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Introduzione
Il presente lavoro riguarda il fenomeno della memoria overgeneral
(OGM), la tendenza a richiamare i ricordi del passato personale in maniera
generica. Dato che la memoria autobiografica è organizzata in una struttura
gerarchica caratterizzata da diversi livelli, dal più astratto e generico a quello più
specifico, l‘OGM rappresenta un fallimento della ricerca di informazioni
specifiche riferite ad un dato evento; infatti, invece di richiamare informazioni
sensoriali e percettive sull‘evento personale passato, presenti nell‘ultimo livello
della gerarchia, si verifica una interruzione prematura della ricerca ad un
primissimo livello (caratterizzato da associazioni semantiche), oppure ad un
livello intermedio (caratterizzato da descrittori categoriali).
La questione della memoria autobiografica overgeneral viene trattata
approfonditamente nei seguenti capitoli; nello specifico, nel primo capitolo viene
introdotta la memoria autobiografica, facendo riferimento ai primi studi che hanno
focalizzato la propria attenzione su questo particolare sistema di memoria, come,
ad esempio, gli studi classici di Galton (1879), Ribot (1882) e Freud (1899), e,
inoltre, vengono illustrati i modelli teorici che hanno descritto le caratteristiche
della memoria autobiografica, ponendo particolare attenzione al modello di
Conway e Pleydell-Pearce (2000).
Nel secondo capitolo, invece, viene affrontata la questione della memoria
autobiografica overgeneral, riportando gli studi che hanno indagato la relazione
tra OGM e psicopatologia, focalizzando l‘attenzione soprattutto sul disturbo
depressivo maggiore e sul disturbo postraumatico da stress. Nel terzo capitolo,
vengono descritti i meccanismi alla base dell‘OGM, in particolare, viene illustrato
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il modello CaR-FA-X (Williams, 2006), che mette in luce l‘esistenza di tre
processi cognitivi responsabili dell‘OGM: ruminazione (intrappolamento),
evitamento funzionale e ridotte capacità esecutive. Nel quarto capitolo viene
affrontato un‘ulteriore questione relativa alla dipendenza da sostanze stupefacenti.
Nello specifico, viene introdotto il concetto di dipendenza da sostanze
stupefacenti, elencando alcune delle droghe più conosciute, con le loro
caratteristiche. Vengono poi messe in luce delle caratteristiche peculiari dei
tossicodipendenti tra cui ridotte capacità esecutive e sintomi depressivi. A tal
proposito, vengono descritti alcuni studi che hanno indagato l‘esistenza di una
relazione tra OGM e dipendenze patologiche. Il quinto capitolo, invece, è dedicato
alla descrizione di uno studio che ha indagato, in maniera peculiare, il rapporto tra
OGM e dipendenza. Questo studio, infatti, rispetto ai precedenti, rappresenta un
importante contributo a livello teorico, ma anche nell‘ambito di ricerca e clinico.
Se da una parte contribuisce ad incrementare la conoscenza del rapporto esistente
tra ipergeneralità dei ricordi e dipendenza patologica da sostanze stupefacenti, di
cui attualmente si sa ancora ben poco, dall‘altra rappresenta un utile spunto per
favorire un incremento degli studi sperimentali in questa direzione, oltre che
favorire lo sviluppo di tecniche terapeutiche adeguate alle esigenze specifiche
della popolazione dei tossicodipendenti. L‘obiettivo principale dello studio era
quello di indagare il ruolo che può avere il funzionamento esecutivo sulla
specificità dei ricordi autobiografici in un campione di tossicodipendenti messi a
confronto con un gruppo di controllo. Nello studio sono stati indagati anche altri
aspetti; è stato verificato, infatti, se anche i sintomi depressivi e la ruminazione,
che in genere caratterizzano questa popolazione, potevano avere un ruolo
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nell‘OGM. Inoltre, è stato indagato il ruolo che i sintomi depressivi e la tendenza
a ruminare possono avere sulla valenza del ricordo (negativo vs. positivo), e se gli
individui con elevati livelli di disforia possono avere maggiori difficoltà nel
recupero dei ricordi specifici rispetto a quelli non disforici. Infine, un altro aspetto
indagato nello studio era relativo a due compiti di memoria l‘Autobiographical
Memory Test (AMT; Williams e Broadbent, 1986) e il Sentence Completion for
Events from Past Test (SCEPT; Raes, Hermans, Williams e Eelen, 2007), messi a
confronto per verificare se il primo avrebbe permesso ai partecipanti di recuperare
più ricordi autobiografici specifici rispetto al secondo. Nel capitolo vengono poi
descritti, in maniera dettagliata, il metodo impiegato nello studio, descrivendo gli
strumenti utilizzati nel corso della ricerca, i partecipanti che hanno preso parte allo
studio, e il modo in cui esso si è svolto. Inoltre, vengono illustrati i risultati
ottenuti che, rispetto alle ipotesi di partenza e alle teorie di riferimento, presentano
conferme ma anche risultati inattesi. Infine, viene messa in luce l‘originalità dello
studio e le possibili implicazioni a livello teorico e pratico.
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CAPITOLO 1
LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
1. Dalla classificazione della memoria alla definizione della
memoria autobiografica
La memoria è una struttura molto complessa in grado di ritenere
l‘informazione e di conservarla nel tempo. Possedere una struttura che sia in
grado di codificare, ritenere e successivamente recuperare l‘informazione
rappresenta un indubbio vantaggio evolutivo. Ogni aspetto della vita e del
comportamento è strettamente associato e guidato dalla memoria delle esperienze
passate: la memoria rappresenta lo strumento che consente di conservare nel
tempo traccia delle conoscenze apprese e quindi di adattarsi continuamente
all‘ambiente. Lontano dall‘essere una singola facoltà mentale, governata da
semplici processi e regole, la memoria può essere suddivisa in sistemi diversi,
ciascuno con caratteristiche e aspetti distinti e complessi.
Una prima distinzione che si può operare tra i sistemi di memoria è quella
già proposta da Hebb (1949), che ha ipotizzato l‘esistenza di due magazzini di
memoria: uno a breve termine e l‘altro a lungo termine. Le sue intuizioni sono
state confermate, nel corso degli anni ‘60 e ‘70, da studi empirici sulle
compromissioni mnestiche di pazienti amnesici (Shallice e Warrington, 1970).
Nonostante Hebb (1949) sia stato uno dei primi ad ipotizzare una tale
distinzione della memoria, uno dei maggiori contributi alla comprensione dei
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sistemi di memoria è quello proposto da Atkinson e Shiffrin (1968), il cui modello
è stato definito ―multi-magazzino‖ o ―multi-processo‖. Secondo i due autori
esistono tre diversi tipi di ―magazzini‖ della memoria:
1. un primo magazzino, definito sensoriale, che conserva le informazioni per
un tempo brevissimo, tenendo conto anche della modalità sensoriale con
cui è stata percepita l‘informazione;
2. un secondo magazzino della memoria, definito a breve termine, anch‘esso
con capacità limitata che consente di conservare i dati, opportunamente
codificati, fino a 30 secondi;
3. un magazzino di memoria a lungo termine, che ha una capacità di
ritenzione potenzialmente illimitata e consente di conservare
l‘informazione da alcuni giorni fino ad un periodo di tempo pari alla
propria vita.
Baddeley e Hitch (1974) hanno definito la memoria a breve termine,
―memoria di lavoro‖ (working memory), un sistema multicomponenziale che
facilita una serie di attività cognitive quali il ragionamento, l‘apprendimento e la
comprensione. La memoria di lavoro è composta da tre sottosistemi: il circuito
fonologico che facilita l‘acquisizione del linguaggio, il blocco per appunti visuo-
spaziale che manipola le rappresentazioni visuo-spaziali e sembra coinvolto
nell‘acquisizione della conoscenza semantica (in particolare sul modo in cui
appaiono gli oggetti e su come usarli) e infine l’esecutivo centrale, un sistema di
controllo che regola il funzionamento dei due sistemi assertivi.
Quest‘ultimo sistema, in particolare, riveste, secondo gli autori, un ruolo
importante perché si presenta più come un sistema attentivo che un sistema di
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memoria vero e proprio; l‘esecutivo centrale risulta, infatti, coinvolto nei processi
di pianificazione e presa di decisione, di selezione delle strategie, permette
d‘integrare informazioni provenienti da fonti differenti e potrebbe essere situato
nei lobi frontali, anche se esistono evidenze empiriche per cui tale sistema a sua
volta non sarebbe unitario, ma suddiviso in diverse componenti, localizzate in
aree cerebrali diverse (Eslinger e Damasio, 1985).
Successivamente, Baddeley (2003) ha introdotto nel suo modello una
quarta componente: il buffer episodico, un sistema monitorato dall‘esecutivo
centrale e accessibile a livello cosciente, che presenta una limitata capacità di
immagazzinamento delle informazioni in un codice multimodale che lega insieme
le informazioni dei due sottosistemi e della memoria a lungo termine per formare
un‘integrata rappresentazione episodica.
Parallelamente allo sviluppo dei modelli di memoria a breve termine, altri
autori hanno proposto ipotesi e teorie su sistemi complessi e multicomponenziali
di memoria a lungo termine. Tulving (1972), ad esempio, è stato il primo autore a
distinguere un magazzino di memoria episodica, che permette di organizzare i
ricordi di eventi vissuti personalmente in un momento specifico della propria vita
e un sistema di memoria semantica che, invece, contiene rappresentazioni
proposizionali di conoscenze generiche e fattuali che hanno perso il loro carattere
spazio-temporale e che non sono, perciò, associate ad episodi o eventi specifici.
La memoria episodica e quella semantica contengono tipi di informazioni
differenti e si distinguono anche per i processi di conoscenza e il livello di
consapevolezza che caratterizzano la codifica e il recupero delle informazioni.
Secondo Tulving (1972), infatti, solo i ricordi episodici implicano una conoscenza
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autonoetica (conoscenza di se stessi), cioè, una consapevolezza di sé nel tempo e
nello spazio. La memoria semantica, invece, è legata ad una forma di conoscenza
noetica, cioè ad un‘esperienza consapevole di dati e di fatti, senza alcun
riferimento a sé.
Squire (1987) distingue la memoria in: dichiarativa, che include la
memoria episodica e semantica, implicando sempre un fenomeno di rievocazione
consapevole e verbalizzabile di un evento, e procedurale, che, invece, non
richiede una partecipazione della coscienza nei processi di registrazione e di
recupero dei ricordi e si associa a tutti gli apprendimenti automatici, non
consapevoli e non verbalizzabili, che caratterizzano i gesti abitudinari.
Un‘ulteriore distinzione è quella tra memoria retrospettiva e memoria
prospettica. La prima fa riferimento ai ricordi passati, mentre la seconda si
riferisce alla capacità di immagazzinare e recuperare informazioni relative ad
azioni che devono essere compiute nel futuro (Burgess e Shallice, 1997).
L‘interesse per la memoria autobiografica è nato proprio a partire dalle
prime differenziazioni di Tulving (1972) e di Squire (1987) riguardo ai magazzini
di ricordi a lungo termine. In particolare, Tulving (1983) ha definito i ricordi
autobiografici come ricordi di eventi personali che non appartengono a degli
script generici o alla memoria semantica di fatti personali, ma, piuttosto, alla
memoria episodica e forniscono una narrazione personale dell‘individuo.
2. La memoria autobiografica
Nel corso dello sviluppo degli studi psicologici sulla memoria nasce
sempre di più la consapevolezza di dover indagare la soggettività individuale, e
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per questo motivo la memoria autobiografica assume certamente un ruolo centrale
per poter riflettere sugli aspetti di unicità e di originalità dell‘individuo. Essa
viene comunemente considerata come la funzione umana che consente di
ricostruire gli eventi passati in modo che forniscano una visione continuativa di se
stessi (Tulving, 2002). La memoria autobiografica, più delle altre funzioni
mentali, consente un punto di incontro tra cognizione e personalità, intersecando,
cioè, le funzioni cognitive, le componenti del sé, le capacità narrative e di
regolazione affettiva dell‘individuo (Conway e Rubin, 1993). Se la memoria,
considerata in termini generali, consente alla mente di operare anche con stimoli
non più presenti nel campo concreto dell‘esperienza, la memoria autobiografica ha
il compito specifico di aiutare le persone a conservare e rielaborare continuamente
la conoscenza di se stessi. Infatti, un grave deficit in questo tipo di memoria
rappresenta per la persona stessa una vera e propria perdita di sé (Leone, 2001).
Quindi, in generale, quando parliamo di memoria autobiografica ci riferiamo a
tutti quei ricordi che una persona ha delle proprie esperienze di vita (Robinson,
1986).
Williams (2006) paragona i ricordi autobiografici a degli incroci, per
mettere in luce come essi rappresentano dei veri e propri punti di riferimento che
ci orientano e ci consentono di affrontare e risolvere i nostri problemi e di
raggiungere le nostre destinazioni. Senza ricordi saremmo persi. Ma, ovviamente,
bisogna sapere quali sono gli aspetti del ricordo che possono essere utili in un
determinato contesto, perché, solo così, potranno orientarci nel mondo evitando,
talvolta, di commettere gli errori fatti già in passato. La memoria autobiografica è,
perciò, centrale per il funzionamento umano, contribuisce alla strutturazione del
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sé, all‘azione del sé nel mondo e consente all‘individuo di perseguire i propri
obiettivi facendo riferimento alle proprie esperienze passate (Williams, Barnhofer,
Crane et al., 2007).
La memoria autobiografica rappresenta una delle aree di studio più
complesse della psicologia e, nonostante una lunga storia di ricerca empirica, ad
oggi non esiste ancora un pieno consenso sulla sua ontogenesi, sulla sua struttura
e sulla sua relazione con gli altri sistemi di rappresentazione dell‘esperienza
umana (Smorti, 2007). Il motivo di questo disaccordo può dipendere dal fatto che
la memoria autobiografica presenta molteplici sfaccettature ed è stata indagata e
studiata da diversi orientamenti teorici. La neuropsicologia, ad esempio, si è
occupata di descrivere i correlati neuroanatomici e gli aspetti neurobiologici del
funzionamento autobiografico (Conway e Fthenaki, 2000; Schachter e Scarry,
2000; Wheeler, Stuss, e Tulving, 1997). Gli studiosi di psicologia cognitiva si
sono dedicati all‘analisi dei contenuti e delle rappresentazioni dei ricordi e della
loro disponibilità nel corso della vita (Conway, 1990; Conway e Pleydell-Pierce,
2000; Conway e Rubin, 1993; Pillemer, 2001). I ricercatori della psicologia
evolutiva hanno studiato la qualità dello sviluppo della memoria nel bambino e il
fenomeno dell‘amnesia infantile (Fivush, 1993; Habermas e Bluck, 2000; Nelson,
1993; Pillemer e White, 1989). La psicologia clinica e la ricerca in psicoterapia,
invece, si sono orientate allo studio dell‘utilità dei ricordi autobiografici nella
pratica di assessment e in terapia (Angus e Hardtke, 2007; Fowler, Hilsenroth e
Handler, 1995; Singer, Baddeley, e Frantsve, 2008;). Altri ricercatori, infine,
hanno indagato la relazione tra memoria, emozioni (Levine, e Safer, 2002;
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Reisberg e Heuer, 2004) e cultura (Fiske, e Pillemer, 2006; Gur-Yaish, e Wang,
2006; Han, Leichtman e Wang, 1998).
In verità, ad oggi, non esiste nemmeno un pieno accordo sulla definizione
della memoria autobiografica, che, molto spesso, viene utilizzata come sinonimo
della memoria episodica. In realtà, la memoria autobiografica e quella episodica
sono due sistemi di memoria differenti e non equivalenti. La memoria episodica
contiene eventi del passato specifici esperiti personalmente dall‘individuo, la cui
durata può andare da qualche minuto a qualche ora mentre la memoria
autobiografica è un sistema di memoria più comprensivo, che non solo contiene
esperienze specifiche dell‘individuo con dettagli sensoriali e percettivi, ma
dispone anche di informazioni più generiche riferite al sé.
Ci sono, poi, autori che, da una parte, enfatizzano maggiormente gli aspetti
spazio-temporali dei ricordi (Fitzgerald, 1981), mentre dall‘altra, mettono il luce
la stretta relazione tra la memoria autobiografica e il sé, come Brewer (1986), che
definisce la memoria autobiografica come una memoria per le informazioni
riferite al sé.
Una definizione che cerca di conciliare entrambe le prospettive è quella di
Swales, Wood e Williams (2001) che definiscono la memoria autobiografica
come il ricordo di eventi esperiti personalmente, che possono essere richiamati
all‘interno di una relazione spazio-temporale, e che sono fondamentali per la
costruzione di una concezione del sé perché strutturano la storia di vita di ciascuna
persona.
Rubin (1986) sostiene, invece, che non è necessario cercare di definire in
maniera univoca la memoria autobiografica, perché questo potrebbe limitare la
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possibilità di descrivere tutte le caratteristiche naturali e complesse di questa
fondamentale funzione umana. La convinzione più diffusa, infatti, tra chi si
occupa dello studio della memoria autobiografica è che solo l‘integrazione tra i
diversi contributi derivanti da orientamenti teorici diversi (neuropsicologia,
psicologia sociale, clinica, e di personalità e dello studio delle narrazioni) può
contribuire a definire un costrutto così articolato e multisfaccettato (Rubin, 1996).
2.2 Studi classici sulla memoria autobiografica
Tutta la profondità e la complessità del tema dei ricordi autobiografici può
essere colta già a partire dai precursori degli studi attuali sulla memoria
autobiografica, collocabili tra la fine dell‘Ottocento e gli inizi del Novecento del
secolo scorso. Possiamo tracciare l‘inizio di un approccio empirico e sistematico
allo studio della memoria autobiografica a partire dai lavori di Galton (1879),
Ribot (1882) e Freud (1899) che sono stati i primi a proporre metodi differenti di
analisi dei processi di recupero dei ricordi personali.
Nel campo della memoria, l‘apporto di Galton (1879) è stato fondamentale
grazie all‘invenzione di una particolare tecnica che ancora oggi viene utilizzata e
indicata spesso in letteratura col termine anglosassone ―cueing‖. Questa
particolare tecnica venne poi perfezionata dallo stesso autore attraverso due
soluzioni tecniche differenti: un questionario su un particolare episodio della vita
quotidiana (il ricordo di come si presentava la tavola per la colazione mattutina,
Galton, 1880) e le associazioni che si presentavano liberamente a seguito di una
parola-stimolo (Galton, 1879).
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In base agli studi di Galton viene osservato come siano diversi i dati che si
possono ottenere in base al tipo di indizio (cue) fornito. Ad esempio, se viene
chiesto di recuperare un ricordo riferito ad uno specifico episodio quotidiano
(come, ad esempio, sedersi al tavolo per la colazione), è possibile osservare che il
ricordo richiamato è caratterizzato da molte informazioni sensoriali e percettive,
riferite all‘evento richiamato, soprattutto se l‘episodio in questione ha una
connotazione emotiva molto forte o è un evento che viene quotidianamente
ripetuto (come nel caso della colazione che viene fatta tutte le mattine e che,
perciò, è un‘attività di routine).
Per quanto riguarda il contributo di Ribot (1882), invece, le sue intuizioni
di base sull‘esistenza di una continuità sostanziale tra gli aspetti biologici e
psicologici della memoria e sul bisogno di chi ricorda di riuscire ad orientarsi
nella propria memoria autobiografica, sono perfettamente plausibili ancora oggi.
Ribot sosteneva che per orientarsi nel flusso dei ricordi sono necessari dei punti
fermi e ciò è possibile nella memoria autobiografica attraverso la selezione di
alcuni ricordi, che agiscono come punti di riferimento e che consentono di
distinguere avvenimenti avvenuti in precedenza da quelli accaduti
successivamente (ad esempio, prima della laurea, dopo il matrimonio, dopo la
nascita di mia figlia…). Questi punti di riferimento non vengono scelti in maniera
arbitraria dall‘individuo, ma, al contrario, si impongono; inoltre, mentre la
maggior parte di questi punti è legata alle vicende private di chi ricorda, alcuni
sono condivisi anche dalla famiglia e dalla società, consentendo al punto di vista
di un gruppo sociale più ampio di penetrare un‘area che è prettamente individuale
e soggettiva come la memoria autobiografica.
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Anche l‘opera di Freud (1899) ha dato grande rilievo ai ricordi
autobiografici. Freud, in particolare, nel tentativo di comprendere le cause dello
sviluppo dei sintomi psichici, ha considerato tali sintomi come rappresentativi di
un ―blocco ricorsivo‖ della memoria autobiografica. Il sintomo è visto come un
compromesso che consente, da una parte, di velare il ricordo che è inaccettabile
per la coscienza dell‘individuo e, dall‘altra, di mettere in scena questa difficoltà
del paziente che non è in grado di ricordare, ma neanche di dimenticare del tutto.
La memoria autobiografica è intesa come un insieme di esperienze mentali che
possono essere comprese tramite un‘attività di interpretazione che avanzi un
ragionevole sospetto sul contenuto di superficie, con cui queste esperienze si
manifestano alla coscienza dell‘individuo. È, perciò, una superficie che nasconde
delle dinamiche più profonde che vanno al di là della consapevolezza
dell‘individuo.
2.3 Lo sviluppo della memoria autobiografica
Una caratteristica estremamente importante della memoria autobiografica
è il fenomeno conosciuto come ―amnesia infantile‖. Questo termine si riferisce al
fatto che è estremamente inusuale per un individuo avere la capacità di ricordare
eventi che hanno avuto luogo prima dei due anni di età e che i ricordi riferiti al
periodo compreso tra i 2 e 5 anni sono relativamente infrequenti (Nelson, 1993).
Al di sotto dei 5 anni c‘è una possibilità minima di accedere ai ricordi
autobiografici, perché nella corteccia frontale c‘è un addensamento delle sinapsi,
che tende a ridursi solo dopo il primo anno e tale cambiamento risulta
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particolarmente evidente a partire proprio dai 5 anni. Questa degenerazione
sinaptica rende i processi frontali più veloci ed efficienti (Kolb e Wishaw, 1995).
Evidenze sperimentali hanno messo in luce che, quando viene chiesto ad
un adulto di ricordare o generare ricordi riferiti all‘infanzia a partire da un set di
parole stimolo, l‘età media a cui risalgono i primi eventi ricordati è intorno ai 3-4
anni di età. In particolare, presentano una scarsità di ricordi riferiti ad un periodo
precedente ai 7 anni e non presentano alcun ricordo precedente ai 3 anni (Wetzler
e Sweeney, 1986). Weigle e Bauer (2000) hanno confermato che i ricordi riferiti
al periodo prescolastico sono rari. Bruce, Dolan e Phillips-Grant (2000) hanno
sviluppato una tecnica per stimare quando i ricordi autobiografici assumono un
certo grado di continuità con il passato, e hanno osservato che ciò non si verifica
prima dei 4 anni e mezzo. Quindi, anche se alcuni ricordi frammentari potrebbero
iniziare ad emergere abbastanza presto sono comunque molto rari e il senso di
continuità col passato non avviene prima della fine del periodo prescolare.
Numerose sono le teorie che hanno cercato di capire le cause dell‘amnesia
infantile. Howe e Courage (1997), ad esempio, hanno messo in luce che, fino a
quando il bambino non sviluppa ciò che loro definiscono sé cognitivo (intorno ai
24 mesi), egli non sarà in grado di costituire delle informazioni autobiografiche di
base. Il raggiungimento del sé cognitivo preannuncia la fine del periodo di
amnesia infantile e consente al bambino di distinguere l‘Io dal me. Il bambino
diventa, cioè, abile nell‘esperire il proprio sé in quanto oggetto. L‘aspetto più
rilevante di questa teoria è che prima del 24° mese di vita il bambino, pur
disponendo di informazioni sugli eventi, non è ancora capace di organizzarli in un
sistema di sé strutturato.
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Conway e Pleydell-Pearce (2000) condividono il punto di vista di Howe e
Courage (1997), anche se la loro prospettiva presenta alcune differenze. Ad
esempio, nel loro approccio le informazioni sugli eventi sono filtrate dagli
obiettivi, e vengono perciò recuperate e attivate come informazioni rilevanti per
quegli stessi obiettivi. Dato che anche i neonati hanno degli scopi, legati
prettamente al soddisfacimento dei propri bisogni, nel perseguirli dispongono di
informazioni autobiografiche che sono strettamente connesse a quegli scopi.
Secondo i due autori, il bambino, prima dei due anni, dispone di una
memoria autobiografica contenente solo informazioni sugli eventi specifici non
concettualizzabili e immagazzinati nelle regioni posteriori del cervello. Solo
successivamente avviene un graduale sviluppo di informazioni autobiografiche
più astratte (eventi generali) che consentono, al momento del recupero, una
concettualizzazione degli eventi specifici.
La teoria di Conway e Pleydell-Pearce (2000) sostiene che una delle funzioni
principali dello sviluppo della memoria autobiografica è di garantire la
costruzione del sé, un scopo che mal si concilia con quello previsto dalle teorie
dell‘interazionismo sociale, come quella di Fivush e Nelson (2004), che
enfatizzano il ruolo dello sviluppo delle abilità linguistiche e la natura delle
interazioni sociali, e sostengono che lo scopo della memoria autobiografica è
quello di consentire la condivisione dei propri ricordi con gli altri.
La prospettiva dello sviluppo socio-culturale di Fivush e Nelson (2004), in
particolare, sostiene che la memoria autobiografica emerge quando i bambini
imparano a parlare dei propri ricordi, dando loro una struttura narrativa. Secondo