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PRESENTAZIONE
“Lo psicologo, soprattutto se ha avuto
un‟esperienza clinica, naturalmente e
spontaneamente affronterà ogni argomento in
maniera personale, studiando le persone più che le
astrazioni che producono tanto gli scienziati quanto
la scienza”
(A.H. Maslow, Motivazione e personalità, 1990, p. 35)
Una delle possibili categorie – certamente grossolana - con cui è possibile dividere
gli uomini è tra coloro che coltivano certezze e coloro, invece, che sono attanagliati dai
dubbi. A me sembra di appartenere a quest’ultima categoria e per questo motivo, nella
prima parte della mia vita posso dire di aver sofferto un po’ di solitudine. Mi trovavo,
infatti, attorniato da persone che sapevano sempre ed esattamente ciò che era giusto o
sbagliato, ciò che si doveva fare e ciò che invece era proibito. Ora, invece, con
l’aumentare delle letture e delle conoscenze ho incontrato numerosi compagni di strada
che considero sommessamente amici, perché mi hanno aiutato a convivere senza grossi
problemi con il dubbio. O meglio, mi hanno insegnato a percorrere intellettualmente
quelli che con una metafora molto in uso sono chiamati “territori di confine”.
In effetti, oggi posso dire di sentirmi vicino a Karl Popper, nel senso che come lui
non sento di potere dire che i “corvi” siano tutti neri perché ne ho catalogato un gran
numero di quel colore. Al massimo potrò dire che i corvi non sono solamente neri,
poiché, dopo il gran numero di osservazioni di corvi neri, sono riuscito ad osservarne uno
bianco. Per quanto grande sia il numero delle mie osservazioni, infatti, è con la
falsificazione che aumenta la conoscenza. Con Popper (1970), dunque, l’onestà
scientifica vince ogni dogmatismo quando non impone di confermare le proprie teorie ma
cerca di confutarle.
Posso anche dire di essere amico di Carl Gustav Jung (1990), perché con lui
riconosco che l’energia libidica non può essere definita nel ristretto ambito della
sessualità come voleva Freud, ma vada considerata piuttosto nelle molteplici dimensioni
che alimentano la psiche umana e che a tutt’oggi non sono ancora completamente
conosciute. La creatività, ad esempio, rappresenta il luogo della mediazione delle
pulsioni, trasferite dal piano naturale – come voleva Freud - a quello culturale, oggi
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riconosciuto unanimemente come pieno di significati da esplorare. In questo modo
l’attenzione è spostata dall’elemento biologico a quello spirituale, che, anche se per lo più
espunto dalla ricerca scientifica, rientra sempre “dalla finestra”.
Per farla breve, sono anche amico di Immanuel Kant perché, mettendo a frutto i
suoi dubbi sulle reali capacità della conoscenza, ha dato contenuto scientifico alla ricerca
sulla psiche umana. E sono ancor più amico di tutti gli studiosi, oggi raccolti attorno alla
teorica costruttivista, che hanno aperto spazi di discussione attorno a quei dubbi,
all’interno dei quali ogni persona può trovare un motivo per la propria ricerca personale o
per dare un senso alla propria esistenza. Mi sembra che in ciò possa essere riscontrato
l’esercizio “dell‟epochè fenomenologica” dettata da E. Husserl, il quale diceva che
l’esercizio del dubbio metodico e la sospensione di ogni sapere positivo già acquisito,
sono strumenti di igiene mentale. Il ricercatore - per l’insigne matematico e filosofo -
deve porsi nella condizione di uno spettatore ingenuo e disinteressato, liberando se stesso
da ciò che è fittizio e non necessario. Solo dopo questo lavoro lungo e faticoso, potrà
analizzare con la dovuta obiettività i fenomeni della coscienza (U. Nicola, 2002).
Ed è per l’appunto il fenomeno della coscienza che, escluso a priori dall’area della
ricerca scientifica dal Positivismo, trova oggi un rinnovato interesse nel mondo
scientifico, nel momento in cui sia la psicologia che le neuroscienze ne fanno un
importante oggetto di studio.
Animato, dunque, dal senso di comunanza verso chi ha scelto e sceglie di esplorare
un territorio così “periglioso”, ho scelto di difendere la tesi che riferisce del dubbio che
la genialità, la follia e la santità racchiudano elementi di conoscenza che, per lo più
dimenticati nella ricerca psichiatrica, non sono stati nemmeno esplorati del tutto
dall’indagine psicologica, limitando a mio avviso la comprensione più piena del
fenomeno umano. In questo lavoro, quindi, vorrei collaborare, sommessamente, con
quegli studiosi che dopo anni di oblio hanno ripreso la ricerca nel campo della coscienza,
lasciata troppo velocemente in disparte, probabilmente perché costituita di un significato
metaforico che non sembra lasciarsi conquistare dall’avanzamento della ricerca
scientifica. Svilupperò, dunque, una redazione repertoriale di quanto ha attirato la mia
attenzione nella letteratura scientifica disponibile, che in qualche modo possa avere
attinenza con il particolare indirizzo tematico di questa ricerca, rilevando dove il dubbio
ha lasciato spazio a certezze che, invece di aprire la strada a nuove scoperte in ambito
psicologico, hanno chiuso la porta all’ulteriore approfondimento. Ovviamente, dato il
carattere personale di questa ricerca, non ho nemmeno cercato di dare una bibliografia
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completa sugli argomenti che concorrono a questo studio. Sulla follia, genialità e santità è
stato scritto moltissimo e non mi sembrava né utile né possibile lavorare su tutto il
materiale disponibile. Ho ritenuto, invece, più proficuo raccogliere quanto fosse utile per
fare emergere la mia idea e che potesse comunque essere eventualmente consultato per
allargare interessi più specifici dell’eventuale mio lettore.
Tenterò allora di sostenere, per quanto mi è possibile, il dubbio temerario che
l’uomo possa essere capace di stati di coscienza supermentale oggi per lo più sconosciuti
perché tralasciati dall’indagine psicologica. E che questa facoltà possa essere intravista
nell’emergenza di quelle condizioni di disagio mentale derubricate troppo rapidamente
come condizioni patologiche e inviate alla cura psichiatrica. L’ipotesi che stati di
coscienza supermentale siano visibili al loro livello embrionale nei cosiddetti folli, geni o
santi che dir si voglia, non è evidentemente supportata da prove scientifiche. Tuttavia, mi
sembra restituisca allo psicologo un possibile strumento diagnostico, che lo aiuti a
discernere con più oculatezza, tra il numero sempre crescente di “folli” che sono
integrati, in taluni casi ghettizzati, dall’istituzione psichiatrica e farmaco terapica, come
schizofrenici, maniaco-depressivi, ossessivi, tossicodipendenti, alcolisti, ect. Il nostro
problema, dunque, pone l’attenzione sulla genesi psicologica della disfunzionalità
mentale. Riteniamo, infatti, molto spregiudicatamente, che nel momento in cui ci
avviciniamo ad una persona cercando di capirne il sintomo o la sindrome deficitaria per
definire il quadro psicopatologico, il lavoro dello psicologo sia già terminato a favore di
quello dello psichiatra. Con parole rozze potremo dire che quando lo psicologo incontra il
“malato mentale” i “buoi sono già scappati dalla stalla”! In altre parole, vogliamo dire
che il lavoro dello psicologo, a nostro avviso, ha un senso e trova la più ampia
giustificazione quando è profilattico: paradossalmente quando si occupa della persona
ancora “sana”. In questo senso, studiare gli stati di coscienza, significa cercare strumenti
concettuali per strutturare il lavoro preventivo ed educativo dello psicologo. Significa
collocare sempre più precocemente il periodo in cui è possibile riscontrare nell’uomo
elementi di coscienza “nascente”, in modo da poter lavorare nel momento in cui la
“materia” è “malleabile”.
E’ del tutto evidente che un lavoro di questo tipo è certamente pionieristico e non
può basarsi solo su prove sperimentali. Per questo motivo utilizzerò un’impostazione di
studio fenomenologica - con riferimento a K. Jaspers, L. Binswanger, E. Minkowski - e
costruttivista - con riferimento a J. Piaget e C.G. Jung.
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Nel versante fenomenologico l’idea che attraversa la nostra ricerca è che l’essere
psichico si dà nel mondo secondo modalità che vanno osservate nella loro complessità e
non sempre o soltanto secondo la relazione individuo-ambiente, ovvero secondo il
modello causale. La lettura di K. Jaspers (2000), nel suo testo monumentale
Psicopatologia generale, ci dice che il modello delle scienze esatte ci offre una riduzione
di quello che osserviamo rispetto alle ipotesi anticipate, ma non ci da la possibilità di
comprendere realmente la vita psichica dell’individuo. Ciò avviene, invece, quando ci
poniamo nelle condizioni di cogliere le strutture di significato che provengono
dall’oggetto, cioè quando ci mettiamo all’ascolto del punto di vista dell’altro e non da
quello dell’osservatore. Questo sforzo empatico è stato evidenziato, in altri termini, con
la distinzione terminologica introdotta da W. Windelband, il quale ha suddiviso il metodo
di studio in campo psicologico in nomotetico, quando questo riguardi parametri generali,
e in idiografico, quando si tratti del caso particolare. Nello studio del comportamento
umano, questi due modelli di analisi, ci sembra debbano andare di pari passi ed integrarsi,
giacché ciò che appare davanti a noi, è l’uomo nella sua interezza oltre che nella sua
singolarità. Nel malato, dunque, “la sindrome non è una semplice associazione di sintomi
(riferibili semplicemente a entità fisiologiche), ma l‟espressione di una modificazione
profonda e caratteristica dell‟intera personalità” (E. Minkowski, 2011, p. 223). In
particolare, osserviamo che il corpo intero non è un elemento da superare e da distinguere
- così come nell’approccio della scienza medica, per cui, ad esempio, il cervello diventa
necessariamente la sede esclusiva delle funzioni mentali - ma piuttosto il veicolo, tutto
intero, attraverso il quale si esprime la coscienza dell’essere e del conoscere (K. Jaspers,
2000). In questo senso, anche le neuroscienze ci vengono in soccorso, più o meno
consapevolmente, spiegandoci, con i neuroni mirror, non solo la possibilità che anche il
sistema delle aree motorie della corteccia cerebrale conduca a conoscenze pre-
concettuali, pre-razionali e pre-linguistiche; ma pure che possano esservi sistemi mirror
dislocati in altre parti del corpo, che forniscano all’individuo una comprensione che per
adesso si ipotizza come esclusivamente pragmatica, ma che può riservarci, a nostro
avviso, ancora molte sorprese (G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2006). La conseguenza più
importante è che se la spiegazione dell’uomo trova spazio secondo questo tipo d’indagine
- cioè quella che coglie la sua consistenza psichica, come comprensiva del suo essere
“mescolato” nel mondo, e il neurofisiologo Vittorio Gallese (2003; 2009) ce ne dà
conferma parlandoci della “coscienza noi-centrica” - non vi può più essere una
distinzione tra “sano” e “malato mentale”, in quanto, ogni essere umano è l’espressione
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del suo essere nel mondo, “invischiato” dalla compartecipazione di ogni altro individuo.
Il sistema dei neuroni mirror “ci mostra, perciò, quanto radicato e profondo sia il legame
che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un Io senza un Noi” (G.
Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2006, p. 4). Questo ci fa comprendere, forse, che la follia
accompagna in qualche modo ognuno di noi, quanto meno quando costruiamo un
fenomeno e vi applichiamo il marchio di verità assoluta.
Secondo la prospettiva costruttivista ci interessa, invece, far emergere il vantaggio
dell’indagine psicologica nell’evitare di ricondurre le manifestazioni psichiche
meramente ad un substrato particolare, in favore di un modello interpretativo che possa
essere sviluppato secondo la logica dell’interdisciplinarietà. In tal modo, infatti, anziché
attendersi che la spiegazione dell’essere psichico possa essere ridotta al suo elemento
biologico, si aprono prospettive di studio che guardano alla sua più ampia interpretazione.
Nel caso della salute mentale, ciò significa elaborare il sintomo nel suo più largo
significato simbolico, da cui trarre eventuali elementi di un futuro sviluppo psicologico
del soggetto, piuttosto che ricondurlo all’espressione di una causa fisiologica: il malato
non ha una struttura psichica differente, ma semplicemente vive in un modo anomalo la
realtà condivisa dalla collettività (L. Binswanger, 2006). Dare spazio a questo punto di
vista anomalo e cercare di comprenderlo, ci sembra utile per ampliare la nostra
conoscenza sul fenomeno umano.
Questa duplice impostazione ci permetterà, dunque, di restare in ambito scientifico
pur avvalendosi degli spazi che questa metodologia di analisi, recentemente applicata con
sempre più enfasi anche dalla psicologia sociale e clinica, concede a quelle ricerche che
devono di necessità avvalersi di metodi qualitativi piuttosto che quantitativi (C. Pruneti,
2008). Peraltro, è certo che questa tesi produrrà piuttosto interrogativi che risposte e
certezze. Anche questo, però, è un compito scientifico, forse il più difficile, perché
richiede di lavorare nel confine; nella terra di nessuno; là dove si rischia di essere
considerati “folli”.
Credo che l’obiettivo di questo lavoro possa essere ottenuto pienamente se i dubbi
manifestati potranno trasformarsi in domande e in ipotesi degne di trovare strada nella
ricerca scientifica, ma sarà utile allo stesso modo se riuscirà almeno a raccogliere una
documentazione sufficiente per giustificare la necessità di dare seguito all’interrogativo
posto da W. James (1909) ormai quasi un secolo fa, e cioè che il grado di mentalità
dell’essere umano possa essere qualitativamente superato: “perché, dice infatti il nostro
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autore, l‟evoluzione umana dovrebbe fermarsi al nostro più alto grado di mentalità e non
oltrepassarlo, non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente?” (p. 25)
E’ chiaro, dunque, che lo scopo di questa tesi non è quello di criticare alcuna teoria
sugli studi psichiatrici legati alla schizofrenia, ma piuttosto di indicare una via alternativa
circa l’indagine sulla psicogenesi delle malattie mentali. La nostra peculiarità è di ritenere
possibile che la mente umana, così come descritta attualmente, stia mostrando “il peso
degli anni” e che quindi possa lasciare il passo ad un livello evolutivo superiore che per
adesso possiamo azzardare di chiamare coscienza supermentale. Questo livello superiore
riteniamo possa essere indicato paradossalmente dalle diverse forme di follia mostrate
dagli uomini, in particolare nei loro esiti positivi, incontrati da chi ha potuto essere
sottratto dalla camicia di forza perché riconosciuto nella sua genialità o santità. Per noi il
problema non è semplicemente quello di arrivare ad una nuova concezione della follia,
secondo l’idea antipsichiatrica. Non ci interessa in questo luogo la comprensibilità sociale
della follia. Piuttosto, crediamo che la comprensibilità psicologica della follia sia utile a
velocizzare il contributo che questa esperienza dell’individuo nostro simile vuole e può
dare allo sviluppo umano.
Ad evitare che questa idea possa essere derubricata come deriva pseudo filosofica,
spirituale o mistica, non mancheremo di indicare quelle teorie scientifiche che già oggi
sembra possano giustificare quest’ipotesi e che lasciano spazio alla plausibilità dell’idea
che percorre la nostra ricerca.
Confesso che questo lavoro, prima ancora che essere il coronamento del percorso di
studio intrapreso, dà risposta alla mia esigenza di sentirmi utile per quelle persone che
rimangono escluse ed inascoltate - quei “pazzi” che vengono definiti con il linguaggio
dello stigma anziché e ancor prima di quello dell’accoglienza nel consorzio umano - e
perché facendo questo spero di appartenere anch’io a coloro che sono descritti da H. J.
Nowen nell’epigrafe di apertura.
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PRIMA PARTE
L’ESPRESSIONE DELLA COSCIENZA
“Tutto avviene come se una vasta corrente di
coscienza – carica, come ogni coscienza, di una molteplicità di
virtualità reciprocamente compenetrantisi – fosse penetrata
nella materia. Essa ha indotto la materia a organizzarsi, ma il
suo movimento né è stato, nel contempo, infinitamente rallentato
e frammentato. Per un verso infatti la coscienza ha dovuto
assopirsi, come la crisalide nel bozzolo in cui si prepara le ali;
per l‟altro, le molteplici tendenze che racchiudeva si sono
ripartite in serie divergenti di organismi che, dal canto loro,
estrinsecavano queste tendenze in movimenti, anziché
interiorizzarle in rappresentazioni. Nel corso di questa
evoluzione, mentre alcune tendenze si assopivano sempre più
profondamente, altre si risvegliavano sempre di più e il torpore
delle une serviva all‟attività delle altre.”
(H. Bergson, L’evoluzione creatrice, 2002, p. 150-151)
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1. Premessa
“Gli uomini mi hanno chiamato pazzo, ma la
questione non è ancora risolta se la follia sia o non
sia la più alta intelligenza….”
(Edgar Allan Poe)
La ricerca ipotizzata per questa tesi di laurea, e cioè che vi possano essere stati di
coscienza supermentale nel fenomeno umano è effettivamente rischiosa, principalmente
per due motivi: da una parte perché affronta un problema che, nella sua complessità, è
tutt’ora poco o per nulla indagato e per questo motivo non potrà che essere per molti
aspetti lacunosa e prestare il fronte a critiche; dall’altra parte, perché tocca un argomento
che si mescola o meglio si invischia in territori, che solitamente sono rivendicati dalle
discipline umanistiche filosofiche, religiose e teologiche, con contaminazioni che
provengono in misura sempre maggiore dal mondo orientale. Tuttavia, la scienza
occidentale, come ci fanno notare numerosi studiosi come ad esempio C. G. Jung (1998;
2000), E. Minkowski (2011), F. Capra (2010), V. Andreoli (2011), può e deve
necessariamente fare propria la sapienza filosofica e la saggezza orientale, per trarre
elementi di utilità nell’approfondimento della ricerca psicologica.
Del resto, anche la medicina sta ripristinando il suo antico legame con la filosofia,
avendo preso atto che il paziente non è semplicemente un “fegato”, “un colon irritato”, e
via discorrendo, ma è una persona: una complessità biologica e spirituale. Confermando
con ciò la reviviscenza del riconoscimento della necessità di un nuovo umanesimo, che
sappia coniugare le scoperte scientifiche con le conoscenze dell’indagine antropologica in
generale.
Noi cercheremo di affrontare questo lavoro mantenendoci ovviamente nell’ambito
della psicologia scientifica, anche se si sa che il dibattito sulla coscienza rappresenta il
tallone d’Achille di questa disciplina. Si tratta, infatti, di un concetto che ondeggia
pericolosamente in territori metafisici, anche se alcuni scienziati ritengono una mera
questione di tempo la possibile dimostrazione della sua eziologia nel nucleo cellulare
cerebrale (E. R. Kandel, J. H. Schwartz, T. M. Jessell, 2003), pur non essendoci allo stato
attuale alcun tipo di evidenza scientifica. Molto più spesso, tuttavia, sono i teologi che si
appropriano di definire la causa efficiente della coscienza, offrendo complicate astrazioni
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per dimostrare come l’Assoluto possa determinare e inserirsi nell’io individuale, pur
mantenendo la sua trascendenza.
A tutt’oggi, però, a noi sembra che l’analisi scientifica sulla struttura della
coscienza e della mente può essere più opportunamente circoscritta nell’interno della
discussione fenomenologica e quindi osservata secondo una metodica di indagine
qualitativa e non quantitativa. Non c’è, infatti, ancora nessuna possibilità di evidenze
scientifiche che definiscano relazioni causali tra cervello e mente o coscienza. E neppure,
quindi, nessuna giustificazione, allo stato dell’arte, sulla presunzione della priorità di un
percorso di ricerca che sia scientificamente superiore ad un altro. Per ciò, in attesa di
nuove scoperte in ambito sperimentale, secondo gli obiettivi enunciati in primo luogo dal
Nobel Eric Kandel (2007), il quale purtroppo può per ora basarsi solamente sui circuiti
nervosi della chiocciola di mare Aplysia, ci occuperemo di prendere in considerazione
quanto è già dato a sapersi nella ricostruzione teorica e pratica che vari studiosi hanno
proposto in ambito psicologico. Per arrivare almeno all’enunciazione di dubbi e domande
che possano essere rilevanti per la formulazione di un’ipotesi scientifica che giustifichi la
presenza di stati di coscienza supermentale nell’uomo.
Il nostro convincimento, per adesso, dice che se vi è una coscienza, questa dipenda
dalla relazione tra l’io e le immagini con cui si confronta e si realizzi nel limite della
capacità psichica dell’uomo e quindi nella sua mente. Ciò significa che la coscienza
riguarda l’insieme universale relazionale della persona che abbraccia la sua esperienza
storica vissuta in ambito familiare, culturale e religioso, mostrandosi nella dinamica
dall’azione comportamentale. Secondo questa prospettiva, di chiara provenienza
sistemica, si può supporre che talune diagnosi psicopatologiche nascondano, di fatto,
simboli di una coscienza che cerca di farsi spazio, da una parte nel confronto con una
concezione sempre limitata delle capacità mentali umane e di conseguenza con le
strettoie del conseguente pregiudizio socio-culturale; dall’altra dai limiti oggettivi
dell’attuale struttura bio-fisiologica del corpo umano. La coscienza, dunque, non può
essere definita esclusivamente dalla chimica umana, cioè dal cervello e i suoi circuiti
neuronali, ma dalla complessità del fenomeno umano, il quale comprende il corpo e tutto
l’ambiente che lo circonda.
Il dibattito è sicuramente aperto e ultimamente ci sembra che il mondo scientifico si
sia spinto nella direzione che intendo intraprendere con la mia ricerca, se è vero come è
vero che il biologo evoluzionista Marc Hauser (2009) ha azzardato la definizione di
supermente umana, specificando l’assoluta peculiarità della mente umana, distinta
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qualitativamente e non più quantitativamente dalle “semplici” menti animali. Noi non
azzardiamo nulla in questa direzione, ma prendiamo per buono che sia possibile stabilire
nella struttura dell’essere psichico, livelli qualitativi dinamici e progressivi che possano
giustificare l’emergenza di stati di coscienza che superano l’attuale configurazione
riconosciuta. Crediamo, in linea con quanto proporremo in questa ricerca, che tale ipotesi
sia confermata dalle scoperte sul “sistema mirroring” e dall’interpretazione tradotta da V.
Gallese (2003; 2009) nella concezione della “coscienza noi-centrica”, oltre che dal
modello degli stati diadici di coscienza proposto da E. Tronick (2008) nel corso delle sue
ricerche nell’ambito della psicologia dello sviluppo.
La nostra preoccupazione resta, tuttavia, quella che il lavoro possa avere un esito
non inquadrabile esattamente con il moderno concetto di scientificità, in particolare nel
suo riferimento alla necessità di dare sempre conto della nessiologia eziologica del fatto
osservato, con il vincolo della generalizzabilità dell’evento sperimentale. D’altra parte,
però, sono incoraggiato dalle affermazioni del McBurney, il quale ritiene che “lo
psicologo una volta laureato, abilitato ed entrato nel mondo del lavoro, avrà molto meno
a che fare con piani sperimentali da realizzare in laboratorio e molto più con la
necessità di raccogliere ed interpretare dati in situazioni non completamente
controllabili” (D. H. McBurney, 2001). E sono altresì rassicurato dal fatto che
l’integrazione e la partecipazione costruttiva dello studio idiografico in quello
nomotetico, sia oggi fortemente incoraggiata nella disciplina psicologica, con l’esito o la
speranza di un maggior dialogo tra teorico e clinico (C. Pruneti, 2008).
Il nostro compito, allora, potrà mantenere lo statuto scientifico rispettando
principalmente la metodologia della ricerca d’archivio, coniugando le diverse voci che si
sono espresse, più o meno palesemente, su questo tema in ambito internazionale. Di
necessità, azzarderà qualcosa nella rielaborazione del materiale visitato, facendo
attenzione a rilevare ed espungere concezioni metafisiche ogni volta che si presentino,
anche quando espresse dallo scienziato sia esso empirista o razionalista. Ciò a favore
dell’emersione di un pensiero che in qualche modo possa definire o quantomeno decifrare
in termini psicologici l’oggetto proprio di questa ricerca e cioè i supposti stati di
coscienza supermentale.
Per muoverci in questa direzione abbiamo scelto di osservare la questione relativa
alla follia e due suoi fenomeni correlati e a volte confusi con essa. Uno più usuale, cioè
quello della genialità; l’altro sicuramente inusuale che riguarda la santità. Non abbiamo
dubbi che la questione che lega la follia alla santità sia un terreno assolutamente
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pericoloso e incerto, paragonabile all’intreccio vorticoso e inestricabile di una foresta
tropicale, ma abbiamo fiducia che con un po’ d’impegno possa emerge qualcosa di
interessante nell’ambito della psicologia del fenomeno umano. Dobbiamo però precisare
che questi termini sono paragonabili a delle trottole che hanno attraversato la storia,
riempiendosi dei più svariati contenuti. Si sono talora intrecciati fino ad avere assunto in
troppi casi una connotazione stigmatizzante che li ha ricondotti al mero interesse della
ricerca psichiatrica. Noi, evidentemente, puntiamo in questo lavoro ad individuare un
modello di indagine che possa ripulire gli effetti di tale stigma, non certamente riteniamo
nostro compito disquisire dei diversi elementi connotativi di tali termini, cosa che sarebbe
ovviamente oggetto di una ricerca storico-linguistica filologica.
Per evitare, tuttavia, equivoci e malintesi, limitiamo fin da subito il significato
attribuito al concetto di santità, perché ci sembra essere il meno consueto in un discorso
affrontato dal versante psicologico.
Con questo termine ci riferiamo innanzitutto alle figure autorevoli della religiosità
cattolica, elevate agli onori degli altari come persone che hanno ottenuto un ingresso
diretto e privilegiato nel Paradiso, per meriti ottenuti nella vita terrena. Ora, noi, non ci
occuperemo di certo di quanto possa succedere ai santi nell’al di là; mentre ci sembra
interessante vedere gli effetti psicologici delle loro esperienze personali e la
trasformazione della loro personalità, la quale ha conquistato una così grande attenzione.
Ci è sembrato che in queste vite – almeno quelle da noi prese in considerazione - si sia
mostrata una coscienza e conseguenti qualità mentali esuberanti rispetto le normali
condizioni conosciute nell’uomo comune. Tali personaggi, spesso vittime dello stigma e
dell’esclusione, sono quasi sempre stati preventivamente giudicati con il linguaggio
psichiatrico, per poi essere riconosciuti come portatori di visioni e idee lungimiranti circa
nuove condizioni di possibilità dell’esistenza umana. Il riconoscimento delle loro qualità
superiori, spesso decretato post-mortem, ci interessa perché diventa un invito ad un
preciso modello di comportamento umano, da realizzare hic et nunc, cioè non in cielo,
ma in terra. Perciò, lasceremo ogni questione teologica e metafisica agli specialisti,
tentando di restare, per quanto ne siamo capaci, sul terreno psicologico.
Genialità, follia e santità, sono dunque tre esperienze di vita, tuttora troppo spesso
marginalizzate e considerate più per gli atteggiamenti esteriori che per quelli che
traspaiono dalla vita intima o interiore di queste persone. Nel primo caso, l’esito della
socializzazione del termine è dicotomico: a volte positivo, altre volte negativo. L’enfasi è
sempre posta sulla creatività ed eccezionalità dei comportamenti del genio. Sta di fatto