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INTRODUZIONE
La presente trattazione muove dall'interesse per lo studio del profilo giuridico
costituzionale degli istituti e degli organi che qualificano il funzionamento del
Parlamento nella forma di governo vigente, nella cornice delineata dai principi e dalle
norme della Costituzione repubblicana del 1948, e muovendo dalla constatazione che il
dibattito su opportune riforme costituzionali, e in particolare il ruolo che la Camera alta
deve rivestire, è sempre vivace e attuale. Infatti, il tema della riforma del Senato viene a
riproporsi puntualmente nel panorama politico-culturale, quasi a configurarsi come
ricorso storico, e continua tutt’oggi ad essere al centro del dibattito, costituendo sempre
fonte di divergenze sia in ambito dottrinario che in sede politico-istituzionale. Da tempo
ormai si dibatte sull'opportunità della riforma del bicameralismo in vigore, giungendosi
ripetutamente all’invocata differenziazione dei ruoli per i due rami del Parlamento. Se in
passato tale argomento è stato spesso utilizzato per raggiungere nuovi equilibri politici,
oggi le contingenze storiche spingono per un intervento nel merito delle riforme,
relegando così in secondo piano obbiettivi di natura squisitamente politica.
L’analisi di un’istituzione quale il Senato, di cui nel prosieguo della trattazione si
sottolinea l'evoluzione durante il sessantennio di vigenza della Costituzione
repubblicana, non può certamente prescindere da un resoconto generale della lunga e
travagliata diatriba politico-dottrinale che portò, a partire dalla fase dell'Assemblea
Costituente – e, ancor prima, nelle sue commissioni e sottocommissioni –
all’introduzione di un bicameralismo dalle caratteristiche specifiche. Quest’ultimo si
affermava in principio come simmetrico, vale a dire attuato dai due rami del Parlamento
con funzioni sostanzialmente identiche e che, nonostante le diverse proposte di revisione
costituzionale, è rimasto tale. Si è partiti, pertanto, dai principi ispiratori che hanno
mosso i Costituenti a operare determinate scelte di campo nell'impostazione delle
“regole del gioco parlamentare”, cercando peraltro di intendere come tali principi –
durante i periodi di massima volontà riformatrice – siano stati discussi, criticati ed in
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specie come il bicameralismo sarebbe mutato se i diversi progetti si fossero
concretizzati.
In ogni modo, nell’intenzione del Costituente del 1948, residua una sottile
differenza fra Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, nel senso che il primo
dovrebbe costituire la sede fondamentale dell’espressione delle esigenze regionalistiche.
E’ questo, infatti, il senso più autentico dell’espressione il Senato della Repubblica
è eletto a base regionale, ai sensi di quanto disposto dall’art. 57 Cost. Nondimeno, il
Senato non ha mai esercitato effettivamente il ruolo poc'anzi tracciato, giacché è
mancata una puntuale attuazione della citata disposizione, anche perché in nessun’altra
parte della Costituzione è presente alcun accenno alla sopra illustrata funzione
esercitabile dal Senato. Del resto, la diversa durata delle legislature (5 anni per la
Camera e 6 anni per il Senato), o meglio, la più lunga durata del mandato del Senato,
prevista originariamente nel testo della Costituzione e presto eliminata, non valeva, in
alcun modo, a collegare quest’ultimo all’articolazione regionale dell’ordinamento.
Invero, le tendenze successive dimostrano che la formula utilizzata nell’art. 57 è
solo una soluzione di compromesso, intesa a creare un accordo tra sostenitori di un
bicameralismo paritario e quelli di una diversificazione delle due Assemblee sotto il
profilo delle funzioni. Pertanto, si dovette attendere sino all’attuazione delle Regioni a
statuto ordinario, nei primissimi anni Settanta, quando il dibattito sulla “crisi delle
istituzioni” riportò in auge tra le possibili soluzioni proprio quel nesso Senato-Regioni,
già abortito in sede Costituente, ritenendosi matura e concretamente praticabile una
riforma in senso regionalistico del Senato.
Si sarebbe in tal modo messa in moto una tendenza a riformare il sistema
bicamerale implementato con la Costituzione repubblicana che si potrebbe definire
“trasversale”, nel senso di essere condivisa da tutte le forze politiche (anche se ciascuna
con obiettivi e modalità d'intervento propri), e intesa a modificare le regole del
parlamentarismo, caratterizzato da un bicameralismo che di certo non può dirsi efficiente
e, per certi versi, anche non del tutto efficace. I momenti di “concretizzazione” di tale
tendenza furono in particolare quelli in cui seriamente si discusse di riforme: le
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Commissioni bicamerali per le riforme istituzionali, costituitesi nel corso delle diverse
Legislature, sebbene non siano riuscite concretamente nei loro intenti riformatori. D'altra
parte, molti altri avrebbero potuto essere i “momenti nevralgici” analizzabili, anche
perché prima delle Commissioni, tra l’una e l’altra e dopo di esse (soprattutto negli
ultimi anni), il dibattito non si è affatto arrestato; ci si è dovuti limitare, per rinviare ad
opportuna sede, di prendere in esame i momenti di maggiore intensità, vale a dire quelli
in cui tutte le forze politiche sono scese in “concertazione” per cercare di implementare
le basi per un parlamentarismo davvero dinamico che un mondo globalizzato in continua
evoluzione e in accelerazione richiede; argomento quest'ultimo certamente da non
trascurare dato il periodo di forte recessione economica che l'Italia, l’Europa e il resto
del mondo stanno attraversando.
Pertanto, dopo un esame del bicameralismo in generale e del Senato in particolare,
si è preferito incentrare l'analisi sui contenuti delle discussioni e dei vari progetti di
riforma svoltisi nelle diverse Commissioni bicamerali, cercando di capire se i principi
che avevano mosso e indirizzato i Costituenti fossero ancora condivisi e se
rappresentassero ancora la base di partenza per incidere sulle norme concernenti
l'impianto strutturale del Parlamento. Ci si sofferma, quindi, sul dibattito degli anni ’80 e
’90, nonché delle recenti Legislature – senza tralasciare, tra l'altro, il referendum
costituzionale, svoltosi il 25 e 26 giugno del 2006, che ha visto la maggioranza dei
votanti respingere la riforma costituzionale varata nella XIV Legislatura – ove si assiste
all’avvio di un lento, e non privo di ostacoli, processo di riforma che mette in
discussione l’opportunità di mantenere un bicameralismo perfetto, alla luce dei
mutamenti intervenuti nella forma di Stato in conseguenza dell’appartenenza
all’ordinamento dell’Unione europea, ma anche, e soprattutto, per la più ampia
autonomia riconosciuta alle Regioni e agli enti locali; sino a giungere al recente dibattito
da cui è scaturita l’idea di prendere a modello il Bundesrat di tipo tedesco quale spunto
utile per una riforma in senso regionalistico del Senato della Repubblica. Si vedrà nel
prosieguo della trattazione che proprio quest’ultima esigenza è alla base della riscrittura
del sistema bicamerale, alla luce delle diverse proposte di riforma della Costituzione,
attualmente all’esame in Parlamento, che riporta prepotentemente d’attualità le tematiche
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concernenti il rapporto federalismo/regionalismo, il sistema delle autonomie e l’inedito
Senato federale della Repubblica. Come è facile comprendere l'introduzione del Senato
federale deve fare i conti con un problema di fondo: deve essere lo stesso Senato della
Repubblica, chiamato ad approvare la legge di revisione costituzionale ex art. 138 Cost.,
a decidere della sua stessa trasformazione.
In attesa che le tanto acclamate riforme, le quali paiono godere del consenso
generale almeno a parole, siano tradotte in realtà, è sembrato opportuno approfondire la
questione, non precludendo a chi scrive di inserire nella parte finale della trattazione
alcune personali considerazioni conclusive al riguardo.
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CAPITOLO I: Il bicameralismo italiano
I. I. L'impianto bicamerale delineato in Assemblea Costituente.
In numerosi ordinamenti statali contemporanei l’adozione del bicameralismo,
anziché dipendere dalla struttura degli stessi ordinamenti, rappresenta il risultato di
particolari opzioni politiche, collegate alle motivazioni più disparate. Talora, infatti, la
Camera Alta è concepita e istituita per prevenire il pericolo di una democrazia totalitaria,
come quella che potrebbe risultare dalla concentrazione di eccessivi poteri in capo ad un
Legislativo monocamerale, il quale potrebbe essere indotto a valicare i limiti imposti alle
sue facoltà. Il binomio sovranità popolare-monocameralismo, pur avendo avuto, a partire
dalla Rivoluzione francese, un fondamento teorico e storico, in realtà, ha avuto una
scarsa attuazione, data la prevalenza, nella maggior parte degli Stati liberal- democratici,
di una strutturazione parlamentare di tipo bicamerale. In altri casi, invece, a questo fine
si accompagna, ovvero si contrappone, l’intento di creare una Camera di riflessione o di
raffreddamento, piuttosto che una Camera di contrappeso; sicché la ratio del
bicameralismo è da ricercare nel miglioramento qualitativo della produzione legislativa,
con un’elaborazione più meditata e una maggiore ponderazione nella determinazione dei
contenuti dell’ordinamento. In altri casi ancora, l’attenzione dei costituenti s’incentra
sull’esigenza di integrare la rappresentanza parlamentare, affiancando al collegio
espresso dall’intero corpo elettorale in nome di una logica politico-partitica, un altro
collegio che – in tutto o in parte – rappresenta determinate partizioni del territorio
nazionale o del corpo sociale (ovvero, più semplicemente, consenta che nel Parlamento
sia immessa una serie di tecnici, sia pure collocati in posizione ausiliaria rispetto ai
rappresentanti politici)
1
.
Per quanto concerne il contesto italiano, occorre rammentare che in seno
all’Assemblea Costituente, dai cui lavori derivò la Costituzione repubblicana del 1948,
1
Sulle funzioni del bicameralismo in generale e in particolare di quello italiano vedi Paladin, L. (1984),
Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quaderni Costituzionali, n. 2,
pp. 219 ss.
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forma e natura del sistema bicamerale si concretizzarono non già come il risultato di un
progetto complessivo e omogeneo, teso a realizzare un assetto organizzativo funzionale,
ben definito e condiviso, bensì come la somma di numerosi compromessi tra i partiti
politici che si indirizzarono verso una forma di parlamentarismo di tipo garantista
2
. Pur
muovendo in seno all'Assemblea Costituente – e, ancor prima, nelle sue commissioni e
sottocommissioni – dall’alternativa tra monocameralismo e bicameralismo, l’ambito
della questione si è ben presto trasferito sull’assetto da attribuire alla seconda Camera e
sulla differenziazione strutturale e funzionale di quest’ultima rispetto alla Camera dei
deputati; passando poi in rassegna sistemi diversi di composizione dell’Alta Assemblea,
sul presupposto dell'introduzione delle regioni nell’edificando assetto costituzionale (ma
partendo da una quasi generale ostilità nei riguardi del federalismo
3
, considerato in
quella fase storica come potenziale “pericolo” per l’unità nazionale), ci si orientò sulla
composizione a “base regionale”, su cui poi finirono per confluire tutte le forze politiche.
Nondimeno, sul quomodo di tale composizione le divisioni furono inconciliabili
4
,
al punto che l’unico nesso di collegamento tra l'ordinamento regionale e il Senato
divenne l’astratto accenno del primo comma dell’articolo 57 della Costituzione
sopravvissuto fino ai giorni nostri
5
: «Il Senato della Repubblica è eletto a base
regionale» (ma i suoi membri «rappresentano la Nazione» ex art. 67 Cost.). Per di più,
gli indirizzi maggioritari che spinsero a interpretare tale formula come semplice
riferimento a circoscrizioni elettorali regionali, nonché ad evitare qualsiasi
differenziazione di composizione e di metodo di elezione rispetto alla Camera dei
Deputati, non fecero dell’attuale seconda Camera che un mero “doppione” della prima,
realizzando un bicameralismo talmente perfetto da esser definito da alcuni
2
Per approfondimenti in proposito dell’articolo 57 cost. come il risultato di veti incrociati vedi Mattarella,
S. (1983), Il bicameralismo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., p. 1163.
3
L’ostilità al federalismo pose i Costituenti nell’ottica di un monocameralismo funzionale, vale a dire di
un bicameralismo scevro da qualsiasi differenziazione dei compiti e delle funzioni dei due rami del
Parlamento, entro cui gli enti regionali potessero poi inserirsi per concorrere a determinare l’indirizzo
politico statale. In proposito cfr. Mattarella, S., op. ult. cit., p. 1165 e Giannini, M.S. (1978), Prefazione a I
nuovi poteri delle Regioni e degli enti locali, a cura di Barbera A. e Bassanini F., Bologna, Il Mulino, p. 8.
4
Si comprende la tendenza effettivamente perseguita, ove si rifletta sul fatto che il trasferimento alle
Regioni a Statuto ordinario dei poteri loro attribuiti dalla Costituzione è avvenuto soltanto nei primissimi
anni ’70.
5
L'articolo in questione, con gli artt. 56 e 60 della Costituzione sono stati modificati dalla legge
costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, e dalla legge costituzionale 23 gennaio 2001, n.1.