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INTRODUZIONE
L’adulterio: discriminazione nella storia e nella Bibbia.
Intenzione dell’Autore, in questa breve introduzione, è dare un’immagine di
come l’adulterio sia stato visto e trattato dall’antichità sino ai giorni nostri.
È quasi sempre esistito un regime discriminatorio tra uomo e donna in
merito a tale fenomeno (peggiore per la donna), e non sono lontani i tempi in
cui il nostro ordinamento la pensava in questo modo. Si è dovuti attendere
la riforma del diritto di famiglia del 1975 per vedere definitivamente
riconosciuta ed applicata la volontà della Costituzione (già dal 1948) di una
uguaglianza giuridica e morale dei coniugi.
Dal latino adulterare (: corrompere), l'adulterio è una relazione
sentimentale o carnale fra due persone delle quali almeno una già coniugata
con un'altra persona
(1)
.
Si tratta di un atto condannato sin dall’antichità in quanto considerato un
delitto contro il matrimonio, un atto lesivo della dignità del coniuge e della
unità familiare.
Nel diritto antico, in Grecia, l’adulterio non era considerato solo un’offesa
recata al marito, ma anche un reato commesso contro l’oiùkov, la cellula
fondamentale della società greca, perseguito a favore della perpetuazione
della stirpe e la conservazione dei riti familiari. Si spiega così come mai
fosse considerato adulterio un rapporto carnale illecito anche con la sorella,
la madre e con la concubina che uno avesse con sé per averne figli liberi
(2)
.
Poiché la scopo esclusivo del matrimonio era quello di generare figli, in
Grecia l’adulterio era considerato dunque anche un’ingiuria alla collettività:
esso, infatti, poteva avere come conseguenza l’introduzione, nella casa del
1
Da www.wikipedia.org , L’Enciclopedia libera, voce adulterio.
2
PAOLI U. E., 1961, Diritto attico, s. v. Famiglia in Novissimo Digesto Italiano, VII, Utet, Torino, 36.
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marito e negli elenchi dei cittadini ateniesi, di un bambino che non aveva
alcun legame di parentela con lui e poteva anche non essere ateniese.
Inoltre, il delitto di adulterio non era perfetto se non c’era violazione del
domicilio, dal momento che i rapporti che una donna libera aveva fuori delle
pareti domestiche erano considerati violenza carnale e non adulterio.
Il cittadino ateniese, che all’interno della sua casa aveva poteri sovrani,
poteva uccidere impunemente l’adultero se lo sorprendeva in flagrante tra le
pareti domestiche, mentre fuori avrebbe commesso un omicidio volontario.
Tuttavia, per non ricorrere all’uccisione dell’amante, poteva anche
accordarsi con lui su una multa da pagare, come risarcimento del danno
recato all’onore della famiglia.
Il reato di adulterio si configurava ogni qualvolta un uomo sposato aveva un
rapporto sessuale solo con una donna appartenente a una classe sociale
elevata, anche se vedova; avere relazioni sessuali con donne plebee era
infatti considerato più che naturale e comunque non offensivo.
Nel diritto greco la donna non era considerata soggetto di reato (non
esisteva il termine “adultera”), ma solo oggetto passivo del reato di
adulterio, e dunque non era per questo legalmente punibile, in quanto non
considerata responsabile. Tuttavia intercorreva in alcune sanzioni familiari:
era allontanata dai sacrari e, se sposata, veniva rimandata dal marito alla
famiglia paterna, la quale famiglia doveva punirla, anche vendendola come
schiava oltre i confini dell’Attica
(3)
. La dona accusata di adulterio non aveva
dunque alcuna possibilità di difendersi, e una volta condannata non poteva
più partecipare a cerimonie pubbliche né ovviamente si poteva risposare:
era di fatto socialmente emarginata.
In epoca romana regia (753-510 a.C.) l’adulterium era ritenuto un vero e
proprio delitto.
L’obbligo di fedeltà coniugale riguardava esclusivamente la donna e
derivava dalla sottoposizione della stessa alla potestà del padre o del marito.
Più che la fiducia ciò che si riteneva violato era un diritto di “proprietà”.
3
POMEROY S., 1978, Donne in Atene e a Roma, Einaudi, Torino, 36.
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All’obbligo del terzo di non violare la proprietà del padre o del marito si
aggiungeva l’obbligo della donna di non violare il dovere di fedeltà.
L’obbligo della moglie nei confronti del marito era sanzionato con il
riconoscimento a questi del diritto di reagire, fino ad ucciderla (ius
occidenti). L’infedeltà del marito era invece priva di rilevanza giuridica,
potendo essere solo considerata, in taluni casi, come attenuante
dell’adulterio della donna.
La Lex Iulia de adulteriis coercendis (18 a.C.), emanata dall’imperatore
Augusto, previde e disciplinò il crimen adulterii e le varie fattispecie che vi
rientravano (adulterium; incestum; lenocìnium ; stuprum)
(4)
, istituendo la
relativa quaestio (specifico tribunale permanente competente in materia)
(5)
che sottraeva, seppure in parte, la disciplina dell’adulterio all’arbitrio del
cittadino.
La Lex Iulia prevedeva che il marito tradito poteva sopprimere l’adultero in
caso di flagranza oppure trattenerlo, non oltre venti ore, per procurarsi la
prova del delitto, ma non aveva più il diritto di uccidere la moglie adultera.
E qualora il marito tradito continuasse a tenere la moglie adultera con sé
invece di ripudiarla (c.d. repudium: che per legge era obbligato a fare),
subiva la pena del lenocinio: veniva cioè accusato di sfruttamento della
prostituzione.
Il marito adultero era invece punito con sanzioni pecuniarie, comportanti la
restituzione della dote se dal fatto derivava il divorzio.
Era pure previsto che, il pater familias che avesse sorpreso in flagrante
adulterio la figlia, poteva uccidere sia lei che il complice
(6)
.
La Lex Iulia tentò di limitare i casi di divortium ( o repudium) reprimendoli
con una sanzione pecuniaria: la confisca (publicatio honorum) di una metà,
4
La lex Iulia de adulteriis coercendis considerava adulterio anche lo stuprum (nessuno dei due amanti
era legato ad altra persona da vincoli coniugali), in quanto violazione del diritto del pater che esercitava
la potestà sulla stessa.
5
DIZIONARIO Giuridico–Romano , 2010, voce quaestio, Edizioni Giuridiche Simone, Milano.
6
DIZIONARIO ult. cit., voce Lex Iulia de adulteriis coercendis.
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per il complice, o di un terzo, per la moglie, del patrimonio; o con la relegatio
in insulam per la donna e il complice, ovviamente in due isole diverse.
Ancor prima dell’affermarsi del cristianesimo, nel IIº secolo, si delinea una
parità non certo tra i diritti, però tra i doveri di marito e moglie; d’ora in poi
il marito manterrà il diritto di prendersi i suoi svaghi, ma avrà il dovere di
esser fedele alla moglie; per parte sua la moglie continuerà ad avere il
dovere di essere fedele al marito e, se commette adulterio, ad essere
punibile.
All’epoca di Costantino I (306 d.C.), la pena per l’adultera restò la morte, da
infliggere con la spada o con il supplizio del sacco. Pena di morte soppressa
da Giustiniano I di Bisanzio (527 d.C.) che la sostituì con altre pene, anche
pecuniarie.
Ma la morte per l’adultera tornò ad essere legge, dopo la disgregazione
dell’impero romano (476 d.C.), in molte legislazioni intermedie.
Anche il diritto longobardo ( 568 d.C.) rese in qualche misura obbligatoria la
vendetta del marito nei confronti degli adulteri sorpresi in flagrante, mentre
un editto (527 d.C.) attribuito ad Atalarico stabilì che la donna che
conviveva con un uomo sposato (la c.d. concubina) fosse abbandonata alla
matronalis ultio, vale a dire alla vendetta ed al castigo della moglie tradita.
L’adulterio continuò ad essere punito con severità, spesso pure con la morte,
anche in epoca medievale.
Nell’Alto medioevo (caduta dell’impero romano d’occidente, 476 d.C. - anno
1000 d.C. circa), l’incesto fra parenti era considerato normale (per garantire
le dinastie feudali), ma erano banditi i rapporti i rapporti sessuali liberi e la
donna che veniva colta in flagrante adulterio dal marito poteva essere uccisa
subito insieme all’amante, senza che il marito intercorresse in alcuna
sanzione
(7)
.
Il “fetore dell’adulterio”, per usare l’espressione testuale della legge
burgunda (755 d.C), generava una riprovazione tale da portare al ripudio
immediato della donna maritata, che veniva poi strangolata e gettata in una
7
www.tradimento.net, Adulterio nel medioevo, 6 ottobre 2010.
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palude fangosa. L’adulterio, infatti, era considerato un’autentica
contaminazione della donna e della discendenza, vale a dire della futura
successione. Tutte le unioni fuori e in disprezzo all’ordine sociale, erano
impensabili e proibite perché dissolvevano la società, così come la donna che
commetteva adulterio per propria volontà, distruggeva l’autenticità dei figli
e vanificava il carisma del sangue. In sostanza, e al contrario di quella
dell’uomo, la vita privata della donna era punto per punto pubblica, viste le
conseguenze che era capace di provocare
(8)
.
Ancora dopo il 1000 d.C. le Costituzioni in Sicilia permettevano al marito di
uccidere la moglie ed il suo amante sorpresi in flagrante adulterio; ciò non
era più lecito fare se era passato del tempo; infatti, se non c’era la flagranza,
il marito poteva solo tagliare il naso alla moglie.
Ma già nelle leggi di Federico II di Svevia (nel 1231 d.C.) la morte fu
commutata nella confisca dei beni e molti Statuti, pur fissando anche una
pena corporale, spesso ne ammettevano la trasformazione in una multa
pecuniaria che alle volte, per entrambi i colpevoli, era in sostituzione di pene
decisorie, come quella di dover correre nudi per la città tra lo schiamazzo di
molti che forse erano non meno colpevoli. Ma per la donna la pena era
frequentemente quella del carcere a volontà del marito o di punizioni
corporali, oltre naturalmente la perdita della dote a vantaggio del marito
stesso.
Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano
articoli sulla punizione dell’adulterio che prevedono dure pene sia per gli
uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del
1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un
marito adultero.
Per alcuni Statuti l’uomo adultero se la cavava con una multa, mentre la
donna era condannata a morte o messa al rogo, poiché il fuoco pareva
proprio avesse una funzione purificatrice. Queste pene potevano solo essere
applicate su denuncia e richiesta del marito, il quale avrebbe portato così in
8
ARIES P. e DUBY G., 2001, La vita privata - Dall’impero romano all’anno mille, Laterza, Bari.
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pubblico la sua disgraziata vita coniugale. Spesso succedeva che coloro le cui
mogli erano adultere non osavano portare l’accusa in giudizio per non
incorrere in perpetua infamia, secondo una perversa consuetudine.
Solo in tempi recenti, almeno nella società occidentale, l’adulterio non è più
considerato un delitto, ma per lungo tempo è stato consentito che l’offesa
potesse essere vendicata legittimamente col sangue (il c.d. “delitto d’onore”).
Nell’età moderna (XVI-XVII sec.), in Italia l’adulterio era punito con gravi
ammende, e, rispetto al Medioevo, tali pene s’inaspriscono ulteriormente. I
fiorentini che lo commettevano rischiavano l’esilio. Nel 1750 d.C., a
Piacenza, l’adultera, denudata dalla cintola in giù, veniva frustata con
robuste verghe; venticinque anni dopo, a Bologna, il Cardinale Salvati si
accontentava di infliggerle tre tratti di corda, ma la pena di morte era la
sorte promessa; a Cesena e a Modena, alla donna che tradiva il marito sotto
il tetto coniugale, le si tosava il cranio a zero
(9)
.
Con la Rivoluzione francese (1789-1799 d.C.) si affermò il concetto che,
essendo il matrimonio un contratto, la sanzione da applicare a chi ne
violasse gli obblighi doveva essere, in virtù del principio inadimplendi non
est adimplendum la cessazione delle controprestazioni, vale a dire il diritto
di chiedere il divorzio. In tal modo, l’adulterio fu considerato una questione
privata, che non coinvolgeva interessi pubblici e non giustificava l’intervento
punitivo dello Stato.
La Restaurazione (1814 d.C.) determinò il ritorno ad un sistema
sanzionatorio, con disciplina differenziata per l’uomo e per la donna. Il
diverso regime veniva giustificato con il riferimento alla “tradizione” e con il
fatto che, rispetto al passato, l’esistenza di una punizione anche per l’uomo
già rappresentava una forma di riequilibrio del sistema.
Non mancavano tuttavia posizioni teoriche che pretendevano di giustificare
il differente trattamento, sostenendo che l’adulterio del marito si esauriva
quasi sempre in un’evasione episodica, mentre l’adulterio della moglie
9
SOLÈ J., 1979, Storia dell’amore e del sesso nell’età moderna, Laterza, Bari.
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portava un pericolo ben più grave all’ordine ed all’unità della famiglia e,
oltre a ciò, determinava il rischio della turbatio sanguinis.
Per resistenze di ispirazione storica e di carattere culturale, il diverso
regime resisté fino agli anni 1968-1969 (quando sono intervenute le
sentenze nn. 126 e 147 della Corte Costituzionale), nonostante che la
Costituzione, sin dal 1947, avesse affermato che « il matrimonio è ordinato
sull’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi » (ex art. 29, 2º comma).
Infatti, con l’emanazione della Costituzione repubblicana del 1948, l’ordine
dei valori si capovolge: i rapporti non sono più gerarchici e autoritari ma
essenzialmente fondati sul rispetto della dignità dell’essere persona. “La
famiglia non è più una entità gerarchicamente ordinata che nel marito vede
il «capo»: è una società naturale che si fonda sulla pari dignità, morale e
giuridica, dei coniugi”
(10)
.
La Corte Costituzionale, in merito alla diversa disparità di trattamento dei
coniugi adulteri, aveva ritenuto in un primo momento (con sentenza n. 64
del 1961), che tale disparità non fosse in contrasto con il principio di
uguaglianza garantito dall’art. 2 della Carta Costituzionale e che fosse,
invece, giustificato “in ragione dell’unità familiare”, ravvisando nella
condotta illecita della moglie una più grave e maggiore influenza sulle
“delicate strutture e sui più vitali interessi della famiglia” , e considerando il
grave “turbamento psichico” che poteva essere arrecato ai figli e la
possibilità di introdurre, in seno alla famiglia legittima, eventuali figli
illegittimi.
Anche in ambito penale era evidente la disparità di trattamento tra i
coniugi.
Il codice penale del 1930 prevedeva il reato di adulterio all’art. 559
(11)
.
Questa norma puniva la moglie adultera (in caso di rapporto occasionale)
10
RUSCELLO F., 2002, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio , in Trattato di diritto di famiglia, a cura
di Ferrando, Fortino e Ruscello, I, 1, Giuffrè, Milano, 725s.
11
Nel 1961 la Corte Costituzionale fu investita del problema della legittimità costituzionale dell’art. 559
c.p. in rapporto all’art. 29 della Costituzione che sancisce la parità dei coniugi: la Corte dichiarò
infondata la questione di legittimità costituzionale e la rigettò (con sentenza 64/1961), per poi
accoglierla nel 1968.
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con la reclusione fino ad un anno ed elevava la pena fino a due anni nel caso
di relazione adulterina (che è un rapporto abituale).
Poteva essere punita anche la moglie separata, ex art. 561, a meno che la
separazione non fosse stata dichiarata per colpa del marito.
Il delitto non era punibile d’ufficio, bensì a seguito di querela, del cui diritto
era titolare unicamente il marito.
L’adulterio dell’uomo non era punito, a meno che la relazione non avesse i
connotati previsti dall’art. 560, secondo il quale il marito che tenesse una
concubina «nella casa coniugale o notoriamente altrove» era punito con la
reclusione fino a due anni. Per escludere la punibilità era pertanto
sufficiente che l’uomo agisse con discrezione e, pur avendo una concubina,
non rendesse pubblico il fatto
(12)
.
La Corte Costituzionale successivamente mutò il proprio orientamento e le
norme appena descritte furono travolte dalle decisioni di incostituzionalità
n. 126 del 16-19 dicembre 1968 e n. 147 del 27 novembre – 3 dicembre 1969.
La prima decisione della Corte dichiarò incostituzionali i primi due commi
dell’art. 559 c.p., che punivano la donna adultera ed il suo correo
(13)
;
nell’anno successivo furono dichiarati incostituzionali il terzo comma
dell’art. 559 (relazione adulterina della donna), l’intero art. 560 (concubinato
del marito) ed i successivi artt. 561, 562 e 563
(14)
.
Il codice penale , da quel momento, non previde più, come reato, né
l’adulterio della donna, né il concubinato dell’uomo.
Le disparità tra moglie e marito erano considerevoli anche nell’ambito civile
(art. 151 comma 2, c.c.), ove era previsto che solo l’adulterio della moglie
costituiva sempre valido motivo di separazione, mentre l’adulterio del
marito assurgeva a giusta causa di separazione solo quando sarebbero
12
IL DIRITTO, 2007, Enciclopedia giuridica, diretta da Patti S., I, Arti Grafiche s.p.a Bergamo, voce
Famiglia (i delitti contro la), 326.
13
Corte Cost., sent. 16-19 dicembre 1968, n. 126, in Arch. Pen., 1969, II, 3, Giur. It., 1969, I, 416.
14
Corte Cost., sent. 27 nov.-3 dic. 1969, n. 147, in Giur. It., 1970, I, 1, 207, Giust. Pen., 1970, I, 46.
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concorse circostanze tali da attribuire al fatto carattere di ingiuria grave nei
confronti della moglie
(15)
.
Anche questo articolo fu in parte abrogato dalla decisione n. 147 della Corte
Costituzionale del 1968, e in parte definitivamente modificato dalla riforma
del diritto di famiglia del 1975.
La riforma del diritto di famiglia, con legge n. 151 del 1975, ha
definitivamente posto alla base dei rapporti tra i coniugi il principio della
parità giuridica e morale degli stessi che l’art. 29, 2º comma, della
Costituzione aveva enunciato sin dal 1948.
Il termine adulterio è scomparso dai codici civile e penale, ma è
sopravvissuto nel glossario della giurisprudenza, che lo ha considerato la
causa principale, in un primo momento della “colpa” e, successivamente alla
riforma del 1975, dell’ “addebito” delle separazioni personali dei coniugi
(16)
.
È grazie a tale riforma che, attualmente, il codice civile considera allo stesso
modo l’infedeltà della moglie e del marito all’interno del matrimonio, e in
attuazione del precetto contenuto nell’art. 143 c.c. , per il quale «con il
matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono i
medesimi doveri».
Unico limite all’eguaglianza riguarda il cognome della donna coniugata: la
moglie aggiunge al proprio il cognome del marito (art.143 bis) e lo conserva
fino a divorzio o annullamento del matrimonio.
Anche nella Bibbia l'adulterio, considerato un peccato, indica un qualsiasi
rapporto sessuale volontario di una persona sposata con altri al di fuori del
vincolo coniugale; inoltre la fornicazione
(17)
viene equiparata all'adulterio,
con la sola differenza che quest’ultimo coinvolge la proprietà di un altro
coniuge
(18)
.
15
PILLA V., 2004, Gli obblighi coniugali e la responsabilità civile, a cura di Cendon P., in Persona e danno,
III, Giuffrè, Milano, 90.
16
Oggi il termine adulterio è caduto in disuso e lo sostituisce l’espressione “relazione extraconiugale” o
“infedeltà”. Infedeltà vuol dire infrangere il patto fiduciario (in foedus: contro un patto) che ha nel
matrimonio il suo atto esplicito.
17
Significa avere un rapporto sessuale volontario fra persone non sposate tra loro.
18
www.wikipedia.org, L’Enciclopedia libera, voce adulterio.
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L'adulterio è proibito nella Bibbia perché viola il concetto della santità della
famiglia e del matrimonio. Più specificatamente questo peccato è descritto
nel Levitico 18:20 : "Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo
prossimo per contaminarti con lei".
Questa infrazione è considerata tanto grave da meritare la morte: “se uno
commette adulterio con la moglie di un altro, se commette adulterio con la
moglie del suo vicino, l’adultero e l’adultera saranno messi a morte” (Levitico
20:10).
Sebbene la legge di Mosè non specifichi come vada eseguita questa pena,
essa è spiegata nel Nuovo Testamento come lapidazione: "Or Mosè, nella
legge, ci ha comandato di lapidare tali donne; tu che ne dici?" (Giovanni 8:5).
Così pure in Deuteronomio 22:13-21: “Se una fanciulla vergine è fidanzata, e
un uomo trovandola nella città, si sarà giaciuto con lei (avrà così privato il
fidanzato della verginità della futura moglie), siano ambedue condotti fuori
della porta della città e siano lapidati, finché muoiano: la fanciulla, perche,
pur trovandosi in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha violato la donna
del duo prossimo. Togli così il male di mezzo a te.”
Dato che la pena di morte poteva essere inflitta su una persona "colta in
flagrante adulterio", la donna sospettata dal marito d'aver commesso
adulterio doveva essere sottoposta a un'ordalia
(19)
per stabilire la sua
innocenza o essere manifestata come peccatrice da un giudizio divino.
Sebbene le leggi penali nella Bibbia considerino solo la trasgressione di fatto
del comandamento della castità matrimoniale, la legge cristiana condanna
pure le pratiche adultere commesse dall'occhio e dal cuore (adulterio
platonico, cfr. Giobbe 31:1,7). È soprattutto Gesù Cristo che mette in
evidenza questo "adulterio platonico o sentimentale" nel Sermone sul monte
(Matteo 5:27-28), dove lo equipara a un adulterio di fatto.
Ugualmente severa era la condanna fatta da Gesù agli ipocriti che
condannavano l'adulterio proprio quando essi stessi si rendevano colpevoli
19
Antica pratica giuridica secondo la quale l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato venivano
determinate sottoponendolo ad una prova dolorosa o ad un duello. La determinazione dell’innocenza
derivava dal completamento della prova senza subire danni oppure dalla vittoria nel duello.