1
Introduzione
La risorsa più preziosa e utile nel lavoro con gli adulti è la loro esperienza; ciò significa,
prevalentemente, che fare leva sulle loro conoscenze e capacità può rappresentare la
chiave di volta di qualsiasi intervento. Questo comporta necessariamente focalizzarsi
sull’altro, coinvolgerlo e valorizzarlo. Sovente come operatori siamo convinti di
possedere già le soluzione per qualsiasi problematica, un po’ come dei medici di fronte
ad una malattia conosciuta. In realtà nell’ambito delle scienze umane spesso non è
possibile, ed a volte è del tutto infruttuoso, possedere una simile concezione, la quale
porta spesso alla costruzione di pericolosi rapporti verticali esperto-inesperto.
Oggigiorno la psicologia sta pian piano abbandonando questa concezione mutuata
dall’ambito medico-clinico, per spostarsi verso una dimensione più relazionale nel quale
l’alterità diventa potenzialità implicita e risorsa da valorizzare. Certo nella storia delle
scienze umane si sono incontrati degli autori che con le loro riflessioni hanno, per così
dire, anticipato questa nuova modalità d’intendere l’intervento. Si tratta di persone
profondamente convinte della natura estremamente positiva dell’essere umano e che
hanno adottato, nelle loro riflessioni e nei loro interventi, una «filosofia» di stampo
prettamente umanistico.
Questo lavoro di tesi rappresenta la sintesi di un percorso riflessivo finalizzato alla
ricerca e ri-scoperta del pensiero di alcuni autori, i quali possono essere facilmente
inclusi in una visione umanistica e profondamente positiva dell’essere umano. Abbiamo
spaziato, nel corso di questo lavoro, in campi non propriamente attinenti all’area
psicologica, soffermandoci spesso in ambiti pedagogici e filosofici; ciò è dovuto,
prevalentemente, al fatto che siamo profondamente convinti che l’area pedagogica così
come quella filosofica possano offrire interessanti spunti di riflessione qualora s’intenda
pensare la prassi psicologica.
Il percorso riflessivo al quale si faceva riferimento poc’anzi si è concretizzato col
tentativo di costruire uno spazio stabile che consentisse ai genitori di confrontarsi e di
dialogare apertamente su alcune tematiche concernenti l’educazione dei figli, il quale si
è più specificatamente tradotto nell’esperienza del laboratorio «Genitorialità, Scuola e
Famiglia». Si tratta, fondamentalmente, del tentativo di costruire un percorso il più
possibile centrato sulla persona e capace di valorizzare la sua soggettività, di farla
riemergere per arrivare ad una maggiore consapevolezza della stessa. A nostro avviso
non può sfuggire il parallelismo con l’approccio centrato sulla persona che caratterizza
2
l’ultimo periodo del pensiero di Carl Rogers. Ciò che occorre precisare fin da subito è
che la nostra proposta non è del tutto assimilabile alle riflessioni rogersiane, ma
rappresenta piuttosto il tentativo di un ampliamento delle riflessioni di questo
importante autore. La nostra ipotesi di partenza è stata quella di rintracciare, in un
ambito prettamente interdisciplinare, delle proposte che fossero in grado di ampliare le
riflessioni rogersiane. Ciò significa che quando utilizzeremo il concetto di approccio o
laboratorio centrato sulla persona non faremo esclusivamente riferimento alla prassi
rogersiana, quanto piuttosto alla proposta di un approccio capace di integrare proposte
differenti.
Nello specifico abbiamo analizzato proposte che, a prima vista, possono sembrare
estremamente differenti fra loro, ma che ad un’analisi più approfondita dimostrano
avere interessanti parallelismi.
Nel primo capitolo abbiamo affrontato una corrente pedagogica definita Pedagogia del
Dialogo, la quale ci ha consentito di svolgere alcune riflessioni circa la prassi di tre
autori differenti ma, per certi versi, collegati fra loro: Paulo Freire, Aldo Capitini e
Danilo Dolci. Questi tre autori ci hanno consentito di riflettere intorno ad alcuni concetti
quali partecipazione attiva dei soggetti, dialogo, coscientizzazione, tramutazione,
potere di tutti, risorse interne all’individuo e alla comunità. Abbiamo poi tentato di
inquadrare le tre prassi analizzate attraverso una chiave di lettura di tipo prettamente
psicologico-sociale che collima con il concetto di ricerca partecipante o action-research
proposto dalla scuola lewiniana, per poi concludere con una focalizzazione sulla
struttura maieutica proposta da Dolci, la quale può, dal nostro punto di vista, essere
considerata come una riflessione che accomuna tutte le esperienze presentate nel corso
del primo capitolo.
Il secondo capitolo è invece dedicato ad un’esperienza più vicina ai nostri giorni la
quale fa riferimento al cosiddetto movimento della Pedagogia dei Genitori, finalizzato
alla ri-appropiazione della genitorialità da parte di genitori di figli con disabilità. In
sintesi si tratta di un movimento finalizzato ad una lettura della famiglia come risorsa
cui attingere anziché come deficit o problema da affrontare. Siamo convinti che questa
esperienza non sia esclusivamente appannaggio delle situazioni di disabilità, ma che
possa essere facilmente generalizzabile a qualsiasi riflessione ed intervento concernente
il concetto di famiglia.
Il terzo capitolo tratta un concetto prettamente psicologico come l’empowerment il
quale, come cercheremo di mostrare, ha degli stretti parallelismi con i concetti di
3
capacitazione e coscientizzazione sviluppati nel corso delle riflessioni su Paulo Freire e
Danilo Dolci.
Il quarto capitolo si riferisce alle riflessioni sulla pratica non-direttiva proposta da Carl
Rogers e sulle importanti conseguenze che questa ha nella prassi psicoterapeutica,
educativa e negli interventi psicosociali, mentre il quinto capitolo rappresenta un primo
tentativo di sintesi che coincide con l’identificazione di un intervento centrato sulla
persona, il quale prende spunto, nella sua realizzazione, dalle caratteristiche o snodi
essenziali che abbiamo cercato di mettere in evidenza nel corso dei capitoli precedenti.
L’ultimo capitolo infine è il resoconto dell’esperienza che abbiamo condotto nella
costruzione del laboratorio «Genitorialità, Scuola e Famiglia», nel tentativo di condurre
una riflessione sugli elementi che hanno caratterizzato questa esperienza. Non si tratta
quindi di una trattazione imparziale e oggettiva quanto piuttosto di una visione del tutto
soggettiva, e quindi personale, sulla qualità del percorso da noi ideato, progettato e
realizzato.
4
Capitolo 1
Pedagogia del dialogo
L’educazione è ciò che libera
1
1.1. Alcune considerazioni su tre esperienze degne di nota
Vorremmo iniziare questo nostro lavoro con l’analisi di tre esperienze che ci hanno
profondamente colpito per la loro carica innovativa. Siamo sempre stati convinti
sostenitori dell’idea che il cambiamento individuale, così come quello comunitario o
sociale, abbia necessariamente una matrice interna all’individuo, attivabile attraverso un
processo di presa di coscienza della situazione in cui vive: occorre consapevolezza per
cambiare. Riteniamo inoltre che il cambiamento non possa mai essere imposto
esternamente, da un altro, ma che si attivi all’interno di un rapporto “dialogico” fra due
o più persone collocate sullo stesso piano.
La matrice interna propria di qualsiasi cambiamento ci spinge a considerare
quest’ultimo come un atto profondamente creativo e produttivo, che implica una
rilettura di se stessi e della situazione, attivabile all’interno di rapporti
fondamentalmente orizzontali fra due o più soggetti che, in reciproco rispetto,
dialogano.
Ne consegue che la compartecipazione fra soggetti diventa, dal nostro punto di vista, un
elemento di notevole importanza, da valorizzare in qualsiasi azione tesa al
cambiamento. Da qui l’impossibilità di considerare il soggetto come spettatore del
cambiamento,e la necessità di percepirlo come attore protagonista del suo processo di
crescita.
Queste brevi considerazioni, del tutto personali, emergono dalla lettura dei testi di tre
grandi pedagogisti del nostro tempo: Paulo Freire, Aldo Capitini e Danilo Dolci. Le loro
esperienze ci hanno appassionato e vorremmo riproporle perché hanno influenzato
notevolmente l’attivazione del progetto con i genitori che verrà analizzato alla fine di
questo lavoro.
L’esame di queste tre esperienze richiede necessariamente una breve descrizione del
contesto nel quale si sono sviluppate.
1
Gandhi, cit. in D. Dolci, La struttura maieutica e l’evolverci, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 33.
5
Inizieremo con Freire e l’ideazione dei circoli di cultura
2
.
L’attività pedagogica di Freire si muove all’interno di un contesto, quello brasiliano
della metà del secolo scorso, che viveva una profonda e radicale transizione economica,
politica e culturale. La società andava modificandosi in un processo orientato
prevalentemente dalle trasformazioni economico-industriali.
L’analisi proposta da Freire
3
ha come punto di partenza la descrizione di una società
prevalentemente “chiusa”: passiva nell’economia come nella cultura, quindi alienata.
Oggetto e non soggetto di se stessa. Una società senza popolo, antidialogica, impedita
di svilupparsi, senza vita urbana o con una vita urbana precaria, con allarmanti indici
di analfabetismo, ritardata e comandata da un’élite che era sovrapposta al paese
invece che integrata con esso
4
. Una società caratterizzata dall’«immersione» nel
processo di transizione, incapace di innalzarsi ad almeno una “spanna da terra” per
osservarlo dal di fuori con sguardo critico e indagante. Due le ragioni secondo Freire: da
un lato un’élite incapace di cogliere qualunque proposta popolare, spaventata dalla
possibilità di perdere i propri privilegi conquistati, alienata dall’ignoranza
5
e dall’altro
una enorme “massa” (non ancora popolo perché incapace di organizzarsi)
disorganizzata, incapace di scelta perché carente degli strumenti idonei a leggere la
realtà a giudicarla con pensiero critico, formata (quando lo era) in scuole che ribadivano
e confermavano la stessa realtà, con un tasso di analfabetismo preoccupante (quasi la
metà della popolazione in particolare nei centri rurali) , inserita in una “cornice”
costruita su dei presupposti autorinforzanti
6
e della quale difficilmente era possibile
accorgersi e distaccarsene. Questa condizione era, agli occhi di Freire, disumana e
disumanizzante: la società, così come l’individuo, priva della capacità di visualizzare la
2
Per un’analisi dei circoli di cultura freiriani vedi: P. Freire, L’educazione come pratica della libertà,
Milano, Mondadori, 1977; P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, 1976.
3
Consapevoli di non poter dedicare un’esaustiva analisi della società brasiliana in transizione descritta da
Freire, rimandiamo, al testo dell’autore Educazione come pratica della libertà, in particolare il primo
capitolo.
4
P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, op. cit., pp. 57-58.
5
L’alienazione dall’ignoranza si può ben comprendere attraverso la propaganda di alcuni uomini politici
brasiliani del tempo; Freire ci offre un chiaro esempio: appariva il busto del candidato con tante frecce
indicanti la sua testa, i suoi occhi, la sua bocca, le sue mani, e su queste frecce era scritto
Tu non hai bisogno di pensare, lui pensa per te
Tu non hai bisogno di vedere, lui vede per te
Tu non hai bisogno di parlare, lui parla per te
Tu non hai bisogno di agire, lui agisce per te
[P. Freire, Educazione come pratica della libertà, op. cit. p. 148.].
6
Un interessante esempio della presenza di circoli autorinforzanti la offre Freire nella sua analisi critica
all’educazione “depositaria” che caratterizzava la pedagogia istituzionale brasiliana: l’educatore, spiega
Freire, alienato dall’ignoranza si mantiene in posizioni fisse e invariabili. Sarà sempre colui che sa , il
depositario del sapere, al contrario gli educandi saranno sempre coloro che non sanno (gli ignoranti). Gli
educandi, a loro volta, riconoscono nella loro ignoranza l’esistenza stessa dell’educatore, giustificando
quindi la sua funzione e questo tipo di relazione, non arrivando a percepirsi, anche loro, educatori
dell’educatore [vedi P. Freire, La pedagogia degli oppressi, op. cit.].
6
sua condizione, di coglierne i temi critici, di conoscerli per intervenire, diveniva sempre
più soggetta a condizionamenti, prescrizioni sociali, direttive imposte quasi sempre
dall’élite dominante sottoforma di dono. L’individuo che ignora questo, diventa quindi
oggetto e non soggetto, ed è, come già detto, immerso nel processo di transizione,
incapace di emergere, di partecipare attivamente alla costruzione di una nuova società.
L’uomo e la società
7
sono passivi e passivamente subiscono il cambiamento, il più delle
volte senza accorgersene. Volendo mutuare un termine dalla psicologia, l’immagine che
questa breve descrizione ci offre è quella di una società in situazione di learned
helplessness cioè di passività appresa
8
. La situazione si aggrava ancora di più se
consideriamo che nella maggior parte delle situazioni l’esperienza di passività viene
sperimentata sotto la soglia di percezione, diventando quasi un modo d’essere, uno stile
di vita.
Nella nostra cultura i soggetti in condizione di passività appresa hanno comunque, chi
più chi meno, sperimentato nel corso della loro vita condizioni di attività, sentendosi
padroni del proprio destino e percependo una condizione di fiducia in sé; non a caso
sperimentano, nella condizione di passività, uno stato di malessere e di disagio: il
soggetto è quindi consapevole di un mutamento nella sua condizione, il che può
spingerlo ad adottare o a ricercare le soluzioni e le strategie più efficaci per ritornare ad
una condizione di benessere.
La preoccupazione più grande è per chi non si rende conto di questa possibilità, per chi
mai nella sua vita ha sperimentato l’attività della scelta, della partecipazione, della
libertà e della responsabilità della decisione; per chi è nato, e non diventato, passivo, per
chi è stato educato alla passività. Queste preoccupazioni caratterizzano l’intera opera di
Freire e in questi termini dev’essere letta la sua attività pedagogica.
Certo non troveremo nell’opera del pedagogista brasiliano nessun riferimento al
concetto di passività appresa, ma il suo obiettivo è senza dubbio quello di creare un
ponte da questa condizione verso una learned hopefullness
9
, verso l’apprendimento
7
Nell’analisi proposta da Freire, individuo e società si compenetrano a tal punto che ciò che è valido per
la società è altrettanto valido per l’individuo: parlare di società passiva, piuttosto che chiusa, significa
anche delineare un’idea di uomo fondamentalmente passivo e chiuso, che subisce e che in alcuni casi è
anche incapace di accettare qualsiasi forma di cambiamento o transizione.
8
Il concetto di passività appresa si riferisce all’incapacità/impossibilità di essere padroni della propria
vita, di saper gestire efficacemente gli eventi. Una comunità e al contempo anche un individuo in questa
situazione è quindi incapace di avviare un processo di presa di consapevolezza dei suoi bisogni/problemi
e di trasformazione della propria realtà [Sull’argomento vedi M.P.A. Seligman, Helplessness, San
Francisco, Freeman, 1975.].
9
M. Zimmerman J. Rappaport, Citizen partecipation, perceived control and psychological empowerment,
in «American Journal of Community Psychology», n. 16, 1988, ripreso in B. Zani A. Palmonari, Manuale
di Psicologia di comunità, Bologna, il Mulino, 1996.
7
della speranza, derivante dal controllo sugli eventi tramite la partecipazione e
l’impegno nella propria comunità
10
In termini più consoni al pensiero freiriano occorre favorire una transizione
dall’esperienza del vivere all’esperienza dell’esistere
11
. Esistere, spiega Freire, è più che
vivere, perché è più che essere nel mondo. Questa possibilità di comunicazione fra colui
che esiste e la realtà dà a questa parola una sfumatura di giudizio critico che la
semplice parola vivere non racchiude. Il potere di trascendere, di discernere, di
dialogare (comunicare e partecipare), è esclusivo dell’esistere
12
. Questa transizione
permette all’uomo di entrare in contatto con la realtà di sentirsi “padrone” della stessa,
significa avere potere sulla Storia e sulla Cultura. Potere esercitato accogliendo
l’esperienza del passato, creando e ricreando, integrandosi
13
, rispondendo alle sfide del
tempo, coscientizzandosi, diventando partecipe del processo di cambiamento nel quale è
inserito, ma che adesso è in grado di osservare e criticare coscienziosamente. Transitare
nell’esistere significa altresì favorire nell’individuo, così come nella collettività,
iniziative personali di scelta, significa promuovere il cambiamento dal basso. Si tratta di
iniziative necessariamente autentiche perché procedono da un’accettazione critica della
sfida che proviene dalla realtà. In tal modo l’uomo diventa soggetto della sua storia e
del suo cambiamento, diventa attivo nel suo processo di crescita; da spettatore del
cambiamento diventa attore: lo esige fermamente. Al contempo la transizione verso una
nuova società si tramuta da utopia irrealistica a vera e propria sfida.
10
B. Zani e A. Palmonari, Manuale di psicologia di comunità, op. cit., p. 73.
11
La parola esistere deriva dalla radice latina ex-sistere e significa letteralmente venir fuori da,
emergere,[cfr. R. May, The origins and significance of the existential movement in psychology, in R. May
E. Angel H. F. Ellemberger (a cura di), Existence: a new dimension in psychiatry and psychology, New
York, Basic Books, 1958 cit. in E. Giusti e A. Iannazzo, Fenomenologia e integrazione pluralistica,
Roma, Nuove Edizioni Romane, p. 35, 1998.] diventa quindi chiaro come l’esperienza del vivere sia da
considerarsi differente da quella dell’esistere. L’emergere, relativo all’esistere fa riferimento in questo
caso alla possibilità dell’individuo di agire concretamente sulla realtà, di non esserne schiacciato o
immerso (come avviene nell’esperienza del vivere), al potere di intervenire e di essere soggetto della sua
storia: con l’emergere il soggetto, se prima era solo spettatore del processo storico, adesso non vuol più
stare con le braccia incrociate, non vuole essere più spettatore, ma esige la partecipazione. Non gli basta
più assistere. Vuole prendere parte [P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, op. cit., p. 65.].
12
P. Freire, ibidem, p. 48.
13
Un’ importante differenza da sottolineare è quella che intercorre fra adattamento e integrazione. Freire
considera questi due concetti come antagonisti. L’integrazione, secondo l’autore, consiste nella
possibilità di entrare in accordo con la realtà e allo stesso tempo di modificarla, a cui si aggiunge il
potere di scegliere, il quale si basa principalmente sul giudizio critico [P. Freire, ibidem, p. 49.].
L’integrazione, nell’opera dell’autore dev’essere letta come finalità, come un dover essere dell’uomo
brasiliano. La condizione nella quale muove i suoi primi passi Freire è sicuramente differente. L’uomo ha
perso (nella maggior parte dei casi non ha mai posseduto) la capacità di scegliere perdendo così la sua
libertà; nella misura in cui ha perso questa capacità l’uomo non può più integrarsi e al contrario si adatta.
Diventa oggetto anziché soggetto. L’uomo, oltremodo, nell’atto di adattarsi diventa passivo, incapace di
scelta e di partecipazione. Questa passività si esplica nel momento in cui l’uomo non avendo a
disposizione risorse, anziché modificare la realtà si adatta ad essa. Al contrario l’integrazione richiede
necessariamente all’individuo capacità di scelta e di partecipazione. Ne consegue che integrandosi l’uomo
diventa attivo partecipante del processo di cambiamento sia individuale che collettivo.
8
Nel momento in cui la comunità intravede questa nuova possibilità la posizione
anteriore di disistima, di inferiorità, di incapacità, si tramuta in fiducia, in possibilità, in
tensione verso il nuovo, in speranza.
Viene dunque a delinearsi una transizione da una comunità prevalentemente “chiusa” e
passiva, ad una “aperta” e attiva; al contempo anche il singolo individuo, integrandosi,
sperimenta attivamente questa possibilità di cambiamento: comunità e individuo
iniziano ad emergere, a voler dire la loro, a proporre nuove strategie, nuove idee e
soluzioni.
Il Brasile, o almeno una parte consistente di esso, formata prevalentemente dai “dannati
della terra”, gli ultimi, i più poveri, coloro che più di tutti vivevano la condizione di
estrema passività, doveva, secondo Freire cogliere l’occasione della transizione per
migliorarsi dall’interno.
A chi spetta il compito? Come riuscirci? Quale strada percorrere? Senza dubbio
all’educazione: occorre educare l’uomo al cambiamento, ad essere soggetto del suo
cambiamento. La pedagogia deve necessariamente farsi carico di questa necessità. Una
pedagogia, però, ampiamente lontana da quella istituzionalizzata che, come già
accennato prima, altro non fa che confermare la stessa realtà. Occorre, secondo l’autore,
un’educazione capace di rendere l’educando soggetto della sua educazione. Ed è da
questo punto che si individua la genialità di Freire e della sua metodologia innovativa:
consapevole che il cambiamento, quello vero, non può che partire dall’interno, dalla
consapevolezza che ciascuno ha della propria situazione, l’autore elabora un metodo
attivo, dialogico, critico e criticizzante sperimentabile all’interno dei circoli di cultura
14
.
Evidentemente la situazione non era delle più semplici. Freire ci spiega come nelle zone
più rurali il numero di bambini che ha raggiunto l’età scolastica e sono senza scuola, è
di circa quattro milioni, e il numero degli analfabeti dopo i quattordici anni raggiunge i
sedici milioni, senza dire dell’inadeguatezza dell’educazione per tutti gli altri
cittadini
15
. Le cifre sono davvero eloquenti. Occorreva allora, prima di tutto,
alfabetizzare, non con una metodologia, ma piuttosto con un percorso che attraverso il
“pretesto” dell’alfabetizzazione, favorisse in chi vi partecipava una presa di coscienza
14
I circoli di cultura e la metodologia utilizzata si discostano ampiamente dalla scuola tradizionale. Al
concetto di scuola, che evoca nel pensiero dell’autore una condizione di eccessiva passività per
l’educando, viene per l’appunto sostituito il circolo di cultura; al posto del professore, il coordinatore del
dibattito, alla lezione discorsiva e cattedratica viene sostituita la conversazione dialogica. All’alunno, con
tutte le sue tradizioni passive, viene sostituito il partecipante del gruppo.
15
P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, op. cit., p. 125.
9
della situazione attuale: in altri termini attraverso un percorso educativo che prendesse
spunto da problemi e situazioni direttamente sperimentabili da parte degli educandi
16
.
Nell’impostazione freiriana l’idea di un processo di alfabetizzazione ancorato ai bisogni
e alla vita degli educandi, deriva dalla considerazione dell’educando come soggetto
attivo dell’atto educativo, piuttosto che come paziente al quale si applica un processo,
la cui unica virtù è appunto quella della pazienza per sopportare l’abisso che separa la
sua esperienza vitale dal contenuto dell’insegnamento
17
. L’alfabetizzazione si doveva
dunque costruire come atto fondamentalmente creativo, capace di generare altri atti
creativi: un’educazione in cui l’uomo avesse l’opportunità di sperimentare l’impazienza,
la vivacità di chi scopre, inventa e trasforma. Nella pratica freiriana quindi l’educazione
così come l’alfabetizzazione, non può mai essere intesa come un processo dall’“alto”
verso il “basso”, magari mascherato sotto forma di dono, ma da “dentro” verso “fuori”,
con lo sforzo dell’educando, di cui l’educatore è solo un collaboratore.
Un’alfabetizzazione così organizzata non poteva escludere al suo interno il dialogo;
trattare temi cari agli educandi favoriva la pratica della discussione, il dibattere sulla
realtà concreta, quella di tutti i giorni. In questi termini il processo di alfabetizzazione
era accompagnato dalla discussione: alfabetizzare nel dialogo e dialogare per
alfabetizzare. Questo è il potere delle parole generatrici, caratterizzate da una duplice
funzione:
di poter essere scomposte in unità sillabiche semplici per generare nuove parole
sulle quali dialogare, in modo tale da arricchire il vocabolario del soggetto;
di avere intrinsecamente una potenza generatrice di dialogo e riflessione. Le
parole, abilmente scelte dal coordinatore del dibattito e ancorate alla situazione che i
soggetti sperimentano, presentano anche la potenzialità di stimolare il dibattito
all’interno dei circoli di cultura: in questa maniera oltre all’alfabetizzazione vera e
propria si tenta anche di potenziare la consapevolezza degli educandi, che in tal modo
diventano coscienti della situazione nella quale si trovano
18
.
16
Eloquente a questo proposito è un’affermazione di Freire: soltanto con una grande pazienza si può
sopportare dopo la durezza di un giorno di lavoro, o senza lavoro, lezioni che parlano di “ala” (Pietro ha
visto l’ala – L’ala è dell’uccello). Lezioni che parlano di “Eva” e di “uva” a gente che il più delle volte
conosce poche Eve e mai ha mangiato l’uva [P. Freire, ibidem, p. 128]
17
P. Freire, ibidem, p. 128.
18
Francisco Weffort nell’introduzione a L’educazione come pratica della libertà intuisce chiaramente
questa potenzialità quando afferma: abbiamo parlato di “discussione” perché è questo un punto capitale
per l’apprendimento; secondo questa pedagogia la parola non può mai essere vista come un “dato” (o
come un dono che l’educatore fa all’educando) ma è sempre ed essenzialmente un tema di dibattito tra
tutti i partecipanti al circolo di cultura [F. Weffort, Introduzione, in P. Freire, L’educazione come pratica
della libertà, op. cit., p. 12.].
10
Partendo dal presupposto che le parole non esistono indipendentemente dal loro
significato reale o staccate dalla situazione a cui si riferiscono, proviamo a proporre un
piccolo esempio. La parola favela ( baracca) è una delle diciassette parole scelte in uno
dei corsi di alfabetizzazione tenuti in Brasile. A tal proposito dobbiamo ricordarci di
intenderla come “parola generatrice” cioè nella sua duplice potenzialità.
Nel processo di alfabetizzazione freiriano la presentazione della parola è sempre
preceduta dalla visione di un immagine evocativa della stessa parola. Questa prima fase
del processo viene denominata da Freire quadro situazione. L’immagine evoca
necessariamente l’analisi, attraverso il dibattito, della situazione esistenziale di una
favela, con i problemi ad essa correlati, che vengono a loro volta tradotti in necessità
fondamentali; tendenzialmente, spiega Freire, le necessità emerse nel corso dei processi
di alfabetizzazione sono riconducibili a cinque categorie (ma potrebbero anche essere di
più): abitazione, alimentazione, abbigliamento, sanità, educazione. Dopo aver dibattuto
approfonditamente su queste tematiche si passa alla fase successiva nella quale viene
presentata la parola favela per essere scomposta nelle sue unità sillabiche
19
. Al di là
della presentazione dettagliata della metodologia freiriana, che esula dalle finalità del
nostro lavoro, ci preme sottolineare un punto di notevole importanza, ripreso nel lavoro
svolto con i genitori: attraverso il dibattito sulle parole presentate nei circoli di cultura, i
partecipanti acquisivano una sempre maggior consapevolezza della loro situazione e dei
loro bisogni fino ad arrivare all’identificazione di soluzioni alternative per avviare un
processo concreto di cambiamento. Riteniamo che questo sia il punto da valorizzare
dell’opera di Freire. Attraverso il dialogo, i partecipanti si coscientizzano, cioè
agiscono, riflettono e in tal modo propongono e creano nuove strategie, attivando loro
stessi un processo di cambiamento, divenendo cioè soggetti della loro educazione e del
loro cambiamento. Questo è il potere delle parole generatrici, cioè quello di esprimere
una situazione reale e per sua natura provocante e stimolante, attivando l’individuo a
diventare partecipe del suo cambiamento.
Nell’Italia post-fascista, dilaniata dalla guerra, con un governo per lo più instabile, Aldo
Capitini, celebre pedagogista e padre del movimento nonviolento in Italia, fonda, a
Perugia, il primo Centro di Orientamento Sociale (COS) per il libero e periodico esame
19
Il processo è geniale nella sua semplicità. La parola favela viene scomposta nelle sue unità sillabiche
(FA-VE-LA) a sua volta ciascuna unità sillabica della parola viene accompagnata dalla sua famiglia
fonemica:
FA-FE-FI-FO-FU
VA-VE-VI-VO-VU
LA-LE-LI-LO-LU
Infine vengono presentate le tre famiglie insieme e viene chiesto ai partecipanti di creare nuove parole
con le combinazioni a loro disposizione.
11
dei problemi amministrativi, sociali, politici, culturali, educativi. La data è precisa, il 17
luglio 1944 nella sala della Camera del Lavoro di Perugia si tiene la prima riunione dei
Centri di Orientamento Sociale composto da intellettuali antifascisti, giovanissimi, molti
dei quali partigiani, e per lo più gente comune. L’idea principale è quella di promuovere
nuove forme di governo che avessero il loro punto di partenza dal “basso”, dai cittadini
comuni quasi mai chiamati in causa, troppo spesso ignorati, spettatori del tempo che
passa, “passivizzati” nello spirito piuttosto che nel corpo. E’ lo stesso Capitini a
rendersene conto quando osserva che la cessazione del regime fascista, riproponeva già
nel 1944, un tema all’Italia che è intrinseco alla sua storia. Non è infatti difficile
osservare quanto l’Italia nei secoli abbia sofferto dal distacco tra minoranze
sceltissime, creatrici e consapevoli dei più alti valori, e una maggioranza che nei modi
di vita, nella ricchezza, nella responsabilità civile e politica, nella cultura, è restata di
sotto alla media della civiltà europea. Le minoranze italiane hanno sempre avuto
qualcosa da insegnare a tutti, hanno precorso anche; ma il popolo italiano, che doveva
essere il primo ad averne i benefici, non è, nella sua moltitudine salito ad esse
20
.
Facilmente si può riscontrare nelle riflessioni di Capitini l’immobilismo o passività,
osservata peraltro anche da Freire, tipica dei ceti più poveri, delle classi più
svantaggiate, degli umili e degli indifesi, che caratterizza la situazione italiana del dopo
fascismo. Ecco allora la necessità di riflessione teorico-metodologica finalizzata alla
costruzione di esperienze politico-educative promosse dal basso, per indagare sui
problemi e ricercare soluzioni efficaci, per coinvolgere tutti, davvero tutti, per renderli
partecipi, attori protagonisti artefici consapevoli del proprio e altrui cambiamento.
Abbiamo utilizzato a proposito il concetto di esperienze politico-educative, consci del
fatto che il pensiero di Capitini è fortemente influenzato da questi due elementi, ovvero
da una riflessione bipolare che dalla pedagogia porta alla politica e viceversa.
L’esperienza più interessante che coniuga educazione e politica è sicuramente quella dei
COS, libere assemblee decentrate, aperte a tutti, volte a (ri)organizzare la vita pubblica
della comunità e al contempo miranti alla trasformazione dell’uomo, alla sua
educazione.
I COS rappresentano infatti la cellula di una comunità aperta, di una società di tutti, una
nuova struttura di democrazia attiva e partecipata, caratterizzata da un forte
decentramento del potere e dall’eterogeneità dei partecipanti
21
.
20
A. Capitini, Educazione aperta, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 253.
21
Fra le tre esperienze prese in considerazione (Circoli di Cultura di P. Freire, COS di A. Capitini e
Laboratori Maieutici di D. Dolci) i COS rappresentano sicuramente la struttura più eterogenea; nelle
assemblee infatti, i problemi venivano analizzati da tutti: autorità, pubblico, intellettuali e popolo, a