Capitolo 1
Dall’occultamento alla “scoperta” del genere in
antropologia
“Le village entier partit le landemain dans une trentaine de
pirogues, nous laissant seuls avec les femmes et les enfants dans
les maisons abandonnées.” (C. Lévi‐Strauss, corsivo mio)
2
Così uno dei più grandi antropologi del secolo scorso scriveva
durante la sua ricerca sul campo in Brasile. Così considerava, o
meglio non considerava affatto, la presenza femminile nel
villaggio in cui si trovava: un “vuoto sociale”.
Effettivamente fino alla fine degli anni Sessanta tale era il
posto riservato allʹ“altra metà del cielo” nelle monografie: la
totale invisibilizzazione o survisibilizzazione
3
come soggetto
sociale e la relegazione nellʹambito della natura, con unica
funzione riproduttiva. Questa deformazione prospettica
derivava dallʹapplicazione etnocentrica delle relazioni sociali
vigenti in Occidente tra i sessi anche alle popolazioni di interesse
etnografico: relazioni fortemente gerarchiche e discriminatorie,
che non venivano sottoposte al vaglio del metodo relativistico di
2
Lévi‐Strauss, C., 1936, Les Bororo, cit. in Busoni, 2000: 97.
3
Termine utilizzato da Busoni, 2000: 119.
Capitolo 1 14
cui tanto si faceva uso in tutti gli altri ambiti di ricerca, ma che
erano, piuttosto, assunte come universalmente date.
Tale pregiudizio, chiamato “androcentrismo”, a mio parere
potrebbe essere definito, prendendo in prestito un termine usato
dai linguisti, come una “sineddoche metodologico‐
interpretativa” che amputa la società considerando la parte
(maschile) per il tutto (si veda a questo proposito la frase
illuminante di Lévi‐Strauss). Inutile dire che le indagini
etnografiche sono risultate fortemente compromesse nella loro
attendibilità, e soprattutto completezza e rappresentatività, da
questo grave limite metodologico.
4
Gli unici spazi all’interno delle monografie nei quali si poteva
scorgere una qualche presenza femminile erano rare sezioni che
trattavano delle donne separatamente rispetto all’analisi sociale,
secondo il metodo “aggiungi‐la‐donna‐e‐mescola”
5
o, più
frequentemente, i capitoli riservati allo studio delle relazioni di
parentela. In effetti, “di qualunque cosa la parentela e il
matrimonio trattino, essi trattano sempre di genere, poiché
richiedono due varietà di persone, «maschio» e «femmina», e
riproducono persone in quelle due varietà” (Ortner, Whitehead,
2000: 86). Proprio per ciò, questi settori della ricerca
antropologica hanno costituito il primo nucleo di studio critico
dell’antropologia femminista a partire dagli anni Sessanta.
4
Lʹutilizzazione di soli informatori uomini e quindi dei loro unici punti
di vista e lʹosservazione esclusiva delle attività maschili, uniche considerate
rilevanti ai fini della comprensione della società, hanno reso alcuni tra i
grandi classici dellʹantropologia dei veri e propri malintesi androcentrici. Tra
gli altri sono state mosse molte critiche a La Lega degli Irochesi di Morgan,
Argonauti del Pacifico Occidentale di Malinowski, e I Nuer di Evans‐Pritchard
(Busoni, 2000).
5
Boxer, 1982, cit. in Moore, H., 1988, Feminism and Anthropology,
Cambridge, Polity Press, p. 3, cit. in Busoni, 2000: 96.
Dall’occultamento alla “scoperta” del genere in antropologia 15
Alle ricerche isolate (sia dal punto di vista della cronologia
che della ricezione accademica
6
) dell’antropologa Margaret
Mead, pioniera nell’aver colto fin dagli anni Venti l’importanza
del genere come categoria per l’analisi socio‐culturale, hanno
fatto seguito tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni
Settanta gli Women’s Studies e tra questi l’Antropologia delle
Donne, la cui criticata parzialità si proponeva semplicemente di
colmare il vuoto androcentrico degli studi precedenti. In quel
periodo, l’essere finalmente divenute “soggetto nella storia” ha
permesso alle donne di fare il loro ingresso anche come “oggetto
nella teoria”
7
. Le opere prodotte da questa corrente sono nate dal
rifiuto femminista per la naturalizzazione del ruolo della donna
nella società e si rifacevano alla celebre frase del libro Le
Deuxième Sexe di Simone de Beauvoir: “On ne naît pas femme, on
le devient”.
A questo rinnovamento negli studi ha fatto seguito
un’ulteriore svolta analitico‐critica: dagli anni Ottanta in poi si
sono sviluppati i Gender Studies, ed è quindi diventato
predominante il genere, come categoria relazionale che focalizza
l’attenzione sui rapporti tra uomini e donne, e che dunque è più
dinamica e fluida. Inoltre, il concetto unico di “donna”,
funzionale nel momento in cui occorreva dare espressione a un
gruppo identitario escluso in blocco, è stato sostituito,
soprattutto grazie alle riflessioni delle studiose non occidentali,
dall’esaltazione della pluralità delle “donne” (e
6
Tra le molte critiche che le vennero mosse dai colleghi uomini, oltre a
riferimenti alla sua ricerca come a un “lavoro da donne”, la linea dei suoi
studi incentrati sulle differenze di genere e la sessualità fu definita dal
grande antropologo Evans‐Pritchard come “la scuola del fruscio del vento”,
sottolineandone sprezzantemente l’inutilità e la frivolezza.
7
Guillaumin, C., 1992, Sexe, Race et Pratique du pouvoir. L’Idée de la Nature,
Paris, Côté‐Femmes, p. 236, cit. in Busoni, 2000: 103.
Capitolo 1 16
conseguentemente degli “uomini”), con lo studio delle
interrelazioni tra le categorie di sesso, genere, età ed etnicità.
Nel corso degli ultimi decenni, tra le altre scienze sociali, è
nata anche l’Antropologia di Genere che ha prodotto il
rinnovamento radicale di molti concetti utili all’analisi della
variabilità delle culture nell’ambito delle costruzioni simboliche
e sociali riguardanti il “maschile” e il “femminile”. Come afferma
Roscoe, “la diversità di genere” è “una parte ulteriore della
vicenda della cultura e della storia umana che è compito
dell’antropologia raccontare” (Roscoe, 2007: 79).
Capitolo 2
Alcune categorie analitiche
In questo capitolo affronteremo i concetti principali che saranno
utili per l’analisi della pluralità delle costruzioni culturali del
genere, fondamentali per la comprensione dell’istituzione del
terzo genere.
2.1. Sesso
“la cosa che detesto maggiormente è
essere donna…la natura è un errore!”
(Stana, vergine giurata, in R. Grémaux,
1993, corsivo mio)
Dal punto di vista del senso comune la distinzione tra sesso e
genere, considera il primo un dato biologico universale e il
secondo un costrutto culturale: si afferma, cioè, che la dicotomia
“maschi‐femmine” appartenga alla natura e sia innata, e quella
“uomini‐donne” alla cultura e, perciò, acquisita. Il dimorfismo
sessuale geneticamente e anatomicamente codificato nel sesso
costituirebbe, dunque, la base per una rielaborazione a livello
simbolico del genere. Dal momento che questa è la concezione
sessuale occidentale maturata nel corso del XIX secolo, che viene
poi adottata come teoria interpretativa del mondo intero, si tratta
ancora una volta di una teorizzazione realizzata con sguardo
Capitolo 2 18
etnocentrico, che pretende di essere valida rispetto all’estrema
variabilità del resto del pianeta.
In effetti, fin dagli anni Settanta molte intellettuali hanno
sollevato dubbi sia riguardo la presunta naturalità neutrale del
sesso, sia sul suo ruolo di antecedente cronologico delle
categorizzazioni sociali, sia a proposito dell’esistenza di due soli
sessi mutuamente escludentisi e complementari.
Per quanto riguarda il primo punto, le studiose riportano casi
di uomini con un corredo cromosomico XX, che vengono definiti
dai medici “maschi inusuali”: se ci si dovesse basare sulla
biologia, però, li si dovrebbe considerare femmine. Sorge il
dubbio, più che fondato in effetti, che gli scienziati già sapessero
“cos’è un uomo prima ancora che venissero effettuati i test
genetici, i quali non potevano che confermare una visione
preconcetta e convenzionale” (Busoni, 2000: 45). Un meccanismo
circolare, dunque, che parte dalla cultura e, passando per la
natura, si autolegittima. Possono essere portate ad esempio in
proposito anche le procedure di intervento sul sesso dei neonati.
Suzanne Kessler descrive, tra i tanti, un caso in cui, pur avendo
cromosomi XY, a un bambino venne assegnato il sesso femminile
e somministrati ormoni femminili, poiché, avendo un pene di
dimensioni estremamente ridotte, i medici valutarono le
conseguenze psicologiche e relazionali che tale carenza avrebbe
avuto nel corso della sua vita. Questo dimostra come nella
determinazione della mascolinità conti di più il fallocentrismo
occidentale rispetto al corredo cromosomico. Se, nonostante
nostra mentalità biocentrata, anche in Occidente la natura viene
rimodellata dalla cultura, nelle altre società l’influenza è ancora
maggiore: “nella tradizione Zuni, per esempio, era considerata
necessaria una serie di interventi per assicurare che il bimbo
avesse un sesso” (Roscoe, 2007: 49). Se ne deduce che il sesso
anatomico “è a sua volta una costruzione sociale quanto ciò che è
stato definito genere” (Ibid: 52).
Alcune categorie analitiche 19
Inoltre, una questione molto dibattuta riguarda il secondo
punto citato prima, e cioè: per quale motivo dai genitali
dovrebbero derivare ruoli sociali gerarchici? Perché è così
fondamentale tale parte del corpo piuttosto che, per esempio, il
colore dei capelli o l’altezza? E perché una tale importanza viene
attribuita anche al colore della pelle come marcatore di
differenze? Si tratta di fattori naturali di diseguaglianza o,
piuttosto, viene data a queste caratteristiche corporee una
rilevanza legata a logiche culturali di prestigio e di potere? A
questo proposito Gatens introduce la nozione di “corpo
immaginario”, ovvero l’intuizione che gli attori sociali
sviluppino culturalmente particolari immagini del corpo,
focalizzando su determinati attributi corporei come “luoghi
privilegiati di significazione”
8
. La rilevanza data a questi
elementi privilegiati, e fondamentali per le loro conseguenze
sociali, è, ancora una volta, tutt’altro che naturale e men che
meno universale. Molte culture, infatti, considerano le differenze
fisiche
“come non sufficienti in sé a stabilire il genere, o semplicemente
come meno importanti di fattori individuali e sociali quali la
preferenza occupazionale, il temperamento, il comportamento, le
esperienze religiose, ecc.” (Roscoe, 2007: 49)
Passando alla terza questione, sull’esistenza dal punto di vista
biologico di due sole possibilità sessuali, il maschio e la femmina,
le ricerche mettono in luce, piuttosto, un continuum anatomico
che comprende vari gradi intermedi tra i due poli (seppure
statisticamente molto meno rilevanti di questi), “anormalità” che
nella medicina occidentale vengono liquidate come “varianti
8
Gatens, M., 1983, “A critique of the sex/gender distinction”, in Allen e
Patton (a cura di), Beyond Marx? Interventions after Marx, Sydney,
Intervention, cit. in Cornwall, 2007: 149.