Premessa
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Premessa
L’intento del presente lavoro è quello di condurre uno studio circa la composizione
della struttura proprietaria e finanziaria di un campione di imprese italiane quotate,
con particolare riguardo alla composizione della retribuzione manageriale nelle
grandi società ed al ruolo degli incentivi monetari e non. Il problema
dell’allineamento degli interessi di managers e azionisti nella gestione d’impresa è
stato a lungo oggetto di studio di parte della letteratura economica e i principali
contributi vengono fatti risalire a Jensen e Meckling (1976) i quali hanno individuato
nei meccanismi incentivanti una possibile soluzione al problema ed ai costi di
agenzia. In realtà la relazione Pay-Performance è stata oggetto di lunghi dibattiti e ha
dato vita, anche alla luce dei recenti scandali finanziari, a opinioni spesso
contrastanti, divise tra chi ritiene che tale relazione sia fin troppo debole e chi invece
denuncia le retribuzioni manageriali considerandole eccessive.
Ad ogni modo i contratti incentivanti sono solo uno dei tanti meccanismi di
Corporate Governance che possono essere adottati con il fondamentale obiettivo di
garantire la tutela dei piccoli investitori e che sono stati messi a dura prova negli
ultimi anni, mostrando spesso le loro debolezze. Tra questi meccanismi un ruolo di
rilievo spetta senz’altro all’insieme di norme e legislazioni vigenti nei singoli Stati, le
quali sono in grado di influenzare l’assetto proprietario delle grandi società e la cui
efficienza favorisce lo sviluppo dei mercati finanziari (Law and Finance). Si può
pertanto parlare di un modello anglosassone, tipico del mercato statunitense e
inglese, caratterizzato da un forte sviluppo del mercato dei capitali, da un elevato
ricorso ai take-over e da una significativa dispersione dell’azionariato tra azionisti
esterni di piccole dimensioni ed investitori istituzionali, contrapposto ai mercati
dell’Europa continentale, tra cui quello italiano, dove la proprietà societaria è molto
più concentrata nelle mani di un gruppo di maggioranza, spesso familiare, che svolge
anche la funzione di gestione e controllo. Partendo proprio dalla definizione di
Corporate Governance, il lavoro che segue presenta dapprima il problema derivante
dalla separazione tra proprietà e controllo passando in rassegna le principali teorie
dell’impresa e volgendo l’attenzione al problema e ai costi di agenzia che sono in
Premessa
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grado di influenzare la struttura proprietaria e finanziaria di una società. Vengono
quindi presentati i principali meccanismi di CG interni ed esterni all’impresa, tra cui
i meccanismi incentivanti e i problemi associati al loro ricorso. Nel secondo capitolo
vengono chiarite le caratteristiche dei diversi modelli dell’impresa manageriale,
distinti tra il modello anglosassone e quello renano e in seguito vengono riportati
alcuni dati derivanti da studi condotti su campioni di imprese americane ad
evidenziare la struttura dell’assetto proprietario e l’effettivo legame riscontrato
empiricamente nella relazione Pay-Performance. Per finire, dopo una presentazione
della situazione che caratterizza lo scenario italiano, si presenta il campione di
imprese e il modello di regressione adottato per condurre le analisi.
1 La grande impresa manageriale e la Corporate Governance
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1 La grande impresa manageriale e la Corporate
Governance
I recenti scandali finanziari che si sono verificati nell’ultimo decennio sia sul
mercato americano che su quello europeo hanno incrementato l’interesse, e al
contempo ne hanno evidenziato la debolezza, per le soluzioni di Corporate
Governance, intendendo per tale quell’insieme di meccanismi, sia interni che esterni
all’impresa, in grado di contenere e disciplinare il conflitto di interesse che ha luogo
tra i diversi soggetti coinvolti, in modo da tutelare con particolare attenzione gli
investitori di minoranza. Sono state fornite differenti definizioni di Corporate
Governance, tra cui si ricorda quella che fa capo a Zingales (1997), secondo la quale
con il suddetto termine si intende
“l’insieme complesso di vincoli che modellano la negoziazione ex-post delle
quasi-rendite generate da un’impresa”.
Il tema della Corporate Governance è strettamente legato al problema della
separazione tra proprietà e controllo che caratterizza alla base la moderna impresa
manageriale.
Le imprese nascono con l’obiettivo di massimizzare il profitto o, più in generale,
l’utilità di chi ne è titolare, per iniziativa di un imprenditore fondatore che assomma
in sé stesso le funzioni di proprietario, controllante e gestore e, in quanto tale, costui
quindi partecipa agli utili, assumendosi il rischio d’impresa, detiene il potere su di
essa e agisce nell’interesse dell’impresa stessa, prendendo decisioni e coordinando i
fattori produttivi.
Nelle grandi società per azioni tuttavia, l’imprenditore classico, ovvero colui che
assommava in sé stesso le tre suddette funzioni è, per così dire, scomparso. Nel
passaggio dal capitalismo familiare a quello manageriale infatti l’imprenditore
fondatore è uscito di scena e la necessità di disporre di finanziamenti adeguati a
1.1 Evoluzione delle teorie dell'impresa
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gestire imprese di più grandi dimensioni, ha indotto a vendere quote della società sul
mercato dei capitali.
A partire dagli anni ‘60 dunque alla teoria neoclassica dell’impresa si è affiancata la
teoria della grande impresa manageriale che ha delineato un’impresa capitalistica il
cui controllo è nelle mani di un gruppo manageriale che non detiene la proprietà del
capitale e che pertanto non percepisce, come remunerazione, il profitto.
Le grandi imprese ad azionariato diffuso, o public companies, sono dunque
caratterizzate dalla separazione tra proprietà e controllo, che fanno capo
rispettivamente agli azionisti e ai managers: i primi hanno diritto di partecipare, sulla
base della quota azionaria posseduta, al profitto o reddito residuo, una volta
remunerati i fattori di input, ai secondi invece è delegata la gestione dell’impresa ed è
richiesto di agire nell’interesse dei proprietari. Il rapporto che così si delinea è il
cosiddetto rapporto principale (delegante) – agente (delegato). Esso si svolge in
condizioni di asimmetria informativa e spesso chi assume le decisioni può essere
portatore di interessi diversi da quelli degli azionisti proprietari, proprio per il fatto
che, non percependo alcun profitto, viene a mancare l’incentivo utilizzato
nell’impresa classica a svolgere efficacemente le attività di monitoraggio e gestione.
1.1 Evoluzione delle teorie dell’impresa
Nell’ambito delle teorie dell’impresa, è possibile evidenziare due importanti
contributi, da una parte quello attribuito a Berle e Means
1
i quali hanno inaugurato la
nascita della teoria manageriale e introdotto il problema di agenzia generato dalla
separazione tra proprietà e controllo, dall’altra il contributo di Coase (1937) il quale
ha sottolineato come l’impresa sia una istituzione in grado di sostituirsi al mercato,
costituendo così la premessa per lo sviluppo della teoria dei costi di transazione.
Da queste due importanti teorie, nei decenni successivi, si sono originati due filoni di
ricerca, uno incentrato sull’organizzazione interna dell’impresa, vista come rapporto
di agenzia, l’altra invece volta ad esaminare i confini esterni che la caratterizzano.
Questi due filoni, che fanno capo rispettivamente ad Alchian e Demsetz, Jensen e
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A.A. Berle e G.C. Means, The Modern Corporation and Private Property (1932)
1 La grande impresa manageriale e la Corporate Governance
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Meckling da un lato, e Williamson e Grossman, Hart e Moore dall’altro, sono, per
quanto diversi, accomunati da un importante elemento, ovvero la visione
dell’impresa come un insieme di contratti che per i primi specificano i diritti di
proprietà e i rapporti interni all’impresa, per i secondi regolano le transazioni che
hanno luogo tra le parti.
Nella teoria del principale-agente elaborata da Alchian e Demsetz (1972) e ripresa
da Jensen e Meckling (1976), l’impresa è vista infatti come un nesso di contratti
stretti tra i proprietari dei fattori produttivi, in modo da regolare i diritti di ogni
agente nell’organizzazione, i criteri utilizzati per valutare le loro prestazioni e le
funzioni di remunerazione loro offerte. Il rapporto principale-agente si instaura ogni
qualvolta si presenti una qualche forma di decentramento decisionale e il modello
principale-agente è uno strumento che consente di analizzare dal punto di vista
economico le relazioni contrattuali in presenza di asimmetria informativa post
contrattuale.
Relativamente al secondo filone invece, più che i costi di agenzia sono i costi
associati all’utilizzo del mercato a giustificare la nascita dell’impresa perché
l’elevata specificità degli impianti può portare a comportamenti opportunistici volti
ad appropriarsi delle quasi rendite, comportamenti che sono difficilmente
disciplinabili sul mercato a causa dell’incompletezza contrattuale.
Così la teoria dei costi di transazione di Coase (1937, 1988) e Williamson (1975,
1985) parte dal presupposto che i costi generati da uno scambio e legati alla
negoziazione di contratti che siano il più completi possibile, soprattutto quando si è
in presenza di relazioni caratterizzate da elementi di notevole specificità, talvolta
possano essere ridotti se la transazione viene internalizzata nell’impresa. Il modo con
cui variano i diritti di proprietà in seguito ad un’integrazione verticale è infine
oggetto d’analisi della teoria dei diritti di proprietà di Grossman e Hart (1986) e
Hart e Moore (1990). Questa teoria però presenta una evidente debolezza, come
riconoscerà lo stesso Hart (1989) in quanto non tiene conto della separazione tra
proprietà e controllo, considerando invece i problemi d’agenzia come un fattore
secondario.
1.2 Il modello principale-agente e i costi di agenzia
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1.2 Il modello principale-agente e i costi di agenzia
Secondo il modello principale-agente, il rapporto esistente tra azionisti e managers si
basa su alcuni elementi chiave:
la delega delle decisioni all’agente da parte del principale;
il conflitto di interessi fra le parti;
l’imperfetta osservabilità dei comportamenti dell’agente (azione nascosta);
la possibile dipendenza del risultato da eventi non controllabili né da parte
dell’agente, né da parte del principale.
La relazione contrattuale ottimale fra i proprietari dell’impresa e i managers deve
inoltre rispettare due fondamentali condizioni: il vincolo di partecipazione e il
vincolo di incentivazione.
Relativamente al primo, è anzitutto opportuno precisare che il modello considerato si
basa su due importanti ipotesi, ovvero la sostanziale neutralità al rischio da parte del
principale e l’avversione al rischio da parte dell’agente. Quest’ultima ipotesi è
giustificata dal fatto che l’agente, proprio perché opera in condizioni di incertezza,
non è disposto a subire tutte le conseguenze delle azioni intraprese; se poi risultasse
neutrale al rischio, parteciperebbe lui stesso al rischio d’impresa e questo lo
renderebbe un azionista. Pertanto, affinché l’agente sia disposto a partecipare, il
contratto deve essere economicamente conveniente e in grado di garantirgli il livello
di utilità di riserva, pari cioè all’utilità che riceverebbe nella migliore alternativa.
Il vincolo di incentivazione tiene conto invece del conflitto d’interesse fra le parti,
causato dal fatto che le azioni che l’agente deve intraprendere nell’interesse del
principale hanno per lui un costo pari allo sforzo e all’impegno che deve sostenere e
dall’inevitabile tendenza dell’agente ad agire massimizzando la sua funzione di
utilità, il suo self-interest. Quindi le parti coinvolte possono avere interessi divergenti
e, oltre a ciò, si deve considerare l’incertezza che caratterizza lo scenario in cui si
opera, la quale consente al principale di osservare e verificare non le azioni e i
comportamenti dei managers e lo sforzo effettivamente sostenuto, ma solo il risultato
finale, senza che sia possibile sapere quanta parte di tale risultato dipenda
effettivamente dall’impegno dell’agente e quanta dal caso. È dunque necessario
1 La grande impresa manageriale e la Corporate Governance
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eliminare i problemi dello shirking, ovvero la tendenza del manager ad eludere lo
sforzo, e di azzardo morale e azione nascosta, che possono essere risolti parzialmente
individuando dei meccanismi volti ad influenzare le azioni degli agenti (non
specificate dal contratto), incentivandoli ad agire nell’interesse degli azionisti che,
almeno in parte, deve coincidere con il loro personale interesse.
Il rispetto dei due vincoli genera contratti a compenso variabile in modo tale che una
parte di tale compenso sia fissa e l’altra sia legata agli obiettivi e ai risultati aziendali.
Rispetto ad una situazione ottimale di benchmark caratterizzata da assenza di
asimmetria informativa, in cui è possibile direttamente osservare lo sforzo del
manager e retribuirlo di conseguenza in base alle sue effettive prestazioni, lo scenario
che si delinea nella pratica è invece una situazione di second-best, in cui il contratto
stipulato, necessariamente incompleto in quanto specifica il tipo di prestazione ma
non la qualità della stessa, è detto incentivante perché lega le retribuzioni degli agenti
ai risultati aziendali, rendendoli partecipi del rischio e allineando maggiormente gli
interessi delle parti. La soluzione individuata è definita di second-best poiché
comporta mediamente un livello salariale più elevato per l’agente e un profitto
aziendale mediamente più basso per il principale. La differenza dei profitti che si
sarebbero ottenuti nelle condizioni ottimali e in quelle effettive rappresenta i costi di
agenzia che inevitabilmente è necessario sostenere per fornire gli incentivi, per
controllare l’operato dei managers e per sopportare una riduzione dei profitti.
La situazione può essere modellata dalla Teoria dei Giochi e rappresentata come un
gioco sequenziale in due mosse in cui il principale muove per primo, scegliendo
un’azione corrispondente ad un certo livello di retribuzione per il manager e al
secondo stadio quest’ultimo, dopo aver osservato la mossa del primo, sceglie la sua
strategia, ovvero un certo livello di impegno. I payoff che si ottengono alla fine del
gioco, sono rappresentati dalle funzioni di utilità per entrambi i giocatori. È possibile
rappresentare tale modello in termini matematici con un semplice esempio.
Si supponga una situazione ottimale caratterizzata da piena informazione; la funzione
di utilità dell’agente è
null = √ null – ( null – 1)
dove w è il livello di retribuzione ed e il livello di sforzo sostenuto. L’utilità
dell’agente è data dunque dalla differenza fra l’utilità derivabile dalla retribuzione e
1.2 Il modello principale-agente e i costi di agenzia
12
la disutilità dello sforzo. Supponiamo che i ricavi totali possano essere pari a 36 o a
6, a seconda dell’impegno del manager
null null = 36; null null = 6
che l’impegno possa essere alto o basso
null null = 2; null null = 1
e che con un elevato livello di sforzo si possano ottenere i ricavi più elevati con
maggiore probabilità, ma non con certezza a causa della componente di aleatorietà
non controllabile, e viceversa:
con null null si ottiene null null con null null = 2/3e null null con 1 − null null = 1/3
con null null si ottiene null null con null null = 1/3 e null null con 1 − null null = 2/3.
Infine, per rispettare il vincolo di partecipazione è necessario che l’utilità dell’agente
sia almeno uguale all’utilità di riserva null ^ che si suppone pari a 1.
In una situazione di benchmark in cui lo sforzo è perfettamente osservabile, il
principale è in grado di remunerare l’agente esattamente in base alle prestazioni: se il
livello di sforzo è elevato null null = 2 allora la funzione di utilità dell’agente è la
seguente
null = √ null – null null null – 1 null = 1 cui corrisponde un salario pari a null null = 4
mentre se il livello di sforzo è null null = 1 allora gli viene corrisposto un salario nullo
null null = 0.
Nel primo caso l’impresa farà profitti pari a null null = null null null null
+ (1 − null null ) null null − null null = 22,
nel secondo caso i profitti saranno pari a null null = null null null null + (1 − null null ) null null − null null = 16.
Un salario fisso dunque fa sì che l’agente non sopporti alcun rischio che invece
ricade interamente sul principale.
Tuttavia se lo sforzo non è osservabile, con un contratto che fissa la retribuzione
dell’agente al livello superiore null null = 4 in cambio di uno sforzo null null = 2, il manager è
indotto ad eludere lo sforzo e quindi a prestare null null = 1, in modo da massimizzare la
sua funzione di utilità che pertanto risulterebbe
null = √ null null – null null null – 1 null = √4– null 1 – 1 null = 2
cui corrisponderebbe un profitto per il proprietario pari a
null = null null null null + (1 − null null ) null null − null null = 12.
1 La grande impresa manageriale e la Corporate Governance
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E se anche il principale anticipasse l’agente, prevedendo che il livello di impegno
garantito potrebbe essere null null , gli offrirebbe un salario null null = 1 che garantisce il
rispetto del vincolo di partecipazione per il manager, la cui utilità sarebbe
null = √ null null – null null null – 1 null = √1– null 1 – 1 null = 1
ma non arriverebbe a massimizzare i profitti come nella situazione ideale, perché
questi risulterebbero pari a
null = null null null null + (1 − null null ) null null − null null = 15.
Se invece si ricorre ad un contratto incentivante che sia in grado di allineare
parzialmente gli interessi, garantendo una remunerazione pari a null null se i ricavi sono
elevati null null , e pari a null null in caso si ottengano ricavi pari a null null , dovrebbero essere
soddisfatti i seguenti due vincoli:
null null √ null null + (1 − null null ) √ null null − ( null null − 1) ≥ null ^ (vincolo di partecipazione)
null null √ null null + (1 − null null ) √ null null − ( null null − 1) ≥ null null √ null null + (1 − null null ) √ null null − ( null null − 1)
(vincolo di incentivazione)
Risolvendo le due equazioni si trovano i seguenti valori null null = 9 e null null = 0 e quindi,
in media, l’agente riceve
null = null null null null + (1 − null null ) null null = 6
e l’impresa fa profitti pari a
null = null null null null + (1 − null null ) null null − null = 20.
Di conseguenza in media l’agente riceve un salario più elevato perché deve essere
ricompensato per il rischio che si assume, il principale invece realizza un profitto più
basso rispetto al caso benchmark e questa differenza rappresenta per l’appunto i costi
di agenzia.
È opportuno considerare che, sotto le ipotesi di neutralità al rischio del principale e
avversione al rischio dell’agente non è possibile raggiungere una soluzione ottimale
nel senso di Pareto. Un sistema di incentivi come quello ipotizzato non consente
infatti di eliminare completamente l’inefficienza che deriva dall’azzardo morale: per
quanto sia in grado di indirizzare il comportamento del manager verso un maggiore
sforzo, questo non arriva a massimizzare i profitti dell’azionista perché parte del
risultato dipende ancora da componenti aleatorie che inducono l’agente a preferire
uno stipendio composto da una parte fissa, che non dipenda dai risultati e
l’immediata conseguenza di ciò è una riduzione del suo impegno. Una soluzione
1.2 Il modello principale-agente e i costi di agenzia
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efficiente si avrebbe se il rischio fosse maggiormente ripartito tra le parti, in modo da
indurre l’agente, che costituisce la parte con le maggiori informazioni, ad agire in
modo ottimale, ma una situazione di questo genere comporta la neutralità al rischio
anche da parte dell’agente che quindi finirebbe con l’essere lui stesso un azionista.
A partire dagli anni ‘70 quindi, parte della letteratura economica ha cercato di
spiegare la struttura del capitale delle imprese introducendo i costi di agenzia e le
asimmetrie informative esistenti tra gli investitori esterni e coloro che operano al suo
interno. In merito ai costi di agenzia, Jensen e Meckling (1976)
2
hanno rivolto la loro
attenzione a quella soluzione contrattuale di equilibrio che è in grado di conciliare gli
interessi divergenti di tutti quei soggetti coinvolti nell’organizzazione. La loro
definizione di costi di agenzia richiama da vicino il problema dello shirking e del
monitoraggio reso necessario dalla produzione del team di Alchian e Demsetz (1972)
e caratterizza tutte le situazioni in cui si renda necessaria la cooperazione tra più
soggetti, anche quando non si è in presenza di un chiaro rapporto principale-agente
come quello delineato precedentemente. Ciò nonostante, la teoria elaborata da Jensen
e Meckling fa esplicito riferimento al rapporto che si instaura tra top management e
proprietari, siano essi azionisti o creditori, di un’organizzazione.
I costi di agenzia si presentano ogni qualvolta soggetti con interessi divergenti siano
coinvolti in un processo negoziale che può portare a soluzioni sub-ottimali, e
rappresentano pertanto la differenza tra il valore dell’impresa che si avrebbe se non si
verificasse alcun tipo di frizione e quello che si determina in seguito al processo di
negoziazione.
Una struttura proprietaria ottimale è dunque quella che minimizza i costi di agenzia
ed è in grado di massimizzare il valore dell’impresa.
Questi costi sono generati dalla presenza di due tipologie di rapporti conflittuali che
hanno luogo rispettivamente tra managers e azionisti, e tra azionisti e creditori.
Costi di agenzia del finanziamento esterno: il capitale azionario
Con riferimento al capitale azionario, i costi di agenzia si presentano come la somma
di tre componenti fondamentali:
2
M.C. Jensen e W.H. Meckling, Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs and
Ownership Structure (1976)
1 La grande impresa manageriale e la Corporate Governance
15
1. costi di monitoraggio sull’operato dei managers. Nell’interpretazione di J&M
questa voce non si limita alla semplice osservazione del comportamento
dell’agente ma, in senso più ampio, include lo sforzo sostenuto dal principale
per controllare tale comportamento mediante vincoli di bilancio, politiche di
compensazione, revisione interna etc.;
2. costi di bonding a carico dell’agente stesso per assicurare gli azionisti (schemi
rischiosi di remunerazione, pagamento del revisore esterno etc.);
3. perdita residua in termini di riduzione, inevitabile, della ricchezza del
principale.
Immaginiamo inizialmente che un manager/proprietario neutrale al rischio possieda
il 100% delle azioni di una società ed operi massimizzando la propria funzione di
utilità, data dalla somma dei benefici monetari (BM) derivanti dal reddito d’impresa
e dei benefici non monetari (BNM), quali il prestigio, l’ufficio. I benefici non
monetari presentano un costo che viene, in questo caso, interamente sostenuto dal
proprietario, il quale individua il mix ottimale delle due tipologie di benefici nel
punto in cui le utilità marginali nette dei BNM sono uguali tra di loro e uguali
all’utilità marginale netta del BM. Nel momento in cui il proprietario cede una quota
1-α dell’impresa vendendola sul mercato dei capitali, nel massimizzare la sua
funzione di utilità, sarà maggiormente incentivato ad impiegare le risorse aziendali
per ottenere BNM, dei quali continua a godere per intero ma sostenendo per essi un
costo inferiore, pari non più al 100%, ma ad α; al contempo otterrà solo la quota α
del profitto ovvero dei BM, sostenendone però per intero il costo pari cioè al suo
sforzo. Ciò che ne risulta è che, al diminuire della quota α del manager, diminuisce
l’incentivo ad impegnarsi per massimizzare il valore dell’impresa, perché l’utilità
marginale netta dei benefici non monetari supera l’utilità marginale netta di quelli
monetari, delineando chiaramente un problema di agenzia causato dalla divergenza
degli obiettivi. Si può così parlare di inefficienza ex post da ricondursi ad una
riduzione dei profitti residuali a causa del maggiore consumo di risorse per generare
BNM, e di inefficienza ex ante dovuta ad un problema di selezione sub-ottimale
degli investimenti da parte del manager che finisce con il respingere quei progetti a
maggiore profittabilità e quindi a maggiore rischio, ma che implicano
1.2 Il modello principale-agente e i costi di agenzia
16
automaticamente un maggiore sforzo. Evitare questi sforzi e le ansie causate da
determinati progetti di investimento, costituisce infatti per il manager un’altra forma
di utilità.
Dal momento che gli azionisti sono in grado di prevedere questa inefficienza,
scontano la divergenza di interessi richiedendo un underpricing, ovvero una sorta di
sconto sul prezzo delle azioni che determina a sua volta una riduzione del valore di
impresa.
Il modello
Il modello elaborato da Jensen e Meckling si fonda su una serie di ipotesi, alcune
permanenti, alcune invece che vengono in un secondo momento rilassate.
Assunzioni permanenti:
assenza di imposizione fiscale;
assenza di crediti commerciali;
i titoli degli azionisti esterni sono privi di diritto di voto;
non possono essere emessi strumenti finanziari complessi come obbligazioni
convertibili, azioni privilegiate o warrants;
l’utilità degli azionisti esterni si traduce in termini di effetti sulla ricchezza e
sui flussi di cassa;
si suppone che si debba prendere un’unica decisione di investimento;
il livello salariale del manager è considerato costante durante l’analisi;
esiste un solo manager con una quota di partecipazione nell’impresa.
Assunzioni temporanee:
la dimensione dell’impresa è fissa;
non sono possibili attività di monitoraggio e di bonding;
non è possibile indebitarsi attraverso obbligazioni, azioni privilegiate o prestiti
personali;
si ignora la presenza di incertezza e la possibilità di diversificazione del
rischio nelle decisioni di investimento.
Si definisce
1 La grande impresa manageriale e la Corporate Governance
17
null = { null null , null null , … , null null } il vettore delle quantità dei fattori e delle attività da cui derivano
i benefici non monetari del manager; il singolo null null è definito in modo tale che la sua
utilità marginale sia positiva.
null ( null ) il costo totale in dollari da sostenere per fornire una qualunque quantità di
questi beni.
null ( null ) il valore totale in dollari dei vantaggi produttivi derivanti all’impresa da X.
null ( null ) = null ( null ) − null ( null ) il beneficio netto in dollari.
Ignorando gli effetti di X sull’utilità del manager e di conseguenza sul suo salario di
equilibrio, il livello ottimo dei fattori e delle attività X è definito da X* in questo
modo
null null ( null ∗
)
null null ∗
=
null null ( null ∗
)
null null ∗
−
null null ( null ∗
)
null null ∗
= 0
Per ogni vettore null ≥ null ∗
, null ≡ null ( null ∗
) − null ( null ) > 0 misura il costo in dollari per
l’impresa per garantire l’incremento null − null ∗
dei fattori e delle attività che generano
utilità per il manager. Inoltre i valori di C, P, B e F sono i valori attuali di mercato, in
modo tale che si possa ignorare il fatto che queste spese avvengono nel tempo e che
le spese future sono incerte. Si consideri a questo punto il grafico null null null , in cui il valore
dell’impresa è riportato sull’asse delle ordinate e il valore di mercato delle spese per
BNM per il manager è misurato sull’asse delle ascisse.