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INTRODUZIONE
Questo mio lavoro ha lo scopo di ripercorrere e analizzare, anche alla luce di
documentazioni emerse nel corso di questi anni, eventi e circostanze che, tra il 1943
ed il 1947, portarono nei campi di accoglienza del Salento migliaia di profughi ebrei.
Mi riferisco, in particolare, a coloro che soggiornarono in S. Maria al Bagno: località
marina, sita nel territorio di Nardò, provincia di Lecce. L’importanza di tale storia,
tuttora oggetto di studi, nasce dal fatto che essa aggiunge un tassello importantissimo
al complesso mosaico dell’epopea del popolo ebraico e del nuovo Stato d’Israele.
Bisogna premettere che, secondo una tradizione attestata già in cronache medievali,
gli ebrei si insediarono nel Salento fin dall’epoca immediatamente successiva alla
distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme. In seguito, dopo alterne vicende
tra cacciate e ritorni, la loro presenza nella penisola salentina venne meno, intorno al
1541, quando l’Imperatore Carlo V d’Asburgo promulgò un editto, esteso anche
all’Italia meridionale, con il quale vietava agli ebrei di risiedere nei domini spagnoli.
Forzati alla conversione o all’esilio, coloro che, tra i cosiddetti “ebrei regnicoli”, non
abbracciarono il cristianesimo, emigrarono in altre regioni italiane, ma soprattutto
verso l’Oriente balcanico da dove, a oltre quattrocento anni dall’editto di espulsione,
tornarono a risiedere nel sud della Puglia
1
. In verità, per gli ebrei che nel 1943
giunsero nel Salento, la sosta rappresentò un periodo in cui elaborare lutti e
privazioni dei precedenti periodi, nell’attesa di raggiungere la meta desiderata: la
Terra d’Israele. In questo mio percorso ho ritenuto opportuno dedicare i primi due
capitoli ad esaminare, per grandi linee, gli eventi che hanno portato migliaia di
profughi ebrei, provenienti da diversi Stati europei come Polonia, Romania, Austria,
ecc.., ad emigrare in Puglia. In particolare nel primo capitolo dopo aver ripercorso il
processo d’integrazione degli ebrei nella società italiana dall’unità alla prima guerra
mondiale, mi sono soffermato sullo sviluppo della stessa questione durante il
fascismo. Ho cercato quindi di far emergere l’evoluzione del rapporto tra fascismo,
sionismo ed ebrei italiani, nel tentativo di porre in risalto motivi e circostanze che nel
1938 portarono all’applicazione delle leggi razziali, anche nel nostro Paese.
1
C. Colafemmina, Ebrei e cristiani in Puglia e altrove. Vicende e problemi, Cassano Murge, 2001.
4
Ho provato ad analizzare la cosiddetta “questione ebraica” anche alla luce di quelli
che erano i rapporti del regime in politica estera, sia con il sionismo sia con il mondo
arabo evidenziando, come a seconda delle circostanze, tali rapporti divenissero
essenziali per Mussolini in funzione di strategie per il controllo del Mediterraneo.
Nel secondo capitolo ho affrontato l’evolversi della cosiddetta “questione razziale”
dopo l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania, evento che ha portato
alla creazione di campi d’internamento per lo più localizzati nel centro-sud. Ho
cercato di comprendere come e perché gli ebrei ed altri prigionieri venissero internati
in tali campi, soffermandomi in particolar modo sul campo di Ferramonti di Tarsia,
in Calabria e sul campo di Campagna, in Campania: rispettivamente il più grande e
l’unico la cui popolazione era composta solo da ebrei stranieri maschi. Ho
considerato anche un altro aspetto, non certo meno importante, legato alla
partecipazione del nostro Paese al conflitto, con la conseguente occupazione di
territori, come la Grecia, la Jugoslavia, ecc.., che pose in essere un altro problema: la
gestione dei prigionieri di guerra, tra i quali era nota la presenza di ebrei e, in tale
circostanza, fu evidente quanto i metodi utilizzati dagli italiani fossero in netto
contrasto con quelli dell’alleato germanico. Nel terzo capitolo mi sono soffermato
sugli avvenimenti che coinvolsero gli ebrei italiani e stranieri, all’indomani dell’8
settembre, con l’occupazione dell’Italia del Nord da parte della Wehrmacht e la
conseguente nascita della Repubblica Sociale Italiana. Nello stesso capitolo ho
affrontato anche l’arrivo delle truppe alleate nel cosiddetto “Regno del Sud” e, in
particolare, il loro comportamento nei confronti della popolazione civile, non sempre
da “liberatori”. Nel quarto capitolo infine, ho illustrato le vicende che portarono alla
creazione dei campi d’accoglienza nella penisola salentina, soffermandomi in
particolare sul campo di S. Maria al Bagno. Da un’indagine, anche attraverso
interviste, testimonianze dirette ed ampia documentazione, è emersa la vita
quotidiana degli ebrei nel campo, i rapporti tra la popolazione locale, i profughi e le
truppe alleate, ma anche i problemi che questa “convivenza forzata” comportava. Ho
cercato di evidenziare la diversità di vedute tra i profughi ebrei e gli inglesi: i primi,
desiderosi di imbarcarsi per raggiungere Israele, che consideravano la loro patria
naturale, ma anche in verità l’unica possibile, considerando che nell’Est europeo si
andava consolidando il regime sovietico, non certo migliore o meno antisemita di
quello nazista.
5
I secondi, al contrario, “mandatari” sulla Palestina cercavano, in ogni modo di
scoraggiare questa emigrazione, ricorrendo a volte anche a metodi molto crudeli
come, ad esempio, l’affondamento dell’“Exodus”. I suddetti metodi, costrinsero gli
ebrei, a loro volta, a strutturarsi in organizzazioni militari e clandestine come il
“Betar” che, nello specifico, operò proprio nel campo di S. Maria al Bagno.
6
1. GLI EBREI IN ITALIA:
DALL’INTEGRAZIONE ALLA
DISCRIMINAZIONE
1. Antisemitismo e integrazione ebraica dall’unità alla prima guerra
mondiale
Il processo d’integrazione, materiale, morale e culturale degli ebrei nella società
italiana, ebbe inizio a cavallo tra XVIII e il XIX secolo, con le repubbliche giacobine
prima e, successivamente, nel periodo napoleonico fino ad un’ampia ed entusiastica
partecipazione degli ebrei al Risorgimento
2
.
Alla vigilia della rivoluzione francese, le condizioni degli ebrei in Italia erano
largamente differenziate: alla drammatica situazione degli ebrei viventi nei domini
della Chiesa e al peggioramento della situazione dell’ebraismo veneziano, facevano
riscontro l’ascesa economica accompagnata dalle interdizioni civili che
contrassegnava la vita delle comunità piemontesi, la situazione privilegiata di
Livorno, la migliore condizione delle comunità della Toscana e di quelle situate
nell’area asburgica (Trieste, Gorizia, Gradisca e Mantova)
3
.
In particolare la politica degli Asburgo e quella della Francia rivoluzionaria,
abolirono il regime differenziato che caratterizzava da secoli la vita delle comunità
ebraiche le quali, di fronte all’avanzata dello Stato centralizzato, tendevano a perdere
il proprio status di corporazioni che comportava discriminazioni ma anche privilegi.
Gli ebrei quindi, assieme ad altre categorie della società del tempo, uscirono dallo
stato di minorità giuridica per assumere la qualità di cittadini e cominciarono a
perdere la propria specificità. Questo processo, già avviato dalla politica asburgica,
ma esteso e perfezionato dai francesi, portatori della prima emancipazione degli ebrei
italiani, si risolse comunque in una scarsa penetrazione sociale e una limitata forza
intellettuale.
2
R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo,Torino, Einaudi, 1988, pag.15.
3
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, Milano, Franco Angeli s.r.l., 2003, pp.16-17.
7
Ciò nonostante, ebbe un’evidente portata modernizzatrice in quanto inaugurò una
condizione nuova, destinata a divenire irreversibile anche per l’ebraismo italiano:
produsse una divaricazione di atteggiamenti all’interno delle comunità, potenziando
le posizioni e le aspirazioni delle élites comunitarie; alla lunga, esercitò i suoi effetti
anche sull’immagine dell’ebreo, che aspirava in questi anni, nonostante arretramenti
e sconfitte, a nuove forme di vita politica, sociale ed economica
4
.
All’indomani della Restaurazione però, vi fu un diffuso ripristino delle interdizioni
israelitiche in vari Stati italiani e il dibattito della cultura italiana sugli ebrei,
condizionato anche dai limiti imposti dalla censura laica ed ecclesiastica, fu
dominato dalle correnti della cultura reazionaria e conservatrice, contrarie alla
concessione dei diritti, che si riallacciavano alla componete antisemita della cultura
italiana del Settecento e dalla tradizione cattolico-reazionaria che si rifaceva alle
preoccupazioni religiose tipiche del bagaglio teologico antigiudaico della Chiesa
cattolica
5
. Queste posizioni antiebraiche ed antiemancipazioniste circolavano e
penetravano nella società civile e tendevano a farsi “senso comune” attraverso le
prediche, l’insegnamento religioso, la pubblicistica popolareggiante e le allegazioni
giuridiche. Motivi antisemiti furono espressi in questi anni anche da esponenti delle
correnti liberale e democratica, a testimonianza della diffusione dei pregiudizi che il
dibattito settecentesco e le vicende francesi non avevano sradicato e che erano
destinati ad esercitare la loro influenza in ambiti popolari e culturali anche nell’Italia
unita
6
.
Nel corso del Risorgimento comunque, si andò manifestando un parallelo processo di
formazione della coscienza nazionale negli italiani e negli ebrei, tale da favorire il
positivo inserimento della componente ebraica nel tessuto del paese
7
. Inserimento,
favorito poi dallo Statuto Albertino il quale, affermando il principio dell'uguaglianza
dei “regnicoli” dinanzi alla legge e riconoscendo una certa tolleranza nei confronti
dei culti diversi da quello ufficiale, di fatto escludeva una possibile discriminazione
nei confronti degli ebrei in quanto tali.
4
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia,cit., pp.17-18.
5
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.19.
6
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.20.
7
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.26.
8
L'art. 24 dello Statuto così recitava:
“Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono
egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni
determinate dalle leggi”.
L’art.1 invece chiariva:
“La religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora
esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”
8
.
Con il compimento dell’unificazione nazionale nel 1870 vi fu, infine, la conclusione
del processo di emancipazione politica e civile degli ebrei della penisola e il
rafforzamento di quel processo di integrazione nella vita della società e dello Stato
che, attraverso varie tappe, sarebbe stato arrestato solo dalle leggi razziali del
fascismo
9
.
Nei decenni successivi all’unità quindi, mancarono in Italia i presupposti economici
e religiosi per una consistente diffusione dell’antisemitismo e per una sua proficua
utilizzazione politica: gli ebrei, ricchi di un’antichissima tradizione di insediamento
storico e sociale nelle città e nei paesi dell’Italia centro-settentrionale, non
presentavano caratteristiche differenzianti percepibili e soprattutto erano pochi.
Neppure la loro vigorosa partecipazione politica ed economica agli orientamenti e
alle imprese della borghesia italiana costituirono significativi impulsi in tal senso; le
loro attività economiche a livello nazionale e locale infatti, vennero percepite come
italiane e non come ebraiche, parte dello sforzo comune di costruzione del nuovo
Stato, sulla base dell’adesione ai valori di una religione della patria liberale e
sabauda
10
.
Le principali manifestazioni di antisemitismo nell’Italia liberale provennero da
ambienti cattolici, la cui polemica fu particolarmente virulenta tra il 1870 e il 1873 e
tra il 1883 e il 1903, per ravvivarsi poi sul finire dell’età giolittiana. Saldamente
ancorato a motivi teologici, l’antisemitismo cattolico della fine dell’Ottocento si
arricchì in quegli anni di motivi politici destinati a trasmigrare nel bagaglio
ideologico dell’antisemitismo dei nazionalisti e dei fascisti.
8
N. Magrone, Codice breve del razzismo fascista, Bari, Interno-Sudcritica, 2003, pag.3.
9
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.21.
10
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag. 26.
9
Questa ripresa della polemica antiebraica va vista sullo sfondo dei difficili rapporti
del Vaticano e del mondo cattolico con lo Stato italiano, della diffusione
dell’anticlericalismo, del laicismo, della massoneria, al punto che, verso il 1890,
anche in Italia sembrò che l’antisemitismo stesse per divenire una sorta di monopolio
cattolico; esso andò declinando all’inizio del nuovo secolo di fronte alla crescita
dell’antisemitismo economico, politico e razziale in Europa, al declino delle correnti
democratiche e radicali e al consistente processo di inserimento nella vita politica ed
economica del paese dei cattolici. Nonostante la sua virulenza, l’antisemitismo
clericale non sembrò tradursi in un fenomeno politico di peso rilevante nella società
italiana, non riuscendo a determinare una opinione pubblica antiebraica, anche per la
sua utilizzazione come arma polemica contro la mistica nazionale
11
.
Vi furono però, nei primi anni successivi all’unità, anche sporadiche ma non
insignificanti manifestazioni di antisemitismo politico “laico”, che scaturivano da
una rigida lettura dei presupposti ideologici dell’emancipazione e dalla
preoccupazione per il possibile ruolo politico che avrebbero potuto svolgere gli ebrei.
In questo contesto va collocata, ad esempio, l’obiezione sollevata dal deputato
liberale del Veneto Francesco Pasqualigo nell’estate del 1873 alla nomina del
patriota ebreo Isacco Pesaro Maurogonato a Ministro delle Finanze nel governo
Minghetti. Pasqualigo partiva dalla denuncia dell’incompletezza dell’emancipazione
degli ebrei dai postulati tradizionali dell’ebraismo per evocare la possibilità di uno
scontro tra la “nazione” ebraica e lo Stato di appartenenza, attribuendo di fatto agli
ebrei una doppia nazionalità. Infine, un atteggiamento di critica e di disprezzo nei
confronti della “cultura” ebraica, fu manifestato anche da alcuni settori della cultura
e dell’opinione pubblica che condannava il tradizionalismo ebraico giudicato
inadeguato e arcaico rispetto ai valori della società circostante
12
.
Per ciò che riguarda il movimento sionista, in Italia esso ebbe una limitata diffusione
e nei suoi confronti vi fu un sostanziale disinteresse da parte dello Stato che guardava
alla Palestina secondo l’ottica dei Luoghi Santi e ripudiava ogni discriminazione
religiosa e razziale tra i suoi cittadini.
11
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.27.
12
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp.28-29.
10
Ancora nel 1896 il movimento sionista era in Italia quasi completamente
sconosciuto, ma già nel biennio 1897-1898 i primi congressi sionisti conquistarono
spazio sulla stampa italiana
13
. Gli organi d’informazione infatti, assunsero una
posizione precisa nei confronti del nuovo movimento che fu anche, indirettamente,
una presa di posizione nei confronti della questione ebraica. Contrarie al movimento
furono certamente le prese di posizione di ampia parte del mondo cattolico italiano
che fece ricorso ai soliti stereotipi antiebraici legati alla potenza del “denaro
giudaico” e allo sfruttamento ebraico dell’Europa cristiana. Nella stampa radicale,
moderata, socialista, predominarono invece la curiosità e soprattutto lo scetticismo.
Nonostante la persistenza di talune immagini stereotipate, comunque, la nascita e la
prima affermazione del sionismo politico non sembrarono mettere in discussione
l’identità nazionale degli ebrei italiani
14
.
Tra l’altro, all’affermarsi del sionismo nell’ebraismo internazionale tra la fine del
XIX e gli inizi del XX secolo, gli ebrei italiani risposero con una profonda
avversione; ne è prova il fatto che al primo congresso sionista del 1897, non
partecipò alcun rappresentante italiano e, quando al secondo congresso del 1898 vi
partecipò il rabbino Sonino di Napoli, questi fu vivacemente criticato dalla maggior
parte dei rabbini e dirigenti delle Comunità italiane.
Tale comportamento scaturiva dalla convinzione, nella maggioranza degli ebrei
italiani, che il sionismo fosse un fatto riguardante gli ebrei dei paesi in cui vigevano
una serie di discriminazioni, motivo per cui molti tra i primi sionisti italiani vi
aderirono “in nome di quel sentimento di solidarietà che unisce il felice al misero,
l'avventurato al reietto”
15
. Dal 1870 fino all’inizio delle persecuzioni razziali dunque,
la maggioranza degli ebrei era perfettamente integrata con il resto degli italiani, tanto
da affermarsi in varie attività in precedenza loro precluse come la burocrazia,
l’insegnamento, la carriera militare, ecc...
16
.
13
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.50.
14
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pag.52.
15
R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pag.17.
16
R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp.18-21.