II
Nella prima parte del mio lavoro ho cercato di ricostruire la
tradizione storica da cui discendono i moderni musei
d’impresa. Essi, infatti, si richiamano alla necessità di
classificazione e conservazione dei prodotti dell’industria
sentita già nel secolo scorso in occasione delle grandi
Esposizioni Universali. Allora, sotto la spinta del
progresso, nascevano, da un lato, le Esposizioni Universali,
emblema della modernità tecnico – scientifica, e, dall’altro,
i musei delle Arti e dei Mestieri (poi della Tecnica e
dell’Industria). In particolare, ho cercato di ripercorrere gli
eventi che hanno caratterizzato la nascita del Victoria and
Albert Museum, a Londra, e del Conservatoire des Arts et
Métiers, a Parigi (a cui si sono, poi, ispirati i musei
industriali di Vienna e Berlino, di cui parlo brevemente).
Ho seguito, successivamente, la storia delle prime raccolte
artistico – industriali nate in Italia. Sulla scia delle realtà
straniere, infatti, vengono aperti verso la fine del secolo
scorso due musei industriali, a Torino e a Roma, mentre a
Milano l’idea si ferma alla fase progettuale. Si tratta, in
tutti i casi, di realtà minori, inadatte a raggiungere il
successo ottenuto dalle analoghe esperienze all’estero.
Risale a un epoca più vicina a noi, gli anni ’60, in area
anglosassone, la nascita dell’archeologia industriale,
disciplina volta alla ricerca e alla tutela dei resti
III
dell’industrializzazione (dagli edifici ai macchinari, alle
infrastrutture territoriali legate alla produzione, etc.).
Anche in questo caso ho analizzato i primi sviluppi di
questa disciplina, con particolare attenzione per le
questioni che ne hanno segnato la fase originaria: il suo
approccio dilettantistico ma efficace, la mancanza di precisi
confini spazio – temporali per la ricerca, le apparenti
incongruenze presenti nella sua stessa definizione, etc.. Ho,
poi, accennato al ritardo e alle difficoltà cui tale disciplina
è andata incontro nel nostro Paese.
Nel decennio successivo, gli anni ’70, viene riscoperto e
rivalutato il materiale archivistico conservato più o meno
fortunosamente dalle aziende. Queste iniziano a sistemare i
propri documenti (fino ad allora rimasti esclusivamente
interni, strettamente funzionali), rendendoli agibili per lo
più ad un pubblico ancora specialistico (ricercatori,
studiosi, giornalisti, etc.).
A questo proposito ho ripreso il dibattito che ha
caratterizzato questa fase di riscoperta in Italia, in cui si
sono contrapposte le esigenze meramente analitico -
archivistiche e quelle strategiche delle aziende.
La prima occasione di contatto diretto tra azienda e
pubblico è avvenuta (di solito per particolari ricorrenze
dell’azienda, come il centenario della fondazione, etc.)
tramite mostre e pubblicazioni di materiale archivistico
IV
appositamente selezionato per essere facilmente fruibile da
tutti. Ho rilevato la particolare importanza che vengono ad
assumere in questo contesto le immagini connesse alla vita
dell’azienda, dalla produzione alle condizioni lavorative.
Da queste due grandi aree di interesse ed attenzione
culturale, archeologia industriale e archivistica d’impresa,
fonti non tradizionali per lo studio del passato, nascono in
Italia a partire dagli anni ’80 i primi musei aziendali
1
.
Se nel secolo scorso lo spirito di conservazione nasceva ed
era sostenuto dal sistema pubblico, oggi tutto è lasciato
all’iniziativa dei privati. La scelta di un’impresa di
investire in un proprio museo (o in una collezione, struttura
privata passo precedente al museo) trova quasi sempre
fondamento unico nell’interesse, nella passione per il
proprio lavoro (e per quanto ad esso è connesso) di un
imprenditore o di una famiglia imprenditrice.
L’impresa ricorre all’idea del museo per la sua particolare
valenza comunicativa, ma si può ipotizzare che essa insista
sulla valorizzazione del proprio percorso storico e dei
propri successi anche per enfatizzare il senso di
appartenenza e di partecipazione di tutti i suoi dipendenti
(situazione, questa, che si è rivelata determinante, ad
1
Non a caso il confine tra musei d’archeologia industriale, archivi e musei
aziendali è molto sottile, e molto spesso, quello che oggi è definito in toto
museo aziendale prevede al suo interno anche una sezione di archeologia
industriale e una di materiale d’archivio.
V
esempio, per il successo di un’economia quale quella
giapponese).
Nella seconda parte del mio lavoro ho utilizzato la corrente
del simbolismo organizzativo e, al suo interno,
l’applicazione alla realtà imprenditoriale della definizione
di cultura secondo Schein, per dimostrare come impegno e
coinvolgimento di tutti i membri dell’organizzazione
possano essere generati o reiterati dalla presenza di una
cultura organizzativa forte.
Il concetto di cultura di un’organizzazione si concretizza,
poi, in una serie di simboli specifici: i valori (le
convinzioni condivise), gli “eroi” (le persone più
rappresentative dei valori dell’organizzazione), i riti (tutti
gli eventi simbolici che rafforzano la condivisione dei
valori), le storie (i racconti di particolari avvenimenti
avvenuti all’interno dell’organizzazione, mitizzati col
passare del tempo e assunti quali situazioni – simbolo cui
fare riferimento per agire).
In particolare, ho analizzato la ricerca svolta da Burton
Clark negli anni ’70 sulle saghe organizzative individuate
in alcuni college negli Stati Uniti, dato che, quasi sempre,
le imprese costruiscono un proprio museo partendo
dall’esistenza di personaggi e momenti forti, “leggendari”,
al loro interno. Nel museo frequentemente vengono
ricostruite le fasi chiave della nascita e del consolidarsi
VI
dell’impresa, mettendo in luce il lavoro svolto dai
fondatori, da alcuni leader o anche, semplicemente, dalle
maestranze fedeli all’azienda in particolari situazioni di
crisi. Queste figure finiscono col dare vita a saghe
organizzative, racconti di eventi straordinari cui i
dipendenti credono e da cui si lasciano coinvolgere
emotivamente. L’azienda, tramite il proprio museo, si dà,
perciò, uno strumento di coesione interna e, insieme, crea
una cultura forte da presentare a chi entra o viene in
contatto con essa per la prima volta.
Concretamente, ho verificato tutto ciò nelle esperienze di
due note aziende italiane, in cui, in un caso è emersa la
forza della tradizione aziendale in una fase di revisione, e,
nell’altro l’azienda ha usato strumentalmente alcune
immagini simbolo per superare le resistenze dei dipendenti.
Nella terza parte del mio lavoro ho cercato di raccogliere le
caratteristiche comuni dei musei aziendali presenti in Italia.
Si tratta di una realtà nuova che ha conosciuto una
improvvisa crescita negli ultimi anni. Conseguentemente i
confini non sono ancora esattamente delimitati (questo può
essere rilevato dall’osservazione – confronto di musei,
collezioni e archivi d’impresa).
Ho analizzato una prima possibile classificazione di questi
musei, basata sull’oggetto al centro della raccolta
aziendale.
VII
Ho, poi, osservato il rapporto che si crea tra azienda, museo
e pubblico, in particolare l’utilizzo del museo come
strumento di comunicazione per l’azienda.
Nell’ottica della comunicazione esterna, infatti, l’azienda
investe in un museo perché convinta che mostrare la propria
storia, la propria tradizione produttiva, le competenze
accumulate nel tempo, possa diventare valore aggiunto per
il proprio prodotto (ormai realizzato in serie all’interno di
sistemi produttivi privati di ogni riferimento territoriale).
Successivamente la mia analisi si è spostata sul piano
pratico con la visita a quattro musei, scelti tra quelli che mi
sono sembrati più significativi: la Galleria Guglielmo
Tabacchi (Gruppo Sàfilo) e il Museo dell’Occhiale di Pieve
di Cadore, come esempi di realtà strettamente legate
all’attività di un distretto produttivo e, nel primo caso,
della passione di un imprenditore per il proprio lavoro; il
Museo dell’olivo – Fratelli Carli come esempio di museo
complementare (in cui, cioè, non può essere esposto il
prodotto dell’azienda, ma quanto ad essa è connesso),
interessante anche per il suo essere parte di un’azienda con
un particolare stile di rapportarsi ai clienti nella
distribuzione; e il Museo Piaggio (o, meglio, il suo
progetto, dato che per una serie di motivi la sua
realizzazione è in ritardo rispetto alle previsioni), che
VIII
ospiterà uno dei simboli economici e sociali dell’Italia del
Dopoguerra: la Vespa.
In tutti i casi ho avuto la possibilità di raccogliere
informazioni direttamente dai curatori degli allestimenti e
dai referenti interni alle aziende.
Da ultimo, riporto i risultati di una breve ricerca che ho
svolto in rete sull’esistenza di musei aziendali anche
all’estero.
1
1
I PRIMI MUSEI DELL’INDUSTRIA IN EUROPA
1.1 VICTORIA AND ALBERT MUSEUM - LONDRA
“È un po’ un luogo comune che
l’Esposizione del 1851 al Crystal Palace
abbia segnato l’apogeo della carriera
dell’Inghilterra come «officina del mondo»”
1
Siamo ormai alla seconda fase dell’industrializzazione
quando la Prima Esposizione Universale, inaugurata a
Londra nel maggio del 1851, ufficializza il nuovo sistema
economico e commerciale diffusosi in Inghilterra.
Già nella prima metà dell’800, con le iniziali forme di
organizzazione industriale, si nota un crescente interesse
per le fiere commerciali. Ma, per lo più, si tratta di
avvenimenti locali, volti a raggiungere un pubblico
limitato.
1
David S. Landes, The Unbound Prometeus, Cambridge University Press, 1969
(trad. it. Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo
industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino,
1978, p.164).
2
L’esposizione londinese, “The Great Exhibition of the
Works of Industry of All Nations”, al contrario, ha
dimensioni inimmaginabili.
Gli espositori sono quasi 14.000 (di cui almeno la metà
inglesi); nei sei mesi di apertura 6 milioni di visitatori
paganti passano in rassegna i circa 100.000 oggetti esposti
2
,
quello che nelle intenzioni degli organizzatori doveva
essere il meglio della produzione industriale dell’epoca,
mostrata senza un preciso ordinamento, insieme ad oggetti
di genere vario.
Promotore di questa esposizione fu Henry Cole, un
funzionario civile inglese cui faceva capo un gruppo di
riformatori composto da pittori, scultori e architetti.
A differenza di Ruskin e Morris, Cole non voleva un ritorno
all’artigianato rifiutando la meccanizzazione; il suo scopo
era migliorare la produzione senza rifiutare la
meccanizzazione.
Egli riteneva necessario eliminare il divario creatosi tra
artisti e industriali, al fine di ricostruire l’unità tra arte e
produzione. È Cole a coniare il termine art - manufacturer
3
,
per indicare le belle arti applicate all’industria. A suo
2
Linda Aimone – Carlo Olmo, Le Esposizioni Universali 1851-1900. Il
progresso in scena, Allemandi, Torino, 1990, p.200.
3
Siegfried Giedion, Mechanization Takes Command, Oxford University Press,
1948 (trad. it. L’era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano, 1967, pp.323 –
325).
3
parere l’applicazione delle belle arti alla produzione
industriale avrebbe migliorato il gusto del pubblico.
Nel 1845 Cole vinse un concorso indetto dalla Society for
the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce
(più brevemente Society of Arts), il cui bando richiedeva la
creazione di un servizio da the for common use. Cole creò
un modello semplice ed economico, un oggetto bello in
relazione al suo basso prezzo, conformemente ai suoi
princìpi, secondo cui qualsiasi prodotto doveva dimostrarsi
prima di tutto funzionale.
Da questo momento in poi Cole intensifica la sua attività
propagandistica, da un lato curando piccole mostre di
prodotti industriali, dall’altro sostenendo le sue idee
tramite il Journal of Design, una rivista mensile che egli
pubblica tra il 1849 e il 1852.
Spinto dai successi ottenuti con le mostre alla Society of
Arts, Cole propone al Principe Consorte Alberto, presidente
della Society, di organizzare un’esposizione nazionale dei
prodotti dell’industria inglese, con la possibilità di vedere
ed imparare anche dalle industrie di paesi diversi. Le
iniziali resistenze vengono vinte anche grazie al successo
ottenuto dalla Esposizione Industriale di Parigi del 1849.
Come detto, l’Esposizione londinese raggiunge ottimi
risultati, suscitando l’interesse e l’ammirazione di molti
paesi europei.
4
Cole e il comitato esecutivo dell’Esposizione affidarono a
Joseph Paxton
4
la progettazione e la realizzazione della
sede, il Crystal Palace
5
, una innovativa struttura in vetro e
ferro che diventa il simbolo dell’architettura nata dalla
Rivoluzione Industriale, copiata, in seguito, in occasione di
diversi altri momenti espositivi.
L’idea di proporre in modo continuativo dei modelli, dei
termini di confronto all’industria, e insieme di educare il
gusto del pubblico, porta alla trasformazione del materiale
presentato nell’Esposizione in un Museo permanente.
Sorge così, nel 1852, il primo Museo per le arti decorative
ed industriali
6
, situato dapprima in Marlbouroughouse,
trasferito poi, nel 1857, nell’area di South Kensington, da
cui prenderà il nome. Nel 1899, in piena epoca vittoriana,
verrà ridenominato Victoria and Albert Museum.
Per la prima volta un museo non si occupa delle “arti
maggiori”, non colleziona dipinti o sculture, ma oggetti
4
Joseph Paxton (1801 – 1865), architetto costruttore di serre, inglese,
introdusse alcuni principi estremamente moderni nella costruzione: la
leggerezza delle strutture metalliche, la prefabbricazione e la modulazione
degli elementi, lo smontaggio e la ricomposizione di un intero complesso
espositivo, etc..
5
Il Crystal Palace, per altro costruito in tempi brevissimi per l’epoca grazie a
un grande dispiego di manodopera e all’uso di nuove tecniche, viene smontato
e ricostruito a Sydenham, sobborgo a sud di Deptford, per l’Esposizione del
1854. Nel 1866 viene parzialmente danneggiato da un primo incendio, per poi
finire interamente distrutto da un secondo incendio nel 1936.
6
Scegliendo questa tra le varie possibili denominazioni che si trovano per i
primi musei di questo genere: d’arte applicata, dell’artigianato e dell’industria,
d’arte e mestieri, artistico – industriale, d’arte industriale, etc., a riprova di
quanto fosse confusa la materia e di certo poco esaustiva la classificazione del
materiale raccolto.
5
comuni, frutto di quelle che erano dette, riduttivamente, arti
minori o applicate.
Tra il 1852 e il 1884 intorno al nucleo centrale del South
Kensington vengono aggiunti nuovi edifici.
In uno di loro viene sistemato il Museo dei Brevetti. La
raccolta comprendeva sia invenzioni realmente brevettate,
sia svariati esempi di dispositivi tecnici (le prime
locomotive di Stephenson, mietitrici, filatoi meccanici,
etc.).
Questa sezione del museo, dichiaratamente tecnica, veniva
presentata accanto a quella dedicata alle arti decorative,
rendendo evidente quanto ancora poco chiari fossero i
confini di un museo industriale.
Il South Kensington Museum fin dagli inizi non nascose i
suoi scopi commerciali. Esso proponeva al pubblico
(principalmente artigiani e classi medie) ogni sorta di
oggetti
7
, così come aveva fatto l’Esposizione Universale, al
punto da poter essere definito un museo – bazar. Non a caso
il South Kensington annovera tra i suoi tanti primati quello
di aver introdotto, agli inizi del ’900, l’apertura serale (così
da permettere la visita anche a chi lavorava), e quello di
offrire ai visitatori un ristorante interno
8
. Per altro, alcune
7
Gli oggetti erano stati suddivisi, secondo l’ordinamento dell’Esposizione, in
nove departments tipologici: Metalwork, Ceramic and Glass, Sculpture,
Furniture and Woodwork, Texiles and Dress, Prints, Drawing, Photographs,
Painting, più due reparti tematici: Indian e Far Eastern.
8
“The Dutch Kitchen”, aperto nel 1875. Alessandra Mottola Molfino, Il libro
dei musei, Allemandi, Torino, 1992, p.60.
6
delle sale del ristorante furono decorate dagli studenti di
Scuole d’Arte e da artisti appartenenti alla cerchia di
William Morris, secondo il volere di Cole, per il quale
l’edifico stesso doveva essere un museum of construction,
in cui provare ed esporre quanto più possibile ogni genere
di decorazioni edilizie.
Un’altra figura chiave nell’opera di sistemazione del South
Kensington Museum è Gottfried Semper
9
, architetto tedesco
rifugiatosi in Inghilterra nel 1848, già curatore di alcuni
padiglioni dell’Esposizione Internazionale del 1851 e
vicino alla cerchia di Cole.
Secondo il Semper era necessario intervenire nel campo
artistico - industriale su due versanti:
(a) migliorando i metodi di istruzione artistico – tecnica;
(b) educando il pubblico al gusto e al bello.
Tali obiettivi, a suo parere, potevano essere raggiunti
aprendo musei di arti decorative, con collezioni di oggetti
artistici, artigianali e industriali, a cui affiancare corsi,
conferenze e scuole di insegnamento professionale.
9
Gottfried Semper (1803 – 1879) svolse ricerche sui rapporti esistenti in
architettura tra struttura, decorazione, artigianato e cultura materiale. I suoi
scritti più famosi sono Wissenschaft, Industrie und Kunste (1852) e Der Stil in
den technischen und tektonischen Künsten (1861 – 63). Suoi i progetti della
Gemäldegalerie di Dresda (1847-55) e dei musei gemelli dell’Hofburg a Vienna
(1871 – 82).
7
Quindi, in generale, i primi musei industriali si pongono
due scopi:
1. migliorare le attività artistico – industriali tramite
l’istruzione di artigiani e specialisti, e incrementare la
produzione industriale nazionale;
2. raffinare e nobilitare il gusto delle masse.
Da questi due propositi non si discosta, ovviamente, il
South Kensington, il quale si fornisce di una biblioteca
scientifica contenente più di 70.000 volumi, e ospita fin dal
1856 una scuola d’arte
10
. Inoltre Cole, che resta direttore
del museo dalla fondazione fino al suo pensionamento nel
1873, mettendo in dubbio il valore dell’originalità e
dell’unicità dell’opera d’arte, fa circolare per le scuole
d’arte originali di valore minore, affinché possano essere
copiati da studenti ed apprendisti.
All’epoca della prima Esposizione Internazionale londinese
e della nascita del South Kensington il rapporto tra arte e
industria era un tema molto dibattuto
11
nell’Europa già
industrializzata.
10
La National Art Training School, destinata alla preparazione degli
insegnanti, viene trasferita dalla sua sede originaria nel 1853 a
Marlbouroughouse, e nel 1856 a South Kensington.
11
Nel 1856 il conte de Laborde, già inviato della Francia all’Esposizione del
1851, pubblica un trattato intitolato De l’Union des Arts et de l’Industrie,
richiamandosi esplicitamente al Semper. Il suo scritto inizia con una breve
storia dell’arte applicata, volta a dimostrare come in Grecia non esistesse
separazione fra artista e lavoratore dell’industria, e come tale separazione sia
sorta nel Medioevo, quando i prìncipi esentarono gli artisti da alcune leggi
valide invece per gli artigiani. Quando nel XIX secolo diminuì il fasto delle
corti, e quindi anche il numero di artigiani istruiti, il livello dell’arte
industriale calò. Per ovviare a questo stato di cose Laborde suggerisce che il