INTRODUZIONE Il soggetto, secondo un'idea che si fa risalire a Cartesio, ha un'autocoscienza
trasparente a se stessa e una razionalità salda. È impressione condivisa che possiamo
accedere ai nostri stati mentali e conoscerli con precisione. Il cogito razionale nel
caso commetta errori di giudizio è perché il corpo pulsionale lo influenza di tanto in
tanto. In questo modo si assiste a una duplice scissione: da una parte la
categorizzazione ontologica sostanziale pone mente come anima pensante,
indipendente dal corpo emozionale e pulsionale; dall'altra, si tende a ribadire che
l'uomo sia tutt'altra cosa rispetto al mondo animale, ossia, evoluzionisticamente
speciale. Gli altri animali non avrebbero consapevolezza, sarebbero semplici
macchine che non provano dolore.
In tempi recenti, in diversa misura rispetto al Settecento, alcuni autori presentano
forme più o meno velate di dualismo cartesiano, anche in ambito scientifico. Dal
nostro punto di vista supporre una specialità dell'uomo nella catena evolutiva
significa non tener conto delle basi stesse della teoria darwiniana, ancora oggi, la
migliore teoria scientifica sulle origini e l'evoluzione delle specie. Affermare che
l'uomo non sia speciale significa trattarlo alla stessa stregua degli altri animali,
presentando invece che una differenza qualitativa, una specificità quantitativa.
Un'idea di questo tipo significa porre l'individuo in un contesto naturalistico
gradualista più appropriato, abbandonando filosofie relativistiche e spiritualistiche.
Tutti questi spunti tendono a sottolineare un'idea fondamentale: l'uomo possiede il
linguaggio, l'autocoscienza, e, in generale, una mente, poiché nel corso del processo
di ominazione la selezione naturale ha selezionato gradualmente e in tempi
lunghissimi, determinati meccanismi cognitivi cablati nel cervello, che vincolano il
soggetto in ogni suo movimento, pensiero, azione e capacità cognitiva.
Molti culturalisti credono che alla base delle capacità umane ci sia il linguaggio e
la cultura. L'uomo nascerebbe con pochissime determinazioni interne, con una
generica predisposizione all'apprendimento che man mano la cultura contribuisce a
migliorare, tramite meccanismi stimolo-risposta. Oggi la ricerca empirica, le
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neuroscienze e il cognitivismo hanno appurato che la mente non è una scatola nera
alla nascita, che va riempita nel corso del tempo. La mente risulta piuttosto come un
coltellino svizzero multifunzionale, che ha bisogno necessariamente degli stimoli
ambientali per svilupparsi. L'uomo non vive da solo, ha sempre vissuto con i propri
conspecifici in una determinata nicchia ambientale. Non può quindi fare a meno
dell'ambiente. Non per questo si può inferire che la cultura e l'ambiente plasmino a
piacimento il cervello. Esso è costituito di meccanismi, chiamati moduli, che si
attivano nel corso dell'infanzia da determinati stimoli esterni.
Nel corso di questo lavoro andremo a sottolineare le differenze fra la prospettiva
innatista e quella culturalista, preferendo senza ombra di dubbio una visione
dell'individuo che parta dal basso verso l'alto o bottom-up . Per fare ciò ci dobbiamo
avvalere di strumenti interdisciplinari, che facciano riflettere sulle origini cognitive
delle capacità individuali. Due vincoli metodologici ci sembrano di vitale importanza
per comprendere la mente umana. La plausibilità evolutiva , per cui l'individuo è
frutto del processo darwiniano di selezione naturale; e la plausibilità cognitiva , il
presupposto per cui tutte le manifestazioni culturali dell'individuo sono frutto di
strutture cognitive sottostanti, cioè del modo in cui è fatto il cervello. Nel primo
capitolo getteremo le basi per congedare l'idea classica romantica dell'individuo,
ossia, l'assunto di un'autocoscienza salda, trasparente, indipendente e intenzionale.
Freud e Darwin costituiscono il fulcro da cui partire per presentare un'idea di mente
come sistema inconscio che elabora informazioni su rappresentazioni e, in generale,
favoriscono una concezione più laica e realistica dell'individuo. Quest'idea di mente
fa riferimento alla modularità massiva del moderno cognitivismo. La mente è
concepita come un sistema di elaborazione d'informazioni, che elabora i dati
provenienti dall'ambiente e dalle sensazioni interne. La realtà monitorabile
dall'individuo non è colta oggettivamente, bensì tramite un apparato percettivo
specie-specifico che è soggetto a un'incessante interpretazione e a errori percettivi.
Il secondo capitolo vuole entrare più nello specifico nel tema della coscienza. La
possibilità di avere un io procede per tappe, che vanno di pari passo con lo sviluppo
cognitivo del bambino. La coscienza si distingue dall'autocoscienza introspettiva. La
prima è un monitoraggio che appare fin dai primi anni di vita. È un proto-sé non
consapevole e automatico. La seconda è un sapere di sapere, qualcosa che diamo per
scontato, perché equivale alla sensazione privata dei nostri ragionamenti mentali, ma
che, tuttavia, presenta dei problemi metodologici. Quando parliamo di accesso
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introspettivo, tutti noi ingenuamente crediamo di saper spiegare i nostri stati mentali
e i comportamenti. L'autocoscienza si presenta nella forma di un'autocoscienza
giustificativa, descrittiva e narrativa. Essa fa uso della memoria esperienziale,
autobiografica e semantica per poter funzionare. Il ricordo è una ricostruzione di
eventi passati, che ci aiutano a tessere la trama della nostra identità. Tanto più un
ricordo è associato a una forte emozione, tanto più sarà vivo e presente nella mente
nel tempo. Ci chiederemo: l'autocoscienza è analizzabile dalle scienze della mente?
O è un'esperienza cui soltanto il soggetto può accedere? Sono domande legittime?
Indagheremo come il cervello ricostruisce la realtà circostante e come funziona
l'apparato percettivo. Il linguaggio svolge un ruolo fondamentale per l'autocoscienza
senza il quale rimarrebbe una coscienza minimale alla pari di quella animale. Ci
distanzieremo dalla prospettiva che immagina la mente, il linguaggio e
l'autocoscienza come un mistero, frutto di un salto nella scala evolutiva o che siano
dominate dall'esterno, ossia, dalla cultura e dall'ambiente.
Il terzo capitolo ha intenzione di illustrare come il soggetto descriva se stesso,
costruisca un'immagine di sé accettabile e riconoscibile attraverso l'autonarrazione.
L'autocoscienza è qualcosa di molto meno saldo di quanto appaia, cambia col tempo,
ed è soggetta a rielaborazioni e autoinganni. L'autoinganno è ciò che ci rimane di più
importante delle teorie freudiane. L'idea di un'autocoscienza salda e introspettiva si
scontra con la natura funzionale neurocognitiva. È l'idea stessa di un accesso
introspettivo che è in discussione, perché ingannevole. Molti autori dal Settecento in
poi hanno messo in dubbio l'idea che l'autocoscienza sia trasparente a se stessa, così
come la intendeva Cartesio. Autori come Bacone, Nietzsche, Darwin, Freud e Marx
si accorgono ben presto che l'idea di una mente autotrasparente e razionale non
regge. L'uomo non è completamente libero, ma è dominato da qualcosa di non
conoscibile aprioristicamente. La razionalità non è così salda, ma errori nel
ragionamento e nel processo decisionale fanno parte del modo in cui è organizzato il
pensiero stesso. L'uomo s'illude di possedere il controllo di sé, di avere
un'autocoscienza salda cui può attingere in qualsiasi momento. Freud ci insegna che
l'uomo è predisposto all'autoinganno, e a pensarsi un po' meglio di quanto appaia.
Egli, inoltre, spesso si comporta in modo controverso, credendo e allo stesso tempo
non credendo una determinata proposizione. Il soggetto sta nel mondo in un continuo
compromesso tra vincoli cognitivi e pressioni che arrivano dall'esterno. Egli appare
più precario rispetto a quanto pensasse Cartesio. Il soggetto se interrogato sul proprio
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agire ricorre a un sistema di spiegazioni accreditato che fa uso di confabulazioni e
falsi ricordi per giustificare il proprio comportamento. È il tema della malafede, il
rifiuto di verità scomode che intaccano l'autostima individuale. Egli genera di
continuo credenze narcisistiche, che vanno alla ricerca delle cause di un determinato
problema.
L'autoinganno nello specifico è stato affrontato da molte discipline. Qui ci
avvarremo di una tesi compatibilista-cognitivista, che prenda le distanze sia
dall'eliminativismo – l'annullamento delle manifestazioni soggettive considerate
completamente inspiegabili quindi inesistenti – che dallo scetticismo – l'assunto per
cui non si può ricorrere al funzionalismo per spiegare fenomeni qualitativamente
inafferrabili, ma dovremmo fare appello a qualche attività intenzionale da parte
dell'individuo. Gli autoinganni della mente ci mettono di fronte all'identità
individuale che risulta esposta al rischio della perdita della presenza . Giovanni Jervis
ci aiuta a riflettere sulla natura del soggetto che è composto da difese più di quanto
pensasse Freud. Ci si chiede allora non più soltanto come sia possibile
l'autocoscienza, ma come possa darsi un'identità se il soggetto parte da una
condizione ontologicamente fragile. Il bambino fin dai primi anni chiede chi sia, ed è
impegnato in una costante ricerca di una propria identità, ma allo stesso tempo si
chiede se così com'è vada bene. Qualora queste conferme dovessero mancare, si
assiste ad ansia, nevrosi, patologie o crisi della presenza. La presenza demartiniana
da prettamente culturale assume qui una connotazione naturalistica, essendo egli
stesso, inconsapevolmente, anticipatore della psicologia del self . L' esserci nel mondo
non è certo né garantito, non è una sostanza pensante cartesiana, né trascendente e
invariato nel tempo. L'autocoscienza è un continuo riappropriarsi di una mancanza,
sempre in bilico tra la propria e altrui concezione di se stessi, tra ricerca individuale e
situazione storica contingente.
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CAPITOLO PRIMO CRISI DELLA CONCEZIONE CLASSICA DELL'INDIVIDUO L'immagine classica occidentale dell'individuo ha cominciato a perdere credibilità
alla fine del Settecento, grazie al lavoro di pensatori critici che hanno messo in
dubbio l'idea tradizionale di un'autocoscienza forte e trasparente a se stessa.
Possiamo citare tra le avanguardie critiche figure come: Nietzsche, Freud e Marx, –
tra cui Giovanni Jervis fa figurare Darwin (Jervis 2011, p. XX) – i quali fanno parte
di quella che Paul Ricœur chiama "scuola del sospetto". Il sospetto riguarda l'idea
che la mente razionale dell'uomo non sia data a priori, che, al di là delle apparenze, ci
sia un realtà che non è perfettamente conoscibile dall'individuo, che non sia così
trasparente come apparirebbe; il dubbio sull'esistenza stessa della coscienza;
«l'illusione che la morale dell'uomo civilizzato sia definitivamente superiore a quella
del bambino, dell'animale, del primitivo» (Jervis, Bartolomei, p. 31). Gli ideali
romantici di stampo umanistico-filosofico, tipici dell'età moderna, sfoggiano
un'immagine spirituale dell'uomo vicina alla tradizione cristiana. Da una parte
troviamo l'organismo meccanico e automatico, e dall'altra «un insieme spirituale e
strettamente unitario di facoltà primarie, cioè non derivate, donate all'uomo da Dio:
la coscienza, la ragione, il linguaggio, la volontà, l'intelligenza, il libero arbitrio, la
facoltà di capire e giudicare moralmente» ( ivi , p. XVI). Il corpo avrebbe un ruolo
minoritario rispetto alla ben più nobile mente razionale, poiché appartenenti a entità
ontologiche diverse. Un'immagine dualistica di questo tipo è stata predominante
nella cultura filosofica, e Descartes rappresenta lo stereotipo di quest'ideologia. Per
Cartesio è assolutamente evidente che possiamo basarci sulla mente, perché la
percepiamo, ascoltiamo il flusso dei nostri pensieri. Secondo il filosofo francese, il
fatto stesso di mettere in dubbio l'inconoscibilità di quello che sentiamo, è la prova
tangibile dell'esistenza della mente razionale. Si presume, quindi, che ognuno di noi
sia «"garantito" fin dal momento del suo concepimento, da una sorta di diversità, o
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essenzialità, legata alle particolarità della mente» (Jervis 1999a, p. 125).
Quest'antropocentrismo innalza l'uomo a dominatore sulla natura, garantisce
all'individuo una piena responsabilità sulle proprie intenzioni. Tutto questo
rispecchiava l'ideale ottocentesco dei paesi industriali europei, che legittimavano le
proprie azioni durante il periodo colonialista.
Psicologia e medicina hanno per molto tempo tentato di comprendere i problemi
del corpo senza trattare la mente, con il conseguente ritardo nello studio biologico
della mente-cervello. In Italia l'eredità darwiniana non sempre viene riconosciuta,
cosi come le applicazioni della psicologia moderna, come ci fa capire Jervis in
questo passo:
«In Italia, per esempio, lo spiritualismo cattolico e la filosofia idealista,
incoraggiati dal nazionalismo del periodo fascista, mantengono a lungo un clima ostile
alla ricerca psicologica. […] Le ricerche sperimentali sono trattate in modo sprezzante
[…] e la psicologia acquista il suo più autentico significato solo se è psicologia
filosofica, cioè riflessione sull'anima, quindi scienza dello spirito soggettivo che cerca
la propria verità nel rapporto con il logos » (Jervis 1999b, pp. 69-70).
Oggi l'ideologia romantica, filosofeggiante, scettica verso la scienza, è molto
attiva come due secoli or sono. Alle ricerche empiriche, queste filosofie di vita,
preferiscono affidarsi all'arte e alla letteratura, oppure a varie forme di tradizioni
popolari, mantenendo «un atteggiamento favorevole verso tutte le credenze
esoteriche, occultistiche e irrazionalistiche, e incoraggiando atteggiamenti di
ammirazione nei confronti di capi e maestri spirituali» (Jervis 2001, p. 35). Secondo
le teorie culturaliste oggi in voga, la specie umana è contraddistinta da una
straordinaria carenza di istinti e determinazioni biologiche che rende possibile una
maggiore sensibilità al contesto e una più ampia possibilità di apprendimento.
«[…] dato che tutto diventa opinione, e dove soggetto e oggetto tendono a
confondersi, emerge una estrema e, in un certo senso, affascinante difesa della libera
creatività della mente e delle infinite molteplicità dei punti di vista. Questi pensatori
designano oggi le proprie posizioni (che naturalmente non sono tutte identiche fra
loro) con un ventaglio di termini quali […] costruttivismo, olismo umanistico,
narrativismo, postmodernismo, pensiero debole, relativismo conoscitivo,
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postrelativismo ermeneutico, anarchismo metodologico, indeterminismo epistemico,
poststrutturalismo, decostruzionismo» (Jervis 1999b, p. 61).
Gli esseri umani, secondo un’idea fatta risalire all’Illuminismo, sono ciò che sono
unicamente in virtù del loro inserimento in un contesto storico-culturale, che li
sottrae allo stato di bruta naturalità da cui provengono ( cfr . Ferretti 2007). Quindi,
l’umanità sarebbe un fenomeno "speciale", l'uomo non si sarebbe evoluto per gradi
ma avrebbe compiuto un salto, il che non significa certo una magia, tuttavia si tratta
di un balzo che ha formato un essere di qualità diversa.
Ci sembra doveroso prendere le distanze da quest'atteggiamento, per instaurare un
modello naturalistico dell'origine dell'uomo. Charles Darwin ci ha fornito un modello
della natura umana che tuttora è quello più accreditato. L'influenza del Darwinismo
su tutta la psicologia e biologia del Novecento è di notevole importanza per una
concezione più laica e realistica dell'individuo. Le sue riflessioni ci permettono di
abbandonare idealismi e filosofie spiritualistiche, ponendo l'accento sull'evoluzione
per selezione naturale delle specie e che tra uomo e animale ci sia una differenza di
grado, piuttosto che strettamente qualitativa. Le strutture cognitive umane frutto
dell'evoluzione danno forma e vincolano le manifestazioni culturali, pensiero e
azioni religiose incluse. «Darwin ci ha consegnato una possibilità radicale: quella di
concepire le origini delle specie umana in termini esclusivamente naturali e con gli
strumenti della scienza, prescindendo completamente da cause trascendenti o
finalistiche» (Pievani 2006, pp. 4-5).
Ad un attento esame emerge, alla pari di Darwin nel suo libro sulle emozioni o
sulla discendenza dell'uomo, che Sigmund Freud andava alla ricerca di quei principi
biologici e oggettivi di cui la scienza aveva bisogno. Sapeva che una teoria del
comportamento non potesse essere campata in aria, ma si dovesse basare su una
plausibilità psicologica evolutiva. Freud è stato uno dei precursori nello studio della
parte "oscura" della mente. Egli, postulando meccanismi inconsci della psiche che
condizionano l'individuo, fa intendere che la mente razionale è assai meno
autocosciente e libera di quanto si vorrebbe. Il corpo pulsionale influenza l'anima
razionale ben più di quanto pensasse Cartesio. Freud afferma che l'uomo viene
giocato dal proprio io, c'è qualcosa che lo domina, che gli da un'illusione di auto-
determinatezza che in realtà non possiede. Da questo punto di vista l'individuo non è
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pienamente padrone delle proprie decisioni, perché esse possono essere dominate da
fattori che il soggetto non domina completamente.
Oggi non ci si chiede tanto cosa sia la coscienza, quanto come è possibile che
esista una sensazione di questo tipo. Questi autori mettono in crisi l'immagine
classica dell'individuo, perché pongono le basi per trattare l'uomo e la coscienza in
termini naturalistici. In questo capitolo, ci soffermeremo più nel dettaglio sul
pensiero darwiniano e freudiano, passando, successivamente, in rassegna il pensiero
cartesiano, per poi analizzarne i limiti interni. Antonio Damasio ci fornirà ottimi
spunti per controbattere la scissione ontologica tra mente razionale e corpo
pulsionale. Ripercorreremo la storia dello studio della mente dai primi esperimenti
scientifici dell'Ottocento fino alla moderna concezione dell'individuo dal punto di
vista della scienza cognitiva.
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1.1 DARWIN E L'EVOLUZIONE DELLE SPECIE "Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più
intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti"
(Charles Robert Darwin).
1.1.1 Quel "ghiottone" nel mondo di Paley Charles Robert Darwin (1809-1882), prima de l’Origine delle specie (1859), è
uno studente di Cambridge (che pensa di diventare parroco di campagna) e, nel
primo anno (1830), prepara l’esame: Evidence of Christianity di William Paley
(1743-1805). Egli ne rimane profondamente affascinato, soprattutto per la sua logica
persuasiva, che sfoggiava come la natura sia magnifica e come il creatore potesse
rivelarsi ai credenti. La visione religiosa del mondo di quell'epoca dominava anche
sui presupposti scientifici, ossia: l'idea di un sommo progettista, architetto del mondo
creatore di tutte le cose con il proprio "Disegno Intelligente", che minaccia di punire
i miscredenti e di donare speranza dopo la morte. Paley usa argomentazioni per
analogia, prive di fondamento scientifico, ma intuitive, facilmente comprensibili e
all’apparenza inattaccabili. Se in una brughiera troviamo un orologio, egli dice,
pensiamo che esso sia stato costruito da un orologiaio, allo stesso modo, se
guardiamo alla magnificenza dell'universo, non possiamo che dedurre l’esistenza di
un’attività intenzionale che abbia progettato tutto. Il mondo di Paley è concepito
finalisticamente, in modo ordinato, criticando le tesi materialistiche biologiche che
cominciavano a prendere piede nell'Ottocento. Così le specie non possono essersi
evolute in altra maniera, se non per grazia divina. Non stupisce la fascinazione di
Darwin per la teologia naturale di Paley, visto l’ambiente conformista anglicano e la
mancanza di una classe di scienziati professionisti e stipendiati.
Dal 1837 Darwin compie viaggi con un «club di ghiottoni la cui prerogativa era
assaggiare in compagnia le carni più strane e talvolta ripugnanti» (Pievani 2006, p.
14). Per mare, con il brigantino "Beagle" le evidenze geologiche della trasformazione
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