatti, ad un mutamento quantitativo e qualitativo caratterizzato
da una consapevole attenzione al discorso morale, dalle scoperte del libero
arbitrio, della responsabilità morale e della capacità escatologica di ogni
individuo, da uno “sforzo” intellettuale e pratico consapevole. Col concetto di
etica di liberazione ci riferiamo alla finalità soteriologica della concezione etica
implicita nell’ahimsa.
Schweitzer
2
faceva notare come l’ahimsa rappresenti il tentativo del
pensiero indiano di realizzare un’etica illimitata. E ciò da un lato perchØ non ci si
limita ad un contenimento della violenza, ma si tenta una trasformazione radicale
dell’uomo che dissipi ogni sua azione e ogni suo atteggiamento mentale violenti;
dall’altro perchØ oggetto dell’etica non è solo l’altro, la società, ma il cosmo tutto.
Nel precetto dell’ahimsa, infatti, viene incluso ogni essere vivente fino alla natura
stessa nel suo insieme, alla terra stessa nella quale viviamo. Di piø, oggetto della
volontà di non-nuocenza, e l’elemento a nostro avviso da rimarcare, è il soggetto
stesso nel suo rapporto col proprio mondo psichico, nel suo rapporto con se
stesso.
Schweitzer però relegava l’etica illimitata indiana esclusivamente all’ambito
della negazione del mondo e della non-azione. Vedremo, quando tratteremo del
2
Schweitzer, Albert, I grandi pensatori dell’India, Ubaldini Editore, Roma, 1983.
12
Buddhismo e degli ultimi sviluppi del Jainismo, come questa tesi non sia del tutto
esatta.
Si intravede quindi, la complessità del tema. Non si tratta evidentemente di
un semplicistico rifiuto della violenza o di una fuga dal mondo nella roccaforte
dell’inattività passiva o della pavida rinuncia, come troppo spesso si è
faziosamente portati a credere. «Nella vita è impossibile eliminare completamente
la violenza. Si pone il problema di dove deve essere tracciata la linea di
demarcazione tra violenza e non-violenza. Tale linea non può essere la stessa per
tutti. […] Ad ogni passo [l’uomo] deve usare la propria capacità di discernimento
per comprendere ciò che è ahimsa e ciò che è himsa. In questo non vi è posto per
il pudore o la codardia. Il poeta ha detto che la via che conduce a Dio è fatta per il
coraggioso, mai per il codardo».
3
Quanto al termine “religione”, va precisato subito che, se lo si vuole
interpretare in quel senso specifico affermatosi e affinatosi in Occidente, si riduce
ad una etichetta troppo stretta per la realtà indiana. Noi utilizzeremo il termine
visione, mutuandolo dall’uso indiano di definire darśana (“visione, osservazione,
veduta”) i propri sistemi filosofici, come termine generale; dharma (“legge,
regola”, da dhṛ , “tenere, portare, sostenere”) nel senso piø specifico di legge,
regola, comportamento, preciso sistema filosofico-religioso; e pratica o percorso,
quando intendiamo sottolineare l’aspetto esperenziale e la finalità di
trasformazione-liberazione di tali visioni religiose.
Allo stesso modo, il concetto di sacro come alterità al profano, non è
sufficiente a spiegare tutto lo sviluppo della speculazione indiana. Utilizzeremo i
concetti di sacrum facĕre, in riferimento alla concezione del sacro come
dimensione distinta da generare, tipica del sacrificio vedico; e di sacrum esse,
come dimensione immanente e onnicomprensiva del sacro, come originaria
qualità di ogni essere vivente, tipica dei movimenti ascetici e del Jainismo.
3
Gandhi, M.K., Teoria e pratica della non-violenza, Torino, Einaudi, 1996, pp. 75-6.
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Va detto, in conclusione, che si è generata tutta una discussione, a nostro
avviso fuorviante, sull’utilizzo del termine negativo (a-himsa, non-violenza). Si
confonde qui il dito con la luna, il termine con la sostanza: si tratta di una mera
questione culturale-linguistica, dato che in India una formulazione negativa serve
correntemente, come si sta iniziando a riconoscere, ad esprimere concetti positivi.
Si potrebbe aggiungere che trattandosi di un percorso che mira a trasformare le
usuali strutture cognitive e comportamentali per giungere a strutture nuove e non-
ancora-condivise, sulle quali cioè non c’è esperienza comune socializzata e
pertanto priva di termini culturali condivisi con cui descriverla e con cui
etichettarla, si utilizza il termine piø accessibile: come a dire “qualcosa di diverso
da ciò che conoscete già”; allo stesso modo di “Non-Esistente”, e nirvāṇ a
(estinzione, soffiare via, spegnere)
4
o neti neti (“non questo nØ quello”, usato
spesso nelle Upanisad per definire l’atman-brahman). Si è tentato anche di
sostituire l’espressione negativa non-violenza con espressioni positive, quali
“amore”, “compassione”, “amicizia”, “gentilezza”, ecc. A noi pare che tali termini
rimandino piø a delle qualità o dei comportamenti impliciti nell’agire non violento
o a dei suoi presupposti.
A volerlo vedere, il problema linguistico resta, ma non è così detrimente. La
vera questione è quella della “messa in pratica” del percorso della non-violenza.
4
Nir-Va, “soffiare via”, la metafora deriva dall’immagine della fiamma, quindi “soffiato via” il
fuoco del desiderio, la brama è spenta.
I PARTE:
dal sacrum facĕre all’interiorizzazione del sacrificio
15
II
La religione vedica: centralità del sacrificio cosmopoietico nei Veda e nei
Brāhma a.
Il concetto di ahiṃ sā è totalmente sconosciuto alla tradizione vedica. E non
può essere altrimenti dato il carattere della religiosità vedica, contraddistinta da
una predominanza dell’elemento maschile e intellettuale che si concreta nella
centralità del culto igneo e del sacrificio e nella magnificazione della forza e
dell’azione virili.
In particolare due elementi di tale veemente religiosità ci interessano piø da
vicino: il sacrificio, nelle varie forme particolari che assume e con le sue
implicazioni socio-culturali oltre che teologico-religiose, e la concezione
dell’anima individuale e del suo “ritorno” all’anima universale. Un terzo
elemento, riflesso diretto dei primi due e di quella particolare visione del mondo,
è l’assenza di una speculazione e di uno sforzo etico “forte”. Vedremo come il
pensiero brahmanico da una posizione di partenza inconciliabile col precetto
dell’ahimsa e ad esso addirittura antitetica, giunga, nel corso dei secoli, sotto la
spinta di significativi mutamenti sociali e la pressione d’istanze provenienti dalla
religiosità popolare e dai movimenti religiosi “rivali”, ad incorporare il concetto,
ma non la premura, della non-violenza, anche se, è bene chiarirlo, sempre
riadattandolo e accordandolo alle proprie esigenze socio-politiche e alle proprie
tematiche filosofico-religiose.
Il grande corpus dei Veda è ancor oggi la base della spiritualità hindū.
Questi testi sono il frutto di un processo plurisecolare di elaborazione e
rielaborazione che iniziò ad essere fissato in forma scritta a partire dal 1500 a.e.v.,
ovvero, significativamente, all’epoca delle prime grandi invasioni della valle
dell’Indo da parte dei popoli Arî. La parte piø antica è raggruppata in quattro
16
grandi “raccolte” (saṃ hitā): Ṛ gvedasaṃ hitā, la piø antica, la “sapienza” espressa
in strofe di lode, destinata ad essere utilizzata dal recitante; la Sāmavedasaṃ hitā,
la “sapienza” espressa in canti, patrimonio rituale del cantore; la
Yajurvedasaṃ hitā, la “sapienza” espressa in formule sacrificali recitate
dall’officiante; l’Atharvavedasaṃ hitā, la “sapienza” espressa in formule
sapienziali, destinato al brāhmaṇ a
1
.
Ogni saṃ hitā viene poi integrata nel corso dei secoli da svariati trattati e
raccolte di testi, i piø importanti dei quali sono i vari Brahmana e le Upanishad.
L’insieme, multiforme e variegato, di tali raccolte viene indicato come śruti
(lett. “orecchio”, quindi ciò che ci consente di udire, l’ascolto diretto della parola
divina, la parola divina, la “Rivelazione”), in opposizione alla successiva smṛ ti
(“ciò che si ricorda”, la memoria, il ricordo della Parola divina trasmessa –
tradere – agli altri, la “Tradizione”). La conoscenza vedica è propriamente la
Parola divina, la verità salvifica stessa, che va ascoltata e realizzata, «venerata ed
“esperienziata” in modo che ci faccia scoprire la realtà che è già in noi […] è una
parola viva che, quando penetra profondamente in me (per il che è richiesta la
fede) mi feconda, per così dire, mi eleva al livello della realtà autentica e mi fa
scoprire quella verità trascendente che altrimenti rimarrebbe inaccessibile e
incomprensibile»
2
.
Noi qui col termine Veda, per semplicità, ci riferiamo proprio alle quattro
raccolte piø antiche.
Tutto quello che sappiamo sulla storia, l’organizzazione sociale, la cultura e
la visione religiosa dei popoli arii lo dobbiamo proprio ai Veda. Questo impone
alcune precisazioni ed una cautela. Le precisazioni riguardano il fatto che le
origini dei testi cui attingiamo si perdono nella notte dei tempi, mischiati al mito e
all’autoglorificazione (si tratta pur sempre del racconto che un popolo, per giunta
1
La complessità dei sacrifici vedici era tale che ogni sua parte era affidata ad un sacerdote
particolare che conosceva quella parte e quella soltanto. Solo il brāhmaṇ a, il “sommo” sacerdote,
diremmo, conosceva il rito in tutta la sua complessità e supervisionava alla sua esecuzione. In tutto
vi erano sedici sacerdoti, organizzati gerarchicamente e operanti come le membra di un unico
corpo, la cui mente era il brāhmaṇ a vero e proprio.
2
Panikkar, Raimon, Il dharma dell’induismo, BUR, Milano, 2006, p. 59.