Introduzione
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INTRODUZIONE
CARCINOMA MAMMARIO
EPIDEMIOLOGIA ED EZIOLOGIA
Il carcinoma è la piø comune neoplasia maligna della mammella nelle donne, con una
stima di 1,4 milioni di nuovi casi diagnosticati e 458.000 decessi a livello mondiale nel
2008 (Ferlay J et al., 2010). Tassi d’incidenza piø elevati sono riscontrati in USA
(popolazione bianca), Svizzera, Italia e altri paesi europei, mentre piø bassi sono
registrati in Africa, Asia e Sud America. I tassi relativi alle popolazioni asiatica e
ispanica negli Stati Uniti sono considerevolmente piø elevati se messi a confronto con
quelli riscontrati rispettivamente in Asia e in America Latina.
L’elevata incidenza di carcinoma alla mammella negli Stati Uniti e nei Paesi Europei
Occidentali riflette la correlata diffusione di fattori riproduttivi associati all’aumento del
rischio dello sviluppo della patologia quali: menarca precoce, poche gravidanze e in età
avanzata, terapia ormonale sostitutiva in menopausa. Va aggiunta a questi dati la
registrazione di un’elevata incidenza di carcinoma mammario in Israele in correlazione
probabilmente a una sproporzionata prevalenza di mutazioni di BRCA-1 e BRCA-2
nella popolazione ebrea Ashkenazi (circa il 2%) (Roa BB et al., 1996). Pertanto, il
rischio di sviluppare un carcinoma mammario in presenza di mutazione di BRCA-1 e
BRCA-2 è di circa il 50% paragonato al 13% di tutte le donne degli Stati Uniti
(American Cancer Society, 2009).
I tassi di incidenza negli Stati Uniti sono diminuiti a partire dal 2000 e ciò è in gran
parte correlato alla riduzione nell’uso della terapia ormonale sostitutiva in menopausa.
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Un andamento analogo è stato riscontrato anche nei Pesi Occidentali tra i quali anche
Regno Unito, Francia e Australia (Parkin DM, 2009; Canfell K et al., 2008).
I tassi di mortalità, relativamente bassi negli Stati Uniti e in calo negli ultimi 25 anni nei
Pesi occidentali, riflettono l’aumento di diagnosi precoci grazie a screening
mammografici e la disponibilità di migliori trattamenti farmacologici (Althuis MD et
al., 2005; Sant M et al., 2006).
Viceversa, i tassi di incidenza e di mortalità riscontrati nell’ Europa orientale, in Asia,
America Latina e Africa sono aumentati con rapidità (Parkin DM et al., 2010).
I fattori che spiegano tali incrementi non sono ancora stati completamente chiariti,
tuttavia possono essere correlati a un cambiamento nello stile di vita che conta poche
gravidanze e in età avanzata, un consumo di cibi ipercalorici, scarsa attività fisica e
obesità.
La scarsa sopravvivenza in questi Paesi è dovuta a un mancato o limitato approccio alla
diagnosi precoce e ai trattamenti farmacologici. Solo il 40% delle donne della
Campanias (Brasile) e Setif (Algeria) con diagnosi di carcinoma mammario
sopravvivono nei 5 anni successivi (Coleman MP et al., 2008) comparato con l’89%
negli Stati Uniti e piø dell’82% nell’Europa centrale e settentrionale (Sant M et al.,
2009).
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Fig. 1 Tassi di incidenza del carcinoma mammario, 1973-2006
(Jemal et al., Published OnlineFirst July 20, 2010)
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La diffusione e la frequenza del carcinoma mammario emerse dagli studi
epidemiologici hanno promosso un ampio studio dei fattori di rischio di questa malattia
per ricavare indizi relativi alla sua eziologia ma anche per identificare i fattori di rischio
modificabili, utili alla ricerca di strategie di prevenzione.
I piø comuni fattori di rischio per lo sviluppo del carcinoma mammario risultano essere
i seguenti:
• Età. L’incidenza del cancro alla mammella, raramente diagnosticato prima dei 25
anni di età salvo che per alcuni casi familiari, aumenta nel corso della vita. Il 77%
dei casi diagnosticati riguardano donne con età superiore ai 50 anni (Robbins VIII
edizione).
• Età al menarca e alla menopausa. Le donne che presentano un menarca precoce
e una menopausa tardiva hanno un aumentato rischio di sviluppare il carcinoma
mammario legato alla continua esposizione dell’epitelio ghiandolare a stimoli
proliferativi durante il periodo fertile. Donne con menarca prima degli 11 anni di
età hanno un aumento del rischio del 20% rispetto alle donne che hanno il
menarca dopo i 14 anni di età. Donne in cui la menopausa compare oltre i 55 anni
di età hanno una probabilità doppia di sviluppare la malattia rispetto a donne in
cui compare prima dei 45 anni (McPherson K et al.,2000).
• Età della prima gravidanza a termine. Le donne che hanno la prima gravidanza
a termine a meno di 20 anni di età hanno un rischio dimezzato rispetto a donne
nullipare o con prima gravidanza a termine in età maggiore di 35 anni. L’ipotesi è
che la gravidanza comporti una differenziazione terminale delle cellule stromali,
rimuovendole dal potenziale pool di precursori del carcinoma.
• Storia familiare. Il rischio di carcinoma alla mammella aumenta in proporzione
al numero di parenti affetti. Da studi epidemiologici è emerso che il rischio di
sviluppare carcinoma mammario aumenta di 2-3 volte se un parente di primo
grado ne è affetto, 4-6 volte se i parenti di primo grado affetti sono due. Inoltre,
tale rischio è inversamente proporzionale all’età del paziente (McPherson K et al.,
2000). Tuttavia, la maggioranza dei carcinomi si verifica in donne che non
presentano tale anamnesi: solo il 13% delle donne con carcinoma alla mammella
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ha un parente di primo grado affetto e solo l’1% ha due o piø parenti affetti
(Robbins VIII edizione).
• Alterazioni genetiche. Circa 5 casi su 100 sono associati ad una predisposizione
genetica, il cui sospetto nasce spesso da una forte familiarità. Per molti geni, tra
cui BRCA-1 (Breast Cancer-1) BRCA-2, p53, PTEN (Phosfatase and Tensin
Homolog), ErbB2, sono state osservate delle mutazioni della linea germinale che
aumentano il rischio di carcinoma mammario.
BRCA-1 e BRCA-2 sono geni oncosoppressori localizzati sul braccio lungo
rispettivamente del cromosoma 17 (17q12-21) e del cromosoma 13 (13q12-
13) e le mutazioni a loro carico sono responsabili del 75% delle neoplasie
mammarie ereditarie. In presenza di una mutazione del gene BRCA-1 c’è un
rischio sostanzialmente maggiore di sviluppare neoplasie mammarie,
epiteliali ovariche e un lieve aumento del rischio di cancro alla prostata e al
colon. In egual modo, mutazioni del gene BRCA-2 aumentano il rischio di
tumori dell’ovaio e della mammella maschile ma anche altri tumori, quali
melanomi e tumori al pancreas. Sebbene le funzioni di questi due geni non
siano ancora del tutto chiare, si ritiene che i loro prodotti proteici localizzati
nel nucleo siano coinvolti nella regolazione della trascrizione. In particolare,
BRCA-1 è coinvolto nella regolazione dell’attività dei recettori per estrogeni
ed è anche un coattivatore dei recettori per androgeni. Le proteine codificate
da entrambi i geni BRCA-1 e BRCA-2 sono essenziali nel processo di
riparazione del DNA danneggiato; legano RAD51 avviando la correzione
delle rotture del doppio filamento di DNA e sono coinvolte anche nel
rimodellamento della cromatina. BRCA-1 e BRCA-2 sono inoltre in stretta
correlazione con le componenti del check-point G
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/S che arresta il ciclo
cellulare al fine di garantire la riparazione del tratto di DNA danneggiato.
Alla luce di tutto questo è deducibile che mutazioni a carico dei geni BRCA-1
e BRCA-2 intacchino il loro ruolo nel mantenimento dell’integrità genomica
e concorrano a generare errori nella replicazione del DNA. Viste le piø
funzioni di questi geni, i meccanismi attraverso cui aumentano il rischio dello
sviluppo di carcinomi sono molteplici e non del tutto chiariti. Le mutazioni di
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un allele dei geni BRCA-1 oppure BRCA-2 vengono ereditate con
trasmissione autosomica dominante. Le donne portatrici di una mutazione a
carico di uno dei due geni sviluppano con una percentuale del 50-80% un
carcinoma mammario nel corso della loro vita; nel 20-40% dei casi invece
viene loro diagnosticata una neoplasia ovarica se portatrici di mutazione
BRCA-1 che si abbassa al 10-20% se portatrici di mutazione BRCA-2. I
carcinomi con storia familiare legati a mutazioni dei geni BRCA-1 e BRCA-2
tendono a manifestarsi in età giovanile rispetto ai casi sporadici, anche se
l’aumentato rischio connesso alla presenza di queste mutazioni persiste nel
corso di tutta l’esistenza. Frequenti sono neoplasie mammarie bilaterali:
probabilmente ciò risiede nel fatto che la proliferazione intermittente
dell’epitelio della mammella rende quest’organo piø suscettibile di altri
all’accumulo di lesioni genetiche (Robbins VIII edizione).
P53 è un oncosoppressore situato sul braccio corto del cromosoma 17p13.1 il
cui prodotto proteico è presente in tutte le cellule normali. Se mutato è il
maggiore responsabile dei tumori umani: poco piø del 50% di tutti i tumori
umani contiene mutazioni a suo carico (Robbins VIII edizione). Questo gene
si trova mutato nel 40% dei casi di tumore alla mammella ed è associato alle
forme piø aggressive ed a prognosi sfavorevole (Bonadonna G et al., 2007).
La proteina p53, che deve il nome al suo peso molecolare, è una proteina di
393 amminoacidi in cui possono essere distinti tre domini: uno N-terminale
denominato dominio di trascrizione-attivazione (TAD); uno centrale detto
dominio DNA-ligando (DNA-binding core domain, DBD) che contiene ioni
zinco Zn
+
e residui di aminoacido arginina; uno C-terminale chiamato
dominio di omo-oligomerizzazione (OD). La formazione di un tetramero di
p53 aumenta fortemente l’attività di p53 in vivo. Le mutazioni piø frequenti,
approssimativamente l’80%, che inattivano p53 si localizzano nel dominio
DBD. La maggior parte di queste mutazioni rendono la proteina incapace di
legarsi alle specifiche sequenze di riconoscimento sul DNA, non attivando la
trascrizione genica. Definita come il “guardiano del genoma”, la proteina p53
è un fattore di trascrizione che svolge numerosi ruoli dal punto di vista
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molecolare, tutti finalizzati alla preservazione della stabilità del genoma
umano: è in grado di riconoscere la presenza di eventuali rotture della doppia
elica, di legarvisi e, in tal caso, di provvedere ad instaurare meccanismi di
riparo. Per fare ciò, determina un blocco transitorio della proliferazione
cellulare al fine di evitare che una cellula danneggiata si replichi in modo
incontrollato. Se la riparazione non è avvenuta efficientemente o il danno al
DNA è troppo esteso, p53 può indurre la morte per apoptosi della cellula
stessa (Buonsanti G, 2006). Quando la cellula è quiescente, p53 è presente a
bassi livelli perchØ molto instabile e viene velocemente degradata. Inoltre si
trova legata alla proteina Mdm2, la quale accelera la degradazione di p53. Un
danno al DNA attiva una chinasi che fosforila p53, la quale rilascia Mdm2
cosicchØ il livello di p53 possa aumentare. p53 attivata svolge piø funzioni:
lega il DNA promuovendo la trascrizione di alcuni geni tra cui p21, inbitore
dei complessi ciclina/CDK, arrestando così la proliferazione cellulare; attiva
una GADD45 (Growth Arrest and DNA Damage) responsabile della
riparazione del danno al DNA; interviene nuovamente qualora la riparazione
non vada a buon fine inducendo la trascrizione di BAX e favorendo la morte
cellulare. L’obiettivo di questa regolazione negativa della crescita e divisione
cellulare messa in atto da p53 è quello di impedire l’espansione di cellule in
cui il DNA è danneggiato.
PTEN, il gene per la fosfatasi e la tensina, localizzato sul braccio lungo del
cromosoma 10 (10q23), è un soppressore tumorale che presenta delezioni
frequenti nei tumori umani. PTEN catalizza la defosforilazione di PIP-3
(fosfatidilinositolo-3,4,5-trifosfato) a PIP-2 (fosfatidilinositolo-4, 5-difosfato)
inibendo la via di trasduzione del segnale mediata dalla via PI3K/Akt/mTOR.
Se PTEN perde di funzione perchØ deleto questa via di trasduzione risulta
essere iperattivata con conseguente inibizione di apoptosi e incremento della
sopravvivenza e della proliferazione cellulare. Mutazioni germinali a carico
di PTEN sono responsabili, inoltre, della Sindrome di Cowden, una patologia
responsabile dell’aumento del rischio dal 30 al 50% di sviluppare tumori alla
mammella entro i 50 anni.
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ErbB2(o HER2/neu) è un gene localizzato sul braccio lungo del cromosoma
17 e codifica per un recettore transmembrana della famiglia degli EGFR
(Epitelial Growth Factor Receptor). Questo recettore ha un ruolo
fondamentale nella regolazione della crescita, sopravvivenza e
differenziazione cellulare e risulta essere amplificato e overespresso in circa il
25% dei carcinomi alla mammella. Molte terapie attualmente in uso hanno
come target l’ErbB2, che sembra rivestire un significato non solo prognostico
ma anche predittivo di risposta alla chemioterapia, alla terapia con anticorpi
monoclonali (HERCEPTIN) ed alla terapia endocrina (Gabrielli M et al.,
2002).
• Etnia. Studi epidemiologici hanno evidenziato che se le donne bianche hanno un
tasso di incidenza maggiore rispetto alle donne di colore, quest’ultime hanno un
tasso di mortalità piø elevato (Jemal A et al., 2010) (Fig. 1).
• Esposizione agli estrogeni. La terapia ormonale sostitutiva postmenopausale
aumenta lievemente il rischio di carcinoma mammario ma potrebbe non
aumentare il rischio di morte. L’associazione di estrogeni e progestinici
aumentano il rischio piø di quanto non lo facciano gli estrogeni da soli. L’uso di
contraccettivi orali sembra aumentare di poco il rischio di carcinoma mammario e
solo in un arco di tempo limitato; infatti, a 10 anni dall’interruzione
dell’assunzione questo rischio sembra scomparire del tutto (Palli D et al., 1999).
Inoltre, la riduzione del livello di estrogeni endogeni per mezzo di ovariectomia
riduce fino al 75% il rischio di sviluppare il carcinoma mammario (Robbins VIII
edizione).
• Esposizione a radiazioni. Donne che durante la seconda guerra mondiale sono
state esposte a radiazioni ma pure donne esposte a radioterapia presentano un alto
rischio, talvolta persino raddoppiato, di sviluppare carcinoma mammario. Anche
le radiazioni ionizzanti sono un fattore di rischio, in particolar modo se
l’esposizione a esse avviene nella fase di sviluppo della mammella (McPherson K
et al., 2000).
• Carcinoma della mammella laterale o dell’endometrio. L’aumento del rischio
è associato a carcinoma della mammella controlaterale o dell’endometrio,
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probabilmente a causa dei condivisi fattori di rischio ormonali per questi tumori
(Robbins, VIII edizione).
• Dieta e obesità. Una dieta ipercalorica e iperlipidica, e quindi una situazione di
obesità, possono predisporre alla comparsa di neoplasie. In particolare per il
carcinoma mammario porterebbero ad alterazioni sia sistemiche (ormonali, quali-
quantitative del tessuto adiposo) sia nel tessuto mammario stesso. Nello specifico,
in donne obese di età inferiore ai 40 anni c’è una riduzione del rischio grazie
all’associazione con cicli anovulatori e ai livelli inferiori di progesterone nella
fase tardiva del ciclo; mentre nelle donne obese in menopausa si ha un aumento
del rischio attribuito alla sintesi di estrogeni nei depositi dei tessuti adiposi.
Inoltre, il consumo di alcool è, secondo alcuni studi, correlato ad un aumento del
rischio probabilmente a causa dell’aumentato livello di estrogeni e al basso livello
di folati ad esso associati.
• Allattamento al seno. Quanto piø a lungo le donne allattano al seno tanto
maggiore è la riduzione del rischio di sviluppo della malattia; ciò probabilmente è
correlato al ritardo dei cicli ovulatori dato dall’allattamento al seno. La bassa
incidenza di carcinoma mammario che si registra nei Paesi in via di sviluppo può
in gran parte essere motivata con la frequente e prolungata pratica di allattamento
al seno (Robbins VIII edizione).
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CENNI DI ANATOMIA DELLA MAMMELLA
Fig. 2 Anatomia della mammella
Dissezione antero-laterale e Sezione sagittale